Fermo, Centro storico | “Andare. Camminare. Lavorare” | Angelo Ferracuti
Poche persone conoscono un paese o una città come può conoscerli un postino. Batte di gran lunga l’idraulico, l’addetto alla pulizia delle caldaie, persino quel ficcanaso del medico condotto, uno che oltre ai caratteri delle persone conosce anche lo stato delle cistifellee, dei fegati, le extrasistole e le crisi ansioso depressive. Ho svolto questo mestiere a Fermo, la mia città, per quindici lunghi anni, e ne provo nostalgia. Rivorrei indietro persino le alzatacce, le ferie non godute, così come rimpiango le giornate afose, le pozzanghere, le scarpe infangate, quei temporali improvvisi che mi bagnavano tutto, dalla testa ai piedi, le soste ritempranti in certi posti di campagna dove vedevo di lontano la città e me ne stavo in silenzio a cogliere da una pianta una bella mela succosa o un bel fico maturo. Considerando che su una venticinquina di zone di recapito le ho servite come “scorta” quasi tutte tra la metà degli anni ottanta e il Duemila del secolo scorso, posso affermare senza la paura di allontanarmi troppo dalla realtà che ho varcato almeno il 70 per cento delle soglie delle sue civili abitazioni. Ciò significa che conosco questo posto palmo palmo, così come conosco certe abitudini o fobie o paure di chi ci abita. Almeno credo di conoscerle. Le ho interpreta te, diciamo. A volte ho raccolto le “voci,” quelle preoccupate e quelle calunniose, alcune davvero raccapriccianti. Frutto dell’invidia, una disgustosa umanissima cosa che muove il fare di molti. Sotto l’apparenza di una cittadina che è molto bella e austera, arroccata su un colle, circondata da un paesaggio magnifico, con balconate che danno su un cielo aperto azzurrissimo e colline morbide, qualcosa che ogni volta rinnova il mio stupore, la meraviglia, c’è un’altra città, quella che nessuno può vedere: lì pulsano il ventre e il cuore di quella privata e inaccessibile, che sa di portoni sprangati e di finestre dai vetri opachi, di liti matrimoniali e di figli che urlano, di gente che fa l’amore e ansima, oppure di bambini che pian- gono abbandonati nelle culle. Quello per me era l’ignoto.
Quando la mattina presto partivo per la “gita,” così si chiamava in gergo, pensavo a tutta questa moltitudine ed ero curiosissimo, perché ogni giorno la piccola via crucis sarebbe stata diversa e non mi avrebbe annoiato. La mia zona preferita era quella del centro storico, che facevo tutta a piedi, borsa a tracolla e passo spedito. Cominciavo da piazzale Azzolino e corso Cefalonia, zona una volta ad alta densità di negozi, mietuti poi dal decentramento nei quartieri periferici, uffici e poche abitazioni, poi andavo a consegnare in piazza del Popolo, larga, ventosa, accogliente coi suoi caffè all’aperto e il volo dei piccioni, che prima dell’avvento dei centri commerciali era l’agorà, il luogo affollatissimo del passeggio e dell’in- contro, e che oggi fatta sera è invece popolata di spettri; proseguendo per via Vittorio Veneto, la “strada nuova,” per poi risalire fino al piazzale del Girfalco, la punta più alta della città. Avevo pochi plichi da recapitare da quelle parti, e allora mi concedevo una sosta, seduto in una delle panchine sotto la fila di lecci centenari, con la cattedrale bianchissima di fronte, ricostruita su quella rasa al suolo dagli uomini di Federico Barbarossa, e più avanti il belvedere, bevendo acqua fresca da una fontanella. Ma la parte che più mi piaceva era quella a ridosso della chiesa di San Francesco, dove entravo e uscivo dai vicoli umidi e oscuri, e dove potevo accedere ai piani. Mi sentivo padrone di quei luoghi. Il mio ruolo in quei momenti mi autorizzava a starci e spiare le vite degli altri. Un’altra zona particolarmente tortuosa era fatta di cinquanta vicoletti, la più complicata da memorizzare, una delle più antiche, sotto via degli Aceti, dove stanno le cisterne di epoca romana, un luogo catacombale che vale una visita. Quelli che mi interessavano di più, debbo ammettere, erano i matti, di cui la città non è certo sguarnita, gli spostati, i disgraziati. Ricordo un’insegnante zitella, a dire il vero piuttosto brutta e molto pelosa in viso, che quando ero fattorino telegrafico inviava dei bustoni al procuratore della Repubblica, scrivendo fuori dei messaggi criptici in una calligrafia da indemoniata. Sembravano degli inquietanti geroglifici. Al tribunale, quando li aprivano, trovavano dentro mutandine, calze di nylon, una volta persino una scarpa. Quest’umanità nascosta, un po’ céliniana, era la stessa di tutte le città di provincia del mondo, comprese quelle inventate da Faulkner o da Anderson, anche se a Fermo assumeva una postura assolutamente esistenzialistica e molto letteraria, o a me così pareva. In un vecchio palazzo di via Perpenti, da una finestra di un ammezzato, nonostante la protezione delle tende, potevo scorgere una stanza sempre disabitata e misteriosissima con un letto e appesi ai muri ex voto e ritratti di madonne. Sono stato tra i primi, e parlo della fine degli anni ottanta del secolo scorso, a conoscere la sede della massoneria locale, che stava proprio a un paio di civici più avanti, sul lato sinistro della strada fatta di sampietrini. Sulla cassetta al pianoterra c’era scritto “Società immobiliare v,” e questi “esoterici”, chiamiamoli così, non ricevevano quasi mai corrispondenza. Ma pareva molto attiva la combriccola per tutto ciò che aveva a che fare con incarichi, mansioni, carriere, e una vecchia signora che abitava al primo piano mi diceva ridacchiando i nomi e i cognomi degli “incappucciati”. Una delle logge del triangolo Perugia-Fermo-Ancona, potentissima dicono. Nel sud d’Italia c’è la mafia, la camorra, la ’ndrangheta, qui sono i massoni a dettare legge. Quando si dice la cultura. Secondo un mio amico antropologo calabrese è segno di un potere antico e “raffinato” di cui dovremmo persino farci vanto. Anche Paolo Volponi la pensava ad Urbino questa mafia senza lupara, la sorella carnale di Fermo, però “più bionda, più pingue e di carattere più aperto e dolce” come la vedeva lui in modo un po’ romantico, ma si sa che l’erba del vicino è sempre più verde. Quella della sua città, gli pareva, e non aveva torto, ma la cosa si può facilmente estendere a tutta la regione, come qui “quella legata ai poteri fermi, costituiti, che dominano nell’economia e nella società locale: il comune, l’università, gli uffici pubblici dove le assunzioni, le carriere, le manovre sono sempre fatte con spirito e modalità appunto mafiose: cioè nell’interesse solo di alcuni, al di fuori della trasparenza, della scelta dei meriti, del piano democratico”. Lo scrisse nel 1994, ora le cose sono persino peggiorate.
Fermo è città di professori e avvocati, molti dei quali prestati alla politica, sempre elegantissimi passeggiano come silhouette con le loro borsette lucide di cuoio, i paltò scuri, seriose macchiette di provincia segno di una litigiosità certosina, ma è anche luogo di scrittori e fotografi. La stra- nezza è che pur non essendo terra di conflitti, con una classe operaia di origini contadine e cattolicissime, quindi parecchio incline per indole al rapporto paternalistico, ha dato i natali a intellettuali molto engagé come il poeta comunista Luigi Di Ruscio, l’autore del Palmiro, e Franco Matacotta, l’ultimo amore insolito di Sibilla Aleramo, la scrittrice e femminista Joyce Lussu, moglie di Emilio, e Luigi Crocenzi, inventore del racconto fotografico neorealista e impaginatore del “Politecnico” di Elio Vittorini, che lavorò con Electa e Bompiani, per non dire di Ruggero Romano, storico einaudiano dell’Enciclopedia. Questo forse può essere interpretato come anticorpo e antidoto nei confronti di una presenza cle- ricale che qui ha agito nei secoli dei secoli colonizzando persino la vita onirica degli abitanti, dai timidi pretini di Mario Giacomelli ai sacerdoti più rampanti di adesso, che sognano tutti un posto al sole in Vaticano. A Fermo, infatti, le chiese sono più di quaranta, le trovi ovunque, da quella del Duomo alle più periferiche che stanno a ridosso delle campagne, e alcune sono bellissime. A Giovanni Comisso, qui di passaggio, bastò una sola notte per capire che era una specie di luogo della conservazione assoluta. E si meravigliò, lui allora scrittore di nota fama, che nessuno lo conosceva, come non conoscevano altri suoi illustri colleghi: “Capii che l’Italia è un paese dove è assai difficile fare dell’arte, non è come si suole dire dagli stranieri che l’arte in Italia sia a casa propria, in Italia può nascere l’arte, ma che solo una piccola parte de- gli italiani se ne interessi, questa è un’altra faccenda. Indubbiamente compresi che uno in Italia può solo considerarsi artista di vera fama il giorno in cui arriverà a essere conosciuto a Fermo o in una delle tante altre cittadine simili a questa: antichissime, cerchiate di mura, tutelate dal severo controllo della curia e dove ancora la vecchia civiltà non sia stata scardinata”.
Io riuscì a tenerlo nascosto per molti anni finché non pubblicai da Guanda un romanzo a cornice, Attenti al cane, anche quello con un mio alter ego portalettere piuttosto insolente e vendicativo, caustico a dir poco, e nel corso di un’intervista strapazzai un po’ questa borghesia massonica, fintamente sonnacchiosa e provinciale, deleteria al massimo, e un avvocato al quale consegnavo la posta si risentì. Disse a un collega che me lo venne subito a riferire: “Ma quel ragazzo è normale?”. Forse era lui che non era normale, perché aveva chiesto il risarcimento per una giacca di renna di un padroncino di fabbrichetta che si era sporcato di sangue nel corso di un incidente stradale provocato da un povero pensionato, il quale era persino morto. Quell’azzeccagarbugli fu talmente cinico da chiedere l’indennizzo per l’indumento accidentalmente macchiato ai parenti del defunto.
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Brano tratto da Andare. Camminare. Lavorare di Angelo Ferracuti.
Ringraziamo l’autore per il gentile dono.