Evadere nel reale ⥀ Sulla soglia di un Umanesimo elettronico
Il potenziamento della user-experience attraverso work/play interference e multimedialità
Con l’espressione “evadere nel reale” si tenta di armonizzare aspetti contrastanti, seppur caratteristici, della realtà virtuale. La sezione di mondo ‘illuminata’ e resa visibile ai nostri occhi da questa tecnologia, riporta ad alcuni esempi di utilizzo in cui i dispositivi agevolano la conoscenza di situazioni concrete e patrimoni culturali inaccessibili, invisibili, o semplicemente ignorati. Grazie al virtuale è inoltre possibile semplificare prassi operative specifiche e garantire full-immersion ad un pubblico vasto a costi ragionevoli.
La studiosa Noureddine Elmqaddem analizza il rendimento scolastico di studenti che apprendono con e senza l’ausilio di dispositivi virtuali. I risultati hanno mostrato miglioramenti del 30% nei voti e un accrescimento generale nel livello di concentrazione dei soggetti del 100%. La risposta risiederebbe nel fattore E: l’intrattenimento.
Sonia Fizek and Anne Dippel descrivono esiti simili nel saggio The Playful Citizen: Civic Engagement in a Mediatized Culture. Nell’ambito dei citizen science games (o serious games) le autrici si concentrano sui ‘parco-giochi laboriosi’ creati dalla rete comunitaria di utenti impegnati nel raggiungimento di un obiettivo condiviso. La motivazione dei giocatori trae carburante dal peso sociale o scientifico attribuito al completamento del compito. L’intersecarsi di aspetti tipici del lavoro con dinamiche di gioco sarebbe la spinta motrice di azioni ludiche aventi ripercussioni virtuose nella vita reale. Il desiderio di appartenenza ad una comunità culturale e scientifica è alla base del citizen science game ed è costitutiva di quella che Fizek e Dippel definiscono work/play interference. Con quest’ultima, esse identificano la percezione che esista una sfera di reciproca influenza tra pratiche comunemente dette ludiche e le attività produttive. Certamente, la riflessione delle studiose non mira ad annullare la visione possibilmente dualistica di lavoro e gioco, ma contempla l’intersecazione delle due sfere, non più solo verso la gamification, ma anche in direzione di una laborization.
Un esempio in questo senso è rappresentato da EteRNA, videogioco collaborativo creato dalle Università di Stanford e Carnegie Mellon nel 2010. Lo scopo degli utenti è il dispiegamento dell’RNA attraverso la risoluzione di problemi biochimici. Il contribuito di ciascun giocatore può permettere l’avanzamento dello studio nell’ambito del folding RNA. Qualche anno prima, il videogame Foldit consentiva in maniera simile di manipolare virtualmente design proteici per l’ottimizzazione della ricerca contro malattie rare. In sostanza, la gamification può aiutare gli appassionati a lasciare un’impronta non solo nella modalità in-game, ma anche al di fuori di essa. Parallelamente, la stessa dualità è riscontrabile nei dispositivi tecnologici: il computer rappresenta il calcolatore digitale per antonomasia, è sottoposto alla teoria dei giochi matematici, eppure rappresenta a tutti gli effetti una macchina per l’intrattenimento.
Anche il virtuale sembra avere connaturato in sé il ‘fattore E’, che ha la funzione di incentivare l’avvicinamento degli utenti a situazioni e luoghi lontani nel tempo e/o nello spazio. Ci si chiede, tuttavia, se il virtuale possa (e in che misura) diventare veicolo della soggettività e del ricordo. In altre parole, cosa avviene quando la narrazione di storie individuali e collettive ha luogo attraverso la multimedialità? Ha senso che gli artisti vi si affidino con l’intento di stimolare empatia e immersione multisensoriale nel proprio pubblico?
Un messaggio di fratellanza è quello che anima la mostra dell’artista americano Mike McMillin: “They said that when I was born I looked just like my mother”, 1999. Non si tratta propriamente dell’ambito della realtà virtuale comunemente intesa, ma il caso risulta esemplare. L’utilizzo tecnologico atto ad esaltare valori visceralmente connaturati all’uomo riesce a far dimenticare l’artificiosità sottostante alla creazione digitale, così come avviene nel compimento dell’illusione di realtà cercata nelle migliori esperienze in VR. La mostra di McMillin sembra voler fare dimenticare la sua origine, eppure risulta efficace nel ricordare all’uomo la propria. L’artista pone al vertice la famiglia, ma intende estendere il concetto a molteplici definizioni. Egli ci riesce attraverso l’incrocio polifonico di memorie familiari, stimolando empatia e nuove percezioni di sé nell’animo dei visitatori. Il primo passo si ottiene sovvertendo l’idea che esistano ricordi nucleari, destinati ad essere conservati solamente dai propri protagonisti. La cornice entro cui ha luogo questa particolare esperienza è spazialmente articolata in quattro modelli: Physical, Actual, Fictional e Personal. Essi fanno indistintamente capo al concetto di famiglia ed ognuna delle quattro sezioni costituisce uno dei video o muri portanti della mostra.
Due anni prima, il regista libanese Hisham Bizri inaugurava a Chicago le esposizioni Mitologies e Las Meninas. La peculiarità delle mostre consiste nell’utilizzo della tecnologia CAVE per la creazione di installazioni all’interno di ‘stanze’ virtuali. Bizri era entrato in contatto con gli ambienti virtuali nel 1986, mentre era filmmaker per una HDTV, ma approfondisce la conoscenza della realtà virtuale nel 1996 all’interno di EVL (Electronic Visualization Laboratory).
Questo tipo di tecnologia permette all’autore di ottenere una narrativa stravolta nello spazio-tempo, onirica e ontologicamente nuova, creata attraverso le molteplici possibilità della computer graphics. Bizri non fa ricorso a tecniche tradizionali cinematografiche, come il montaggio, ma attinge ad espedienti propri del mondo virtuale che possano esaltare il protagonismo dell’osservatore. Lo spettatore diventa capace di orientare liberamente l’esperienza e di fornire autenticità ontologica alle immagini in movimento grazie alle scelte compiute durante il flow. L’effetto ‘filmico’ è dato dall’ambiente CAVE e l’impressione dell’utente è quasi quella di trovarsi nell’intimità di una sala cinematografica, avvolti nel fascino onirico e misterioso che caratterizza le composizioni create da Bizri.
La prima installazione virtuale che il regista crea con EVL e in collaborazione con gli artisti Joseph Alexander, Alan Cruz, Tomoko Imai, Millman, Dave Pape e Maria Roussos è appunto Mitologies. Il concept dell’opera ricalca il mito greco del Minotauro, ma include omaggi all’Inferno di Dante e a Dürer. La musica d’accompagnamento è Der Ring des Nibelungen di Wagner ed il suo ascolto è tutt’altro che marginale, ma funzionale allo svolgimento della narrazione. Le stanze virtuali riproducono in 3D la bozza di una chiesa mai realizzata progettata da Leonardo Da Vinci e ricreano gli interni della Grande Moschea di Cordoba. L’osservatore, proprio come Teseo, trova di fronte a sé un labirinto che l’autore definisce a ‘rizoma’, in quanto costituito da sentieri equivalenti, tutti da percorrere e approfondire, e che conducono a stanze diverse, gremite di opere classiche.
Altrettanto enigmatica è l’opera Las Meninas, la quale ripropone le figure dell’omonimo ed equivoco quadro. La riproposizione di questa specifica opera in 3D rappresenta una rinnovata sfida lanciata da Bizri all’utente: in questione è l’idea che il protagonismo dell’osservatore sia solamente frutto di illusione. Il problema della rappresentazione, segno distintivo del quadro stesso ed elemento cruciale nell’ontologia della percezione virtuale stessa, è volutamente amplificato dal regista tramite il ricorso alla VR. Attraverso il suo utilizzo, egli concretizza la possibilità di raggiungere spazi altrimenti inesplorabili nel 2D. Questa straordinaria occasione abilita la navigazione libera nell’opera d’arte, ora osservabile da diversi punti di vista in senso prospettico e soprattutto interpretativo.
Vito Cappellini riflette sull’utilizzo della realtà virtuale nell’ambito della valorizzazione dei beni culturali. Lo studioso elogia il connubio tra arte ed informatica, sia per quanto concerne la riproduzione di opere esistenti, che nella vera e propria creazione artistica ottenuta grazie alla digital art. I motivi accreditati dallo studioso comprendono la possibilità di fruire di una galleria virtuale sicura, imperitura e accessibile da ogni luogo. Cappellini riconosce anche l’utilità di simulare virtualmente i restauri prima di intervenire su opere fisiche. La digitalizzazione delle opere permette inoltre la ricostruzione in alta qualità di intere collezioni appartenenti a singoli autori le cui opere sono disperse in differenti musei del mondo (i cosiddetti Musei Impossibili), oppure l’esposizione di opere non esposte (Musei Invisibili). Non bisogna inoltre dimenticare la straordinaria occasione di svolgere vere e proprie visite virtuali in musei, siti archeologici e altri ambienti in 3D.
La rivisitazione di Bizri e il pensiero di Cappellini inducono ad un’ulteriore riflessione. Quando si incontrano opere caratterizzate da composizioni enigmatiche (quali quelle Rinascimentali o appartenenti alla classicità) gli equilibri geometrici sottendono segreti stilistici spesso difficili da identificare. Grazie ai moderni software è possibile estrapolare le singole forme e i moduli strutturali di queste opere per coglierne le peculiarità, studiarne e ripercorrerne il percorso di creazione. Particolarmente interessante può dimostrarsi inoltre la ricostruzione di siti archeologici detti ‘latenti’, visualizzabili solo attraverso la digitalizzazione di foto aeree o tramite rilevatori termici, utili soprattutto per elementi sommersi da terreno stratificato.
L’interattività derivante dalla possibilità di navigare tra elementi riproposti in 3D apre, come annoverato dallo stesso Cappellini, uno scontro di visioni. Mentre alcuni ritengono che tutto ciò possa condurre ad una diminuzione delle visite fisiche nei siti dei Beni Culturali, altri ritengono che proprio grazie a questo utilizzo del virtuale si possa accrescere l’hype relativo al momento di contatto vis à vis con le opere. Il “momento digitale” diviene una sorta di esercizio intellettuale in vista dell’imminente visita fisica, da apprezzare nella sua unicità senza farsi cogliere impreparati. Si contribuirebbe, in sostanza, a quello che Cappellini ritiene un tentativo di “umanizzare la macchina elettronica”, che potrebbe auspicabilmente condurre ad un «Nuovo Rinascimento, nel quale le diverse attività intellettuali e forme creative dell’Uomo vengono straordinariamente a riavvicinarsi tra loro».
Noemi Mezzone ha pubblicato un altro articolo per «Argo» riguardo la realtà virtuale, che puoi trovare qui.