Europa, terra di confine: la parola a Étienne Balibar e Caterina Di Fazio
Riguardo alla parte mobile dell’umanità non c’è via di mezzo: o l’ospitalità o l’ostilità, ovvero diverse forme di eliminazione. È questo che dobbiamo scegliere, e sarà un nostro problema per anni, forse per decenni.
La Agora Europe Series, fondata da Nadia Urbinati, Étienne Balibar e Caterina Di Fazio, è orgogliosa di presentare Charta 2020, un documento sull’integrazione europea che identifica 20 beni pubblici europei che noi Europei dovremmo promuovere in quanto essenziali per la riorganizzazione di ogni futuro spazio politico. Charta 2020 è stata redatta collettivamente da decine di attivisti, studiosi e politici internazionali presso l’Istituto Universitario Europeo il 15 Febbraio 2019, ed è stata presentata al Parlamento Europeo il 20 Marzo. È stata presentata anche alla Camera dei Deputati il 16 Aprile, allo Studio Europa dell’Università di Maastricht il 29 Aprile prima dello Spitzenkandidaten debate, e alla Columbia University è stata presentata l’8 Maggio. Il lancio transnazionale di #Charta2020 è avvenuto il 9 Maggio 2019, in occasione della Festa dell’Europa.
Caterina Di Fazio (CDF): Agora Europa ha appena pubblicato il proprio manifesto “Per un’Europa politica”, che si sofferma sulla dimensione politica dell’Unione Europa, su quello che definiamo lo spazio politico europeo, basato sul principio della libertà di movimento e caratterizzato da confini porosi.
Ti sei unito a noi, Étienne, nel 2017, sostenendo la necessità di una “costituzione politica dell’Europa” e di “unità politica”. Abbiamo ragionato sul fatto che la crisi che l’Europa sta attualmente affrontando (di cui fanno parte la cosiddetta crisi dei migranti, la crisi economica, il cambiamento climatico e così via), non solo mostra che il potere delle istituzioni dell’UE è limitato, ma mette anche in evidenza che il sistema dello stato-nazione non fornisce soluzioni a questi problemi. Hai affermato: L’Europa è oggi indifendibile, abbiamo bisogno di un’altra Europa. Hai aggiunto che la rinascita del nazionalismo, o persino del neonazismo, lungi dall’essere una ripetizione del passato, dovrebbe essere interpretata piuttosto come una patologia dell’UE come essa si presenta oggi. Riprendendo Machiavelli e il “principio machiavelliano di una Nuova Fondazione” della Repubblica contro la sua “corruzione” (2017), hai auspicato un “ritorno alle origini”, che nel caso dell’Europa può essere rappresentato dal Manifesto di Ventotene scritto da Spinelli nel 1941.
Con “Charta 2020”, Agora Europa ha voluto individuare 20 beni pubblici europei. Abbiamo chiarito la necessità di una democrazia partecipativa che non sostituisca ma che integri la democrazia rappresentativa. Abbiamo anche supportato il tuo appello per la creazione di movimenti collettivi di portata transnazionale e di pratiche partecipative locali per una comunicazione transfrontaliera.
Nel suo ultimo manifesto, tuttavia, anche il Presidente francese Macron si è espresso in favore di un Rinascimento europeo. In che cosa il nuovo manifesto federalista di Agora Europa e il tuo appello per un’autentica ricostruzione dell’Europa, per una rifondazione machiavelliana del progetto europeo, differiscono dal manifesto di Macron? Quali sono i principi che ne sono alla base? Come si può rifondare l’Europa? Di quale rifondazione parliamo?
Étienne Balibar (EB): Mi sembra che nella tua prima domanda ce ne siano due, ma sono d’accordo sul fatto che sono correlate. La prima è relativa alla “nuova fondazione”; l’altra concerne il “federalismo”. È proprio per la sua evidente ed esplicita prospettiva “federalista”, unita a prospettive democratiche radicali e a un’insistenza particolare sulla dimensione sociale del progetto europeo (sotto questo aspetto molto lontano dalla logica del “metodo Monnet”), che ho voluto fare riferimento al Manifesto di Ventotene, frutto della lotta antifascista in Italia e non solo.
Ho notato che il manifesto di Agora Europa non faceva riferimento al federalismo, ma questo non mi ha scoraggiato dal sostenerlo, poiché credo anche io che il concetto di “federalismo” debba essere chiarito, e penso che l’idea fondamentale di uno “spazio politico europeo”, comune a tutti i cittadini, porterà inevitabilmente in quella direzione.
Quello che l’Europa ha oggi è un sistema di istituzioni pseudo-federali, che non dà ai cittadini europei la possibilità di partecipare a deliberazioni e decisioni comuni, ma continua a preservare il potere di veto dei governi nazionali (e, di conseguenza, impedisce paradossalmente una riflessione seria sulle trasformazioni delle nazioni e della sovranità nella nuova era globale), rifiutando di affrontare collettivamente le enormi disuguaglianze (economiche, sociali e territoriali) dell’Europa di oggi. È perciò del tutto inappropriato descrivere questa realtà come una “nuova fondazione” in senso machiavelliano.
Da questo punto di vista, l’idea centrale del manifesto di Agora Europa, cioè quella dei beni pubblici europei, esposta molto concretamente nelle varie sezioni del testo, è un’innovazione fondamentale della discussione intellettuale transeuropea. È proprio questo che manca all’idea di “rinascimento” di Macron, che ha alcuni pregi (soprattutto se non ci si sofferma sul divario fra ciò che propone per l’Europa e ciò che fa in Francia), e che è perciò respinta brutalmente sia da nazionalisti come Orbán e Salvini, sia da rigidi “ordoliberali” come il nuovo leader cristiano-democratico tedesco (che è a sua volta un nazionalista). Allo stesso tempo, però, essa esclude la possibilità di rompere con le istituzioni esistenti.
Non penso certo che sia facile, ma credo che questa sarà l’unica alternativa alla dissoluzione se (e quando) l’attuale crisi raggiungerà nuovi livelli.
CDF: Nel 2018 abbiamo scritto: “Tendiamo a pensare che i limiti dell’Unione Europea definiscano i confini ‘reali’ dell’Europa, ma non è così”. L’Europa sta attualmente rimodellando la propria geografia immaginaria per mezzo di un nuovo processo di esternalizzazione dei propri confini, ratificato dagli accordi con Libia e Turchia. Gli stati esternalizzano la gestione dei flussi di migranti e rifugiati per evitare ogni responsabilità. Una volta hai parlato della difficoltà nel determinare i limiti della Francia in quanto nazione per via dei suoi possedimenti outremer. Per quanto riguarda l’altra Europa e la presunta cooperazione nord-sud, qual è la differenza tra il fenomeno dell’esternalizzazione dei confini e il colonialismo?
EB: Anche adesso abbiamo più domande correlate (hai uno spirito dialettico…). I confini, generalmente parlando, stanno subendo una trasformazione per quanto riguarda il loro status politico, le loro funzioni socioculturali, e la loro realizzazione istituzionale nel mondo di oggi. Sono stati inventati in Europa, nel contesto del nuovo ordine vestfaliano (anche chiamato Ius Publicum Europaeum da Carl Schmitt), e sono poi stati “proiettati” all’esterno attraverso la colonizzazione. Questa ha dato vita a un continuo flusso di popolazione dall’Europa alle aree periferiche, con risultati quali la civilizzazione e lo sterminio.
Oggi esiste, certo, una tendenza difensiva, e in realtà anche reazionaria, a immaginare che questo concetto di “confine” come linea di “esclusione sovrana” possa essere trasferito dagli stati-nazione a una Grossraum europea, ma si può notare che questo progetto sta crollando prima ancora di essere realizzato.
L’unica soluzione è inventare un concetto differenziato di confine, più democratico e più “multilaterale”, che abbia come scopo dichiarato quello di organizzare e regolare gli scambi con il mondo esterno, e non di tenerli sotto “controllo”.
L’unica soluzione è inventare un concetto differenziato di confine, più democratico e più “multilaterale”, che abbia come scopo dichiarato quello di organizzare e regolare gli scambi con il mondo esterno, e non di tenerli sotto “controllo”
Quando ho detto che non possiamo definire “i confini dell’Europa” in maniera semplice e univoca, avevo in mente due problemi. Il primo è che l’Europa, in quanto entità storica e culturale – in quanto Idea, se vogliamo – non potrà mai essere racchiusa entro un unico sistema di confini. Come sappiamo, esistono molteplici “spazi istituzionali” che contengono l’Europa, e l’Unione Europea è solo uno di essi (alcuni comprendono la Russia e la Turchia, altri gli Stati Uniti d’America, malgrado il loro sempre più marcato atteggiamento “isolazionistico”). Ma soprattutto, se è necessario “provincializzare l’Europa”, citando il titolo del celebre libro di Dipesh Chakrabarty, è anche necessario preservare e arricchire i suoi collegamenti con tutto il resto del mondo, sulla base dell’uguaglianza.
Questo ci porta al secondo problema: il colonialismo. Chiaramente, l’eredità del colonialismo è visibile ovunque, sotto forma di razzismo istituzionale e politiche anti-universalistiche (ad esempio la recente – e decisamente scandalosa – decisione delle università francesi di imporre tasse addizionali agli studenti stranieri, vale a dire, sostanzialmente, agli Africani). Essa è evidente soprattutto nelle politiche interne di Paesi come la Francia, l’Italia ecc. Ma la situazione geopolitica è cambiata radicalmente. I flussi di popolazione, che durante il colonialismo erano a senso unico, sono diventati multilaterali. In questo senso, le politiche europee nel Mediterraneo, compresa l’”esternalizzazione” dei confini per sopprimere il problema delle migrazioni e dei rifugiati, sono umanamente rivoltanti, ma non sono “colonialistiche”. Il colonialismo vero e proprio è stato una politica aggressiva dell’Europa nei confronti del mondo extraeuropeo, mentre quelle a cui assistiamo oggi, per quanto possano essere violente, sono misure difensive.
CDF: Io e Nadia Urbinati abbiamo basato il nostro concetto di spazio politico europeo sulla libertà di movimento, o per meglio dire libertà di mobilità, anche nello spazio esterno a Shengen, lo spazio mediterraneo. Infatti, difendendo la libertà di movimento nell’area Shengen si rischia di fortificare i confini esterni europei, così da proteggere il territorio interno all’Europa a scapito di quello esterno. Di recente ti sei battuto per una concezione umanistica della “libertà di movimento come diritto umano fondamentale”. Circolazione, residenza e asilo sono nozioni rigorose contenute nella Dichiarazione universale dei diritti umani, eppure, come hai affermato nel 2018, il loro limite è che “l’appartenenza nazionale e la sovranità territoriale ne costituiscono l’orizzonte ultimo”. In altri termini, le sovranità nazionali possono sempre decidere se concedere o meno il diritto di asilo e se rispettare i trattati internazionali. Questo sembra non scoraggiare gli “sforzi di solidarietà della società civile” a cui assistiamo costantemente.
La società civile può spingere le istituzioni dell’UE a ripristinare il carattere legalmente vincolante dei trattati internazionali? La solidarietà transnazionale è la soluzione?
La società civile può spingere le istituzioni dell’UE a ripristinare il carattere legalmente vincolante dei trattati internazionali? La solidarietà transnazionale è la soluzione?
EB: Chiunque ne parli seriamente concorda nel dire che è una specie di circolo vizioso. Un’estensione e un’implementazione del diritto di circolazione sono possibili solo sotto forma di accordi e regolamenti internazionali, che devono essere ascritti nel diritto internazionale e in integrazioni o emendamenti della Dichiarazione universale dei diritti umani e dello Statuto delle Nazioni Unite.
Ma questi sono (per definizione) posti sotto il controllo di stati in grado di bloccare la concretizzazione di quei principi che essi ritengono andare contro i loro interessi “sovrani”. Nell’accezione giuridica del termine, essi agiscono continuamente in “malafede”. Questo fenomeno, però, non è nuovo, e non porta alla conclusione che regole e principi giuridici siano privi di valore. In realtà, se questo circolo non fosse mai interrotto, non esisterebbe alcuna legittimità internazionale. Ma questo dimostra che devono essere coinvolte altre forze che non possono essere semplicemente ignorate. Alcune sono costituite dalla lotta e dagli sforzi (con terribili costi umani) dei migranti stessi. Altre sono forze morali: è questa la ragione per cui, nei recenti scritti a cui ti riferisci, ho insistito non solo sul “diritto di circolazione” (che è una nozione legale), ma anche sul concetto di ospitalità, una nozione puramente morale con una forza solo “ideologica”.
CDF: Matteo Salvini ha descritto la politica “Stop the boats” di Tony Abbot come il miglior modello per il controllo dei migranti. Cosa pensi della criminalizzazione da parte dell’Italia degli equipaggi delle ONG per il soccorso in mare, con il sequestro delle loro navi – prima la Juventa, poi l’Aquarius e ora la Mare Jonio – e la successiva chiusura dei porti? Il soccorso in mare è da sempre una colonna portante della civiltà umana, indipendentemente da convinzioni politiche. Chiunque conosca il mare sa che in mare dobbiamo salvare vite. Siamo la prima civiltà umana a criminalizzare il soccorso in mare?
EB: Non so se siamo la prima civiltà a criminalizzare il soccorso in mare, ma so che la politica di Salvini è criminosa, e come tale sarà giudicata in futuro. Tuttavia, ci tengo ad aggiungere subito che Salvini non è solo, è sostenuto da tutti gli altri paesi europei, soprattutto dalla Francia, nonostante le occasionali manifestazioni di disgusto che questo paese ha nei confronti del suo “populismo”. La Francia poteva garantire all’Aquarius il nuovo passaporto che le serviva per continuare le operazioni di soccorso. Poteva anche aprire i porti ai rifugiati, ma ha accuratamente evitato di farlo, così come, nel 2015, ha demolito i tentativi della Cancelliera Merkel di aprire i confini. Il ministro dell’Interno francese (Castaner) si è appena pubblicamente dichiarato d’accordo con Salvini sul fatto che le ONG siano implicate in traffici umani nel Mediterraneo…
Salvini non è solo, è sostenuto da tutti gli altri paesi europei, soprattutto dalla Francia, nonostante le occasionali manifestazioni di disgusto che questo paese ha nei confronti del suo “populismo”
CDF: Nella nostra Charta 2020 abbiamo descritto l’ospitalità come un diritto fondamentale e il diritto all’ospitalità come una “responsabilità comune”. Abbiamo anche richiesto l’istituzione di un passaporto umanitario. Anche se i trattati internazionali ed europei tutelano il diritto di asilo, stiamo attualmente assistendo, come hai detto, al “rovesciamento del diritto di asilo”, che ha dato vita a una nuova categoria: i rifugiati senza rifugio. Oltre alla solidarietà, gli Stati membri hanno abbandonato anche il vero e proprio fondamento della politica, ovvero la responsabilità. Circa la crisi umanitaria attuale, hai affermato: “L’ironia di tutto questo, però, è che una parte della soluzione è a portata di mano: un minimo risultato potrebbe essere raggiunto con: 1) una dichiarazione ufficiale sullo ‘stato di emergenza umanitaria’ in tutto il ‘territorio’ sotto gli auspici della Commissione europea; 2) l’impegno vincolante di tutti gli Stati membri dell’UE a trattare i rifugiati con dignità ed equità”. Sei a favore, come abbiamo dichiarato nella nostra Carta, della creazione di un sistema comune di asilo che ridistribuisca le responsabilità fra tutti gli Stati membri, unificando lo spazio politico europeo e sollecitando una reazione uniforme alla sua crisi umanitaria?
EB: Certamente. Ci stiamo riallacciando all’argomento di prima. L’ironia della situazione è che il governo italiano non sbagliava nell’affermare che gli altri stati europei (fondamentalmente la Francia) rifiutavano di trattare il problema dei rifugiati come un problema Europeo, lasciando il fardello all’Italia (e ancor più, dovremmo aggiungere, alla Grecia). Le uniche soluzioni (qualsiasi siano i dettagli tecnici, e a patto che siano discusse democraticamente) sono soluzioni collettive. Questo significa mettere da parte il regolamento di Berlino. Così sarebbe immediatamente chiaro che non è impossibile risolvere il “problema” razionalmente. Attualmente, populisti e fascisti stanno ricattando i governi europei in un modo che purtroppo sembra essere efficace.
CDF: Un altro dei beni pubblici europei promossi da Charta 2020 è la cittadinanza europea. Ma che significato ha la cittadinanza europea per i cittadini non europei che si trovano o si troveranno sul nostro suolo? Come può una rappresentanza politica del popolo europeo tenere conto sia dei cittadini sia dei residenti? Chi è il “noi” quando diciamo “Noi cittadini d’Europa”?
EB: Molto tempo fa ho sostenuto l’idea che l’emergere di un nuovo tipo di entità federale post-nazionale avrebbe significato regole diverse per la concessione della cittadinanza. Ho anche difeso l’idea che una concezione “europea” del cittadino potesse essere più vasta rispetto a quella associata all’”equazione” fra cittadinanza e nazionalità, limitando il più possibile la “cittadinanza multipla” e concedendo ai residenti stranieri permanenti (che sono anche lavoratori, artisti che concorrono al bene comune e contribuenti) qualcosa di più di una forma “passiva” di cittadinanza. Chiaramente, è stato uno sbaglio credere che il carattere post-nazionale dell’Unione Europea avrebbe reso tutto ciò più facilmente accettabile. Ma ovviamente rimango dell’idea che il “popolo europeo”, nella vasta accezione del termine, è composto dalla totalità dei suoi residenti, possibilmente con alcune regole di adeguamento.
CDF: Nel 2015 abbiamo scritto: “L’Europa… in realtà non ha confini, piuttosto è essa stessa un confine complesso: al tempo stesso una e molteplice, fissa e mobile, interna ed esterna… l’Europa è una terra di confine (borderland)… l’Europa è un territorio in cui i confini non esistono gli uni accanto agli altri, ma piuttosto si sovrappongono, senza mai davvero riuscire a fondersi insieme”. Tu hai descritto la situazione attuale come “un’ecatombe mediterranea di dimensioni genocidiali… che non avviene in un territorio chiuso, ma in una terra di confine tra stati”. Ritieni ancora che quello che stiamo attualmente perpetrando nell’area mediterranea sia un autentico genocidio?
EB: Questo è un termine forte, che ho utilizzato per suscitare una reazione nei miei lettori. È interessante che il Tribunale permanente dei Popoli (già Tribunale Russel, supportato anche dalla Fondazione Basso), che si è riunito a Parigi nel gennaio dell’anno scorso, abbia utilizzato l’espressione “crimini contro l’umanità”, forse più facile da giustificare in termini giuridici (vedi il report qui ). La mia argomentazione, come ho scritto l’anno scorso in un articolo sul “diritto internazionale di ospitalità” pubblicato su Le Monde, è essenzialmente questa: i rifugiati e i migranti che si trovano nella condizione di “erranti” nello spazio internazionale (e soprattutto nei mari) non sono solo singoli individui, sono “una parte mobile dell’umanità”. È proprio questa “parte” che i governi, attivamente o passivamente, stanno cercando di eliminare.
CDF: In Phenomenology of the Migrant Condition, Étienne Tassin ha affermato che il problema del migrante è che non ha accesso alla scena pubblica, non appare in pubblico e di conseguenza non ha visibilità. L’inalienabile “diritto di avere diritti” viene dunque sospeso. I più liberi in senso arendtiano, ovvero i più liberi di muoversi, sono paradossalmente i meno liberi.
Parallelamente, Étienne, hai evidenziato la necessità di una «cosmopolitica» specificando che “gli stranieri non devono essere trattati come nemici”. Il pensiero hobbesiano di sicurezza e protezione contro un rischio percepito non può rispondere alla domanda: chi è l’altro? Il rifugiato è ridotto alla propria vulnerabilità, il migrante irregolare a una minaccia. Stiamo attualmente assistendo, oltre alla criminalizzazione dell’altro, a uno “stato di eccezione permanente” percepito o realizzato, un fenomeno che nemmeno Carl Schmitt potrebbe giustificare. Lampedusa, Calais, Ventimiglia, Hendaye: in tutti questi casi abbiamo visto singole nazioni “fornire accoglienza” ai migranti da parte dell’Europa intera”.
Hai affermato che dobbiamo andare oltre il concetto di rifugiato e che non dovremmo usare i termini “rifugiato” e “migrante”, poiché sono controversi e discriminatori. Dovremmo invece usare, come hai suggerito, il termine “errante” o “esule”, per riferirci a quella che hai definito la “parte mobile dell’umanità”? Se sì, perché? Inoltre, il pensiero hobbesiano presenta due facce e funziona anche al contrario: queste persone hanno bisogno di protezione, non essendo il loro paese riuscito a fornirgliela. Chi ne è responsabile?
Dovremmo invece usare, come hai suggerito, il termine “errante” o “esule”, per riferirci a quella che hai definito la “parte mobile dell’umanità”?
EB: Concordo con Étienne Tassin sul fatto che questa è una situazione in cui il concetto arendtiano del “diritto di avere diritti” deve essere rivendicato, ma anche ampliato, perché nella sua formulazione (almeno inizialmente) era in larga misura subordinato all’idea che la “comunità politica” in cui tali diritti sono riconosciuti sia essenzialmente la comunità nazionale.
Ma la sua critica di una concezione puramente “morale” dei diritti umani, come prodotto del disgregamento del classico (repubblicano) Stato-nazione (che la Arendt forse tendeva a idealizzare), porta naturalmente a chiedersi, come fa Étienne Tassin nella sua opera, quale tipo di comunità universalistica si possa concepire, in cui gli “esuli” non siano solo vittime, ma vengano anche riconosciuti come individui politici.
Possiamo fare considerazioni simili in merito al principio discusso da Kant nel suo scritto Per la pace perpetua del 1796, che introduceva il dibattito moderno sul “cosmopolitismo”. Kant vede solo singoli individui, e isola la questione della “visita” (l’entrata in territorio straniero) da quella del “soggiorno” o “residenza” (perché si oppone al colonialismo, ma anche perché vede il “commercio” come la forma principale di circolazione).
Tuttavia, il principio da lui elaborato di non trattare gli stranieri (e più in generale gli sconosciuti) come nemici ha un fine e un campo di applicazione molto più ampi se rimuoviamo queste restrizioni. E dobbiamo farlo perché, come giustamente sottolinei, la trasformazione dello straniero in nemico viene appunto istituzionalizzata dall’Europa (e da altri paesi o continenti: l’Australia, gli USA di Trump, ecc.). In questo modo non c’è via di mezzo: o l’ospitalità o l’ostilità, ovvero diverse forme di eliminazione. È questo che dobbiamo scegliere, e sarà un nostro problema per anni, forse per decenni.
Bibliografia
2018 “A call for an international right of hospitality on World Humanitarian Day” (Le Monde)
2018 “The political representation of the European people” (L’Humanité/Il Manifesto)
2017 “Europe in crisis, which ‘new foundation’?” (openDemocracy)
2015 “Borderland Europe and the challenge of migration” (openDemocracy)
Étienne Balibar
Etienne Balibar is Emeritus Professor at Paris X Nanterre and Anniversary Chair of Modern European Philosophy at Kingston University, London. He has addressed such questions as European racism, the notion of the border, whether a European citizenship is possible or desirable, violence, identity and emancipation. His books include Reading Capital (with Louis Althusser, New Left Books 1970), Race, Nation, Class (with Immanuel Wallerstein, Verso, 1991), The Philosophy of Marx, Spinoza and Politics, Politics and the Other Scene (Verso, 2002), and We, the People of Europe? Reflections on Transnational Citizenship (Princeton UP, 2004). His latest publications are Equaliberty (Duke UP, 2014); Violence and Civility (Columbia UP, 2015), Citizenship (Polity, 2015) and Europe, crise et fin ? (Edition Le Bord de l’Eau, 2016).
Caterina Di Fazio
Caterina Di Fazio is a philosopher and co-founder of Agora Europe together with Nadia Urbinati and Etienne Balibar. She received her PhD on the Phenomenology of Political Space from Paris 1 Panthéon-Sorbonne University in May 2018. She previously graduated summa cum laude with a master’s degree in philosophy from Università degli Studi di Bologna, in recognition of the thesis she wrote at the Sorbonne, and has been a visiting scholar at the Department of Politics and International Relations at the University of Oxford and at the Departments of Philosophy and Political Science at Columbia University in the City of New York. She is currently a postdoc at Studio Europa at the University of Maastricht, where she is working on a genealogy of the refugee status.
(L’articolo è stato precedentemente pubblicato in inglese su Opendemocracy. La traduzione in italiano è di Amerigo Dercenno)