Estratti da Rovi di Davide Nota ⥀ Preorder Argolibri

Sette poesie estratte da Rovi di Davide Nota, ora in pre-order, dal 3 febbraio in libreria

Presentiamo attraverso sette poesie estratte dal libro, Rovi, tutte le poesie di Davide Nota, cantore dei confini della nuova civiltà globale, dove la città lascia il posto alla selva e tra i rovi si nasconde “il fiore smarrito della rivolta”.

 

 


 

I cadaveri

 

I.

 

Le croci delle antenne sopra i tetti
che scrostano l’intonaco del cielo;

per strade cementizie i ragazzetti
drogati si trascinano nel gelo

cittadino, fumando sigaretti.
Si addormono negli angoli del centro

traendo nei piumini neri, stretti
quei crani prematuri, già da dentro

rigonfi in ematomi e crosti infetti
che blu le natalizie luci al neon

ne fanno dei cadaveri perfetti.

 

 

II.

 

Su un panco addormentato il corpo nudo
(già dalle 5 e un quarto rinvenuto)

di un riso eterno ride e spaventoso:
tra i cosi lì del parco, un nuovo coso.

Ha un rivolo di sangue che discende
da un varco d’ago aperto lungo il braccio

e in eternata forma si rapprende
grumifico sugli argini di un laccio

emostatico che fanciulletto pende
e sventola, sul mondo, leggermente.

 

 

Preghiera

 

Uno un giorno si accorge che la vita
è la mancia pietosa che rimane
su una mensola deposta, una reliquia
che penzola scomposta da un altare
di ciaffi rugginosi, e allora s’alza
in una stanza giallognola, solo,
e sollevando la serranda salta
trentunenne, contro il mondo, in volo.

E quindi lo vedi signore il tuo corpo
inchiodato a che cosa è servito, sei morto
tra le risa come muore ogni giorno
qualcuno (e non posa sul fango la rosa
né perle concede la storia): che sarà
di questo mondo senza più pietà né volgo
non voglio neppure saperlo ma piango
per te o signore che hai morto
come adesso si muore un ragazzo
e che cosa hai risolto, nel mondo?

 

 

I rovi

 

Ma se una lingua inesistente sente in sé
la lontananza siderale degli astri
che di ogni corpo fanno un corpo vivo e mortale,
quanto distante è questa vita dalla vita stessa
che la anima ed ignora, immaginandola
come una cosa sola?
Ma senza fare di condizione virtù, non mima
il passo falso del presente
dove l’azione è questa pubblica parola
che non conduce a niente. Forma
il pensiero il ritmo della mente
che se non può ma vuole agire è sempre
un’illusione abietta o un desiderio
vivo
che gronda di aggettivi e oggetti. E vinto
si nasconde, non manifesta resa.
Circonda il tempo il tempo dell’attesa.

Così nel buio lo stagno lunare germoglia in un canto di rane.
Tutta la vita è un fiorire notturno senza presente né fato.
I nuovi campi di sterminio sono pieni di luce.
E in ogni oggetto è nato un occhio che inibisce l’opera.
Un cantiere di cavi cinge il letto in cui dormi.
Ma esiste ancora un luogo dove crescono i rovi
e le anime dei morti che ritornano a sera?
Chi lo cerca non trova
più niente. Una dimora
al confine di un fossato invalicabile.

 

 

I barattoli

 

Il nido è intrecciato per sempre o l’usignolo è tradito?
È il fuoco di luglio che disfa l’ordito
degli aghi di pino per sempre?
Ti immagino di nuovo scendere
verso l’origine assoluta dell’orto
col nespolo maturo e quel mio gesto
generoso, che non ho fatto.
Che splendida sorpresa, vecchia madre…
Come un albero in una feritoia
lui era andato a vedere i cavalli
in uno specchio senile, maculato
di dentifricio e impurità biologiche.
Ma i barattoli di sugo sono esplosi
e lui ancora corre nella notte.

 

 

Il ritorno

 

Non sono molte le estati della vita.
Si risorge
col sapore dell’acqua assopita
nel guscio verde e ardente della borraccia.
Ditela
la traccia da seguire, senza ritegno dite
il disegno che si nutra di invenzioni puerili
come il gabbiano stanco che tracolla sulla riva
cercando una vista nuova, una prospettiva mobile
che il crollo naturale renda idoneo al passaggio,
all’ampliamento cognitivo.

Perché le estati che ci restano
non sono molte, ditelo
che lo sguardo si impesta di putredine,
che si incrosta il coraggio nell’evocazione di un miraggio
defunto e tu che resti
nella casa guardami
allo specchio o nello schermo acceso e dimmi
se eravamo nati proprio a questo
sfiorire. Gridalo

che il sole brucia sulle vesti come un Dio ci chiama
madre dell’amore gridalo
in silenzio ad occhi chiusi a strette mani o nell’oblio ricordati
di tutto ciò che dovevamo dirci
e non ci siamo neanche sussurrati
perché non eri tu ma un prodigio maggiore
ad annunciarsi e l’hai tradito.

Dietro la curva i cani, il doloroso
amico devoto al perdono.
Non più bisogno c’è di luce ed ordine.
La carne si dissolve nello stagno.

La caffettiera è esplosa. Un mazzo di chiavi.
Si era perso nei secoli, nei corridoi.
Salvano il fiume i rovi, gonfi di more.
I bivi sono entrambi percorsi.

Io tra non molto cesserò, dovrò restare
in questo albergo spettrale
pieno di ganci e cavi elettrici e visioni
scoscese.

Nessuno mi conosce o sa chi sono e donde
vengo e quale fu
la mia missione nell’infanzia tardiva
di abeti verdi e mantidi religiose.

Ho voglia di viaggiare, ho voglia di restare immobile.
Ho voglia di cambiare, ho voglia di
restare me.

Era un segreto, un passo falso. Era un cancello, un cortile.
Era le chiavi, erano perse. Era una donna, era sul nespolo.
Era un cassetto, era nell’ombra. Era un giardino sconnesso.
I gerani sono rossi. Tu ora sanguini dal naso.

Questa mattina è bianchissima
come uno sguardo tradito.
Le soldatesse sono in fuga.
Forse cercano qualcuno.

 

 

Ballata su un videotape rovinato

 

La santa apre le braccia, braccia enormi di luce.
La vecchia con le vertebre
spaccate è nella luce.

Volti che non resistete, volti di luce.
È logico pensare che ne siamo usciti sconvolti.

Per sempre rovinato il tuo saluto resta
come inchiodato a questa
percezione magnetica.

L’acqua del pozzo è ghiaccio,
si riempie di foglie.
Lo schermo c’ha la polvere
come brina lunare.

La terra succhia gli angoli
di rami secchi e foglie.
La sabbia delle pietre è sopra
i trucioli dell’albero.

Persino la mia testa
se forzo l’unghia al cranio
perde una pelle morbida,
una polvere bagnata

che è carne morta, una
membrana da cambiare.