Echi gialli di Apolae ⥀ Passaggi

Per la rubrica dedicata alla prosa breve Passaggi pubblichiamo il testo Echi gialli di Apolae insieme a un’illustrazione di Stefano Sartori. L’editoriale della rubrica può essere letto qui

Immagine in copertina di Stefano Sartori, Senza titolo, 2022.

 



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Ti accarezzo con lo sguardo, aiutando la goffa camicia da notte a trovare una posizione decorosa sul letto. Ne hai infilata una ben più larga del necessario, perché si sa che a te piace abbondare, estendere la persona tramite le tue opere e ciò che esse intessono nell’ampia rete del vivere, generosa verso te stessa e chi gira intorno. Amarti è così facile, prodiga. I lembi del tessuto scivolano sui tuoi lombi e lambiscono il limbo della tua attesa, non più dolce su queste lenzuola ancora ignare e immacolate, di cui brami la fine giusto appena imboccato l’ingresso. Fiuti la mia inettitudine pur dalla distanza siderale dalla quale mi scruti, prodigiosa. Mi sento totalmente fuori luogo, come un grezzo monile appoggiato per sbaglio sulla teca principale della mostra. Provo a rendermi utile respirando il mio fiato più sottile e ripiego in un angoletto, privo di scomposte iniziative, pronto ad aiutarti per qualsiasi richiesta: un morbido cuscino sotto la schiena, un bicchiere d’acqua ristoratore, un aggiornamento colmo d’ansia sui giri delle lancette.
In reparto ci hanno assegnato la stanza gialla, di nome e di fatto, tanto a te non fregava niente del colore, neanche se avessi potuto scegliere il tuo blu oltremare, allora ci troviamo tra queste pareti gialle, avvolti da una luce calda. Lo sgabello sul quale sono appollaiato è giallo, così come gialli sono i mobili che adornano il locale, la testata del letto, le ante dell’armadietto, il fasciatoio e lo strofinaccio che lo copre, senza contare la fitball color senape, la sedia olandese paglierina, la corda zafferano appesa. Tonalità e sfumature si rincorrono nello spettro per convergere tutte sul colore eponimo e ti osservo meglio, baciata dai faretti a tremila Kelvin sulla pelle delle tue mani giunte, preziosa, dorata come la Madonna di Zagabria. Mormori un sofferto Padre Nostro, alla ricerca di un equilibrio smarrito nel tuo tribolare, io mi unisco alla tua preghiera, offrendo un vile proposito a una moltitudine di divinità, Fai soffrire me non lei prendi me ti imploro, conscio che non accadrà nulla di nulla e mi sto candidando a vuota pedina di scambio per un destino già disegnato nel tuo utero. Amen.
È indescrivibile l’emozione di starti accanto in questi dodici rintocchi di travaglio, proprio per me, poi, che amo giocare coi suoni, allora stringo la tua mano durante gli interminabili spasmi di ogni contrazione, abbraccio nei rapidissimi sollievi di riposo, conto i secondi per te, coordino le respirazioni al ritmo dei nostri brani soul preferiti. Mi hai chiesto di preparare una chiavetta da ascoltare in sala parto: Al Green, Marvin Gaye, Bill Withers, Smokey Robinson, Leon Ware, Syl Johnson e Teddy Pendergrass. Da Detroit a Memphis, passando per Chicago, ho mietuto per te un fascio di ugole brune, Sh-sh-sh, non dire niente adesso. Ascolta Donny Hathaway che ci blandisce sul velluto di I Love You More Than You’ll Ever Know. Lo so, non hai da ricordarmelo, questo brano ti piace poco, ma ho voluto inserirlo a sorpresa, sai che non riesco a obbedire agli ordini. A meno che tu mi soverchi col tuo lucido tacco da nove. Va bene così, per il momento. Ci sarà tempo anche per quello.
Intanto c’è da fare con le spinte decisive, anticamera dell’espulsione finale. Tu sei un mantice infuocato, aperto e chiuso e aperto e chiuso, che svalvola sbuffi di vapore dalla bocca e mi stringi ancora la mano come se dovessi spremere l’ultimo pompelmo del raccolto, salda e furiosa, sempre più serrata, fino a strizzare l’ultima stilla di succo, ecco, quasi mi fai male con quella manina esile e indemoniata. Conto ad alta voce le spinte. Assecondando la cadenza dei tuoi incontrollabili impulsi, le nostre azioni si intrecciano forsennate, il ritmo è quello giusto, finalmente, umido, sì, profondo e ferale. Vedo il tuo sguardo incenerire quella troia dell’ostetrica, quando sgrana i bulbi degli occhi e chiede allibita, spalancando le labbra carnose, Ma te sei maestro di yoga? Allora mi tiri gelosa verso i tuoi addominali tesi, stringendo la cinta con forza, per riappopriarti del corpo che sai averti fecondato. Che io spero ti abbia fecondato.
Una lenta e paziente lievitazione di nove mesi, attraverso i quali sei evoluta in una donna diversa. Non migliore, per carità, siamo realisti. E non peggiore, a essere sinceri. Hai sfrondato il tuo ego di chiome che hai scoperto essere inutili, riassorbito gradualmente i miasmi dei veleni di tua madre, plasmato la vecchia sostanza in una nuova forma. Io ti guardo e ammiro questo tuo percorso con tutti gli umori che impregnano vene e arterie, in un cantuccio della mia maschitudine lo invidio, benché non sarei mai stato capace di attraversarlo come te. Io un tale dono lo avrei sgraziato della mia bestiale debolezza. Se Dio, la Natura, o il Caso te l’abbiano concesso, un valido motivo dev’esserci. Degna del ruolo, ti spazzolo i capelli madidi di lacrime finché al culmine di uno strazio inconcepibile sforni una tremante creaturina violacea, il nostro ennaedro insanguinato, riposto su un panno bianco come una gemma grezza scrostata dal sottosuolo. Continua a tremare, la neonata, gonfia dei suoi primi inevitabili sforzi. La senti gridare una singola nota, inconsolabile, squarciata nel tentativo di raggiungerti, di agganciarsi istintiva al tuo urlo di dolore. Vi ascolto inerte, con la tua mano che lentamente schiude la morsa sulla mia cintura per accasciarsi sul telo sgualcito, nel prolasso finale di un materno orgasmo liberatorio, in questa piccola camera gialla che prima è stata di altri e a breve sarà di altri ancora, ma ora è solo nostra. Non siamo le prime voci che rimbalzano nel giallore di questa stanza, né le ultime. In noi rintocca il timbro sfavillante di echi primordiali, sentilo, il brano più splendente nell’orizzonte degli eventi, che orbita attorno a un granello di sabbia.

 

 

 


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Apolae
Stefano Sartori, Senza titolo, 2022.