Facevamo di Giulio Giadrossi ⥀ Passaggi

Passaggi, rubrica dedicata all’esplorazione della prosa breve, ospita oggi Facevamo di Giulio Giadrossi. Qui potete leggere l’editoriale della rubrica

Illustrazione di copertina di Valentina Vallorani, Creature luminose, 2020.

 


 

Facevamo a gara a chi aveva gli anancasmi più in tinta con lo spirito del tempo, più in linea con quanto ci si era promessi da adolescenti, più abbinabili ai consigli di qualche genitore o insegnante.

Buttavamo come polvere sotto il tappeto ciò che ci vergognavamo di dire per non apparire troppo deboli, provavamo vergogna maggiore per una scarpa fuori moda, per una serie tv non vista che per non essere in grado di chiedere aiuto o di guardare negli occhi un altro essere umano.

Passavamo primavere intere in un reticolo di bar e circoli culturali fatti di mobilio di modernariato, cameriere giovani giunte a studiare in città da qualche paesino di provincia, recitando copioni stantii di discorsi che si autoriproducevano secondo pattern telefonati – i cfu mancanti, la compagna del liceo che si è fatta ingravidare, le differenze tra il sushi vero e quello dei ristoranti cinesi, l’amarezza del luppolo nelle ipa, il costo al metro quadro di un appartamento nelle capitali europee – interrotti soltanto da qualche venditore di rose.

Avevamo paura a confessare la nostra nudità, la solitudine era un non detto scabroso quanto lavorare in un call-center.
I limiti del nostro mondo erano una geografia di luoghi uguali a sé stessi, secondo gli studi intrapresi, gli anni all’estero previsti dall’ufficio erasmus del proprio dipartimento, le deformazioni permanenti.

Portavamo ovunque con noi il solito reticolo di centri storici instagrammabili, botteghe di paccottaglia vintage, case occupate, zone di spaccio e localini autentici conosciuti su guide turistiche diffuse in più di 80 paesi.

Cercavamo il nostro porto felice in una città sicura e borghese ma non troppo, per permetterci di affinare i nostri desideri di dominio egoico sull’altro, sulla storia e sull’universo intero – purché questo piano coincidesse con l’ideale interiorizzato da una continua rinegoziazione tra le nostre attitudini e l’estrazione sociale del nostro nucleo famigliare d’origine.

L’album di figurine dei calciatori sui banchi di scuola e le foto delle vacanze o dei figli erano fenomeni indistinguibili, distanziati soltanto di qualche decennio, di darwinismo sociale.

Ci svegliavamo qualche minuto prima di dover rimandare la sveglia con la consapevolezza che della giovinezza sarebbe rimasta soltanto una allucinata massa indistinta di bevute in case di studenti, cosce di ragazze con cui si conserva qualche reciproco scambio di auguri in occasione del compleanno, le albe sul sedile posteriore di qualche automobile per evitare gli alcool test, i vinili presi in ristampa perché all’epoca non si avevano abbastanza soldi, qualche tic nervoso da insonnia, abuso di sostanze di sintesi o da disforia causata dallo scarto esistente tra il proprio posto nel mondo e i desideri nostro malgrado interiorizzati.

Provavamo tacita commiserazione per chi non aveva genitori con un Indicatore della Situazione Economica Equivalente tale da poter mantenere il proprio figlio per una seconda laurea o per un lungo precariato esistenziale prima di accasarsi con qualche compagna di liceo ritrovata qualche decennio dopo o reinventandosi come negoziante, bibliotecario, insegnante, impiegato, creativo.
Avevamo tutti un bagaglio di esperienze all’estero su voli low-cost per dirci migranti, per poter dire di aver vissuto altrove, potersi concedere il lusso di sputare nel proprio ovile da cui non abbiamo mai veramente reciso il cordone ombelicale.

A quindici anni avevamo intrapreso un percorso di esplorazione delle controculture giovanili, scegliendo quella che meglio potesse adattarsi alla forma del nostro corpo, alla nostra propensione alla musica o allo sport, alla nostra affinità con l’uso ricreativo di sostanze stupefacenti, mantenendo asintoticamente un doppio legame di identificazione e rifiuto con i modelli di riferimento filtrati dai pari e dai nostri padri.

Molti di noi pensavano bastassero un paio di gite fuori porta in un indeterminato centro rispetto alla provincia dell’impero che ci portiamo dentro, qualche anno in una stanza doppia di un appartamento di qualche città universitaria, per emendarci da ogni possibile vocazione al fallimento.

Sapevamo che la cosa peggiore che ci sarebbe potuta accadere sarebbe stata finire a fare un lavoro per il quale non avevamo studiato, qualcosa che anche una compagna delle medie con bassa scolarizzazione e una punta di disagio socio-economico avrebbe potuto avere come massima aspirazione professionale.

L’aperitivo era il campo di battaglia di una singolar tenzone fatta di aumenti di stipendio, vacanze al mare, amorazzi estivi e anni sabbatici.

Dopo una decina d’anni dalla maturità si contava chi aveva figliato, chi viveva ancora dai suoi, chi si era ucciso, chi lavorava in banca, chi era rimasto fuori.

Gli spot di cinque secondi prima di un video su YouTube ci dettavano le modalità di manifestazione del nostro essere diventati adulti, alla guida di un’automobile o intenti a preparare la cena per il proprio partner.

Avevamo speso le ultime ore prima del sonno a guardare ironicamente trasmissioni televisive in cui cuochi amatoriali si sfidavano in prove di cucina venendo redarguiti da fintamente sadici chef di fama internazionale, per poi commentarne l’andamento e il grado di identificazione con un concorrente la mattina seguente durante le pause caffè in ufficio.

Scegliere di uscire dopo i 25 anni consisteva in un bilancio tra la distanza del bar, il proprio stato sentimentale, gli impegni lavorativi del giorno seguente e la temperatura esterna dell’aria.

Eravamo convinti che i nostri privilegi fossero traguardi e che la povertà dovessero meritarla solo gli altri, non tutti certo ma sicuramente chi ti aveva fatto un sopruso, chi non ti aveva invitato a una festa, chi non apparteneva al tuo stesso grado di privilegio.

 

 

 


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Valentina Vallorani, Creature luminose, 2020.