Esci dal tuo “io” verso il tuo altro ⥀ Non scusarti per quel che hai fatto di Mahmoud Darwish

Recensione a cura di Rossella Renzi della raccolta poetica Non scusarti per quel che hai fatto (Crocetti, 2024) del poeta palestinese Mahmoud Darwish, edito in Italia nella traduzione di Sana Darghmouni e Pina Piccolo

 

Non scusarti per quel che hai fatto esce per la prima volta nel 2004, quattro anni prima della morte dello scrittore. Nato nel 1941 in Galilea, Mahmoud Darwish vive una vita travagliata, fatta di migrazioni forzate, esili, clandestinità, carcere, impegno politico e intellettuale. È considerato poeta nazionale, voce tra le più rappresentative e amate della Palestina, lui stesso si dichiara «cantore universale dell’amore e della libertà».
Dopo vent’anni Crocetti pubblica questa raccolta nella collana Kylix, con la traduzione e la pregevole cura di Sana Darghmouni e Pina Piccolo.

Opera considerata della maturità di questo autore, tanto amato e perseguitato, propone una densità di temi e toni che condensano molti elementi, luoghi e simboli del suo tormentato vissuto. L’esilio, le città abitate e lasciate, gli affetti e l’amicizia, l’amore e l’eros, la memoria e il ricordo sono solo alcuni dei fili che intrecciano la complessa trama della raccolta, che si caratterizza per uno stile colloquiale, spesso vicino alla prosa, e per la presenza preponderante del dialogo: interrogativi, esclamazioni, richiami, moniti. L’altro è sempre presente nei versi di Darwish, in molte forme, compreso colui che è considerato “altro da sé”, proprio come accade nel testo che dà il titolo alla raccolta: «non scusarti per quel che hai fatto, mi dico in segreto. / Al mio altro “io” dico: / eccoli, i tuoi ricordi, tutti visibili». Il dialogo è il fondamento, punto di partenza non solo della poesia ma dello sguardo del poeta sul mondo, sull’uomo e sulla sua natura, poiché obbliga alla necessità di un riconoscimento. È la richiesta di ascolto e la pretesa di una giustizia e di una possibilità che la storia ha negato al popolo palestinese: la sua voce, il suo pensiero, la sua parola risultano più che mai necessari in questo drammatico momento storico («Quindi esci dal tuo “io” verso il tuo altro / e dalla tua visione verso i tuoi passi / ed estendi in alto il tuo ponte perché il non-luogo è una trappola / e le zanzare sulla siepe ti graffiano la schiena»).

Come spiega la traduttrice Sana Darghmouni durante una presentazione del libro, secondo Darwish «avvicinare le persone e le culture tra di loro è uno dei compiti della poesia, insieme a quello di raccontare la spiritualità dell’uomo». «Io sono colui che ha visto» afferma il poeta, che si fa testimone delle vicende della sua epoca, ma deve orientarsi verso l’universale, umanizzare la storia e rispondere con la bellezza alla crudeltà del nostro tempo. Darwish lo fa in modo esemplare con i suoi versi, attenti alla forma e intrisi di contenuto, con una costante ricerca estetica, intenta ad evocare scene d’amore, la grazia terrena e il mistero dello spirito. Emergono gli elementi della tradizione della sua cultura, la mescolanza di forma e sostanza, l’incontro del sensuale con il mistico: il sogno, il sonno e la veglia, la speranza e la delusione, il richiamo costante alla bellezza, alla vita, accanto al sentore delle tenebre e della morte («Quindi prova la vita ora affinché la vita ti alleni / a vivere, / allevia la memoria di una donna / e posa / proprio qui / e ora / mettendo giù dalle spalle… La tua tomba!») La morte è presenza costante, temuta e desiderata, invocata e maledetta, compagna di strada proprio per quella frattura, quel trauma che l’io ha subito, con la conseguente frammentazione della sua identità: nel 1948 il villaggio in cui vive Darwish viene raso al suolo, e lui con la sua famiglia è costretto a scappare in Libano, per poi tonare in Palestina come clandestino.

Obbligato costantemente alla fuga e alla clandestinità, la sua dimora si stabilisce nella lingua, costituisce il suo modo di abitare il mondo, un luogo sicuro in cui custodire ciò che gli è caro e manifestare il suo amore per la poesia: «Il ritmo mi ha scelto, ma io sono un groppo in gola / sono il flusso rigurgitante del violino, ma non è il violinista / sono in presenza della memoria / l’eco delle cose parla attraverso la mia bocca / e io dico…»

Nell’opera di Darwish la poesia è soprattutto mistero, legata alla storia e al futuro, al simbolo e al reale, moglie del domani e figlia del passato, il poeta dichiara che Lei sta «in un luogo misterioso tra scrittura e parola». Sono molti i luoghi nelle pagine di questa raccolta, quelli citati (Tunisi, Siria, Egitto) e quelli celati tra gli anfratti delle immagini che scorrono tra le pagine, nei pensieri del poeta, leggeri come il vento o opprimenti e pesanti come pietre; perché loro, i poeti, con le nuvole costruiscono case e poi se ne vanno, perché le nuvole hanno vita breve nel vento «come il provvisorio eterno nelle poesie». La fragilità, il senso di precarietà, il desiderio di libertà pulsano nei testi di questa raccolta attraverso i dialoghi e le immagini delicate e allo stesso tempo graffianti, che scuotono i sensi e sollecitano riflessioni, grazie alla loro straordinaria forza espressiva: «L’amato ha sanguinato anemoni, / la purpurea terra luccicava con le sue ferite, / il suo primo canto: il sangue d’amore sparso dagli dèi, / e l’ultimo è sangue… / Oh popolo di Cananea, festeggia / la primavera della tua terra e infiammati / come suoi fiori…»

La poesia di Darwish parla alla stessa poesia, la interroga, la sogna, ne sonda il mistero come un vero e proprio accadimento. Ciò avviene ad esempio in una dichiarazione che lo scrittore riporta durante un dialogo col poeta Ghiannis Ritsos, a casa di Pablo Neruda sulla costa del Pacifico: «Domandai: “ma, in due parole… La poesia che / cos’è?” / Rispose: “È un misterioso accadimento la poesia, / amico mio, è quell’inspiegabile agognare / che trasforma la cosa nel suo fantasma, e / fa di un fantasma una cosa. Eppure potrebbe spiegare / il nostro bisogno di condividere la pubblica bellezza”».

Forse il compito ultimo di questa forma d’arte, a cui Mahmoud Darwish ha dedicato il suo lavoro e la sua vita, è quello di preservare il mistero e condividerne la bellezza. Il dovere nostro, di lettori, di esseri umani che aspirano ad una qualche forma di conoscenza o di saggezza, è quello di prestare ascolto alla parola dell’altro, con la sua luce e il suo buio, per riflettere sul suo dolore – che oggi tragicamente si rinnova – riconoscendo il desiderio di libertà e giustizia che ogni popolo della terra chiede.

 

 

Posa, qui, e ora

Posa, qui, e ora metti giù dalle spalle la tua tomba
e dai alla tua vita un’altra possibilità per restaurare la
storia.
Non tutto l’amore è morte
né la terra esilio cronico,
perché potrebbe arrivare un’occasione
e tu potresti dimenticare
la vecchia puntura di miele, come amare
senza saperlo una ragazza che non ti ama
o che ti ama, senza sapere perché
ti ama o non ti ama
o potresti sentire mentre sei appoggiato alle scale
di essere stato un altro nella dualità delle cose.
Quindi esci dal tuo “io” verso il tuo altro
e dalla tua visione verso i tuoi passi
ed estendi in alto il tuo ponte
perché il non-luogo è una trappola
e le zanzare sulla siepe ti graffiano la schiena
la zanzara potrebbe ricordarti la vita!
Quindi prova la vita ora affinché la vita ti alleni
a vivere,
allevia la memoria di una donna
e posa
proprio qui
e ora
mettendo giù dalle spalle… la tua tomba!

 

 

Ho la saggezza del condannato a morte

Ho la saggezza del condannato a morte:
non possiedo niente perché niente mi possieda,
scrissi il mio testamento con il mio sangue:
“Confidate nell’acqua, oh abitanti del mio canto”
Poi mi addormentai imbrattato e coronato dal mio
domani…
Sognai che il cuore della terra è più grande
della sua mappa,
e più chiaro dei suoi specchi e della mia forca.
Sognai una nuvola bianca che mi portava più in alto
come fossi un’upupa, e il vento le mie ali.
E all’alba fui svegliato dal mio sogno e dalla mia lingua dalla chiamata della guardia notturna: “Vivrai un’altra
morte,
cambia le tue ultime volontà,
l’esecuzione è stata rinviata una seconda volta”
Domandai: “Fino a quando?”
Disse: “Aspetta ancora per morire di più”
Dissi: “Non possiedo niente perché niente mi possieda”
Scrissi il mio testamento con il mio sangue:
“Confidate nell’acqua
oh abitanti del mio canto!”

 

 

E io, anche se fossi l’ultimo

E io, anche se fossi l’ultimo,
troverei parole…
Ogni poesia è un disegno
traccerò ora per la rondine la mappa della primavera
e per i pedoni sul marciapiede il tiglio
e per le donne i lapislazzuli…
Quanto a me, la strada mi porterà
e io la porterò sulle spalle
finché ogni cosa avrà riacquistato la sua immagine
così com’era,
e poi il suo nome originale.
Ogni poesia è una madre
alla ricerca del fratello della nuvola
vicino al pozzo:
“Figlio mio! ti darò un sostituto,
sono incinta…”
E ogni poesia è un sogno:
Ho sognato un sogno
che mi avrebbe portato e che avrei portato
fino a scrivere l’ultima riga
sul marmo della tomba:
“Ho dormito… per poter volare”.

E porterò a Cristo le sue scarpe invernali
così potrà camminare, come tutti,
dai monti più alti… verso il lago.

 

 

 


Mahmoud Darwish
Sliman Mansour, Gaza.