Fibra per fibra quando pulsano di Maria Teresa Rovitto ⥀ Passaggi
La rubrica Passaggi presenta oggi la prosa breve Fibra per fibra quando pulsano di Maria Teresa Rovitto. L’editoriale della rubrica può essere letto qui
Illustrazione di Elisa Francioli, Nuotatori neri.
Partita dalla Grecia, prima di raggiungere la Germania, Zoa aveva sostato in un campo profughi lungo la rotta balcanica: una città inesistente sulle mappe satellitari; una falla nel sistema di aggiornamento del tutto provvidenziale per chi doveva nascondersi.
Erano zone dove i vivi avevano memoria della guerra; dove tutti i partiti politici usavano la parola popolo per formare il loro nome, mentre il prefisso ex– metteva in relazione le opinioni ed era la premessa di ogni storia personale. Circolava ancora pane nero e, nel disordine delle lingue, si distingueva qualche concetto, come game. La città-accampamento contava sull’eternità della plastica che la saturava e dell’agglomerato di tetti di lamiere increspate. Le baracche si reggevano grazie a metri di nastro adesivo che cingeva ferraglia, immondizia, tubi flessibili usati per cercare di raccogliere l’acqua di canali e vene che si formavano di notte, quando le falde sotterranee riportavano in superficie il necessario per sopravvivere.
Ogni tanto qualcuno fischiava e qualcun altro voleva sfasciare tutto, qualcuno si era procurato il sapone per il bucato e scorte di cibo, ma non diceva mai come. I fuochi che cominciavano all’alba crepitavano fino a quella successiva. C’era sempre qualcuno che restava sveglio e gli angoli meno illuminati dell’oscurità erano punteggiati dalle lucine di litio dei cellulari.
Durante i mesi in cui Zoa era stata volontaria, non aveva mai smesso di nevicare e i più giovani si scattavano foto a torso nudo nel bagliore che, perenne, affaticava la vista e smussava ogni aspettativa.
Per la prima volta in vita sua lei aveva visto un morto morire, uno di quei ragazzi che avevano seguito i gruppi in avanscoperta nei boschi. Si faceva così per capire quali fossero esattamente le piante di abete scelte per segnare il confine.
Intanto si era sparsa la voce che a venti chilometri di distanza gente malintenzionata stava addestrando dei cani in un capannone. Qualcuno ipotizzava si trattasse di una diceria equivalente a quella dell’uomo nero usata per spaventare i bambini. Che sono troppo irrequieti, che non devono parlare, che non devono lamentarsi delle abitudini, che non devono mangiarsi le unghie.
Zoa era stata una brava volontaria: non aveva mai pianto e aveva imparato molte parole di urdu. Alla fine, però, si sentiva soffocata dai giorni trascorsi con loro, che vivevano con il corpo tutto intero nel presente, e aveva fatto in tempo a partire, un attimo prima di credere che tutto quello fosse normale.
Quando, recuperata l’altra parte del confine, raccontava quella esperienza, la gente, nella mente, iniziava a fare associazioni con le pellicole dei registi balcanici, animate da plurime scene di sesso in baracche attraversate da galline che svolazzano ovunque, cocaina, uomini pelosi cosparsi di acqua di colonia, circondati da peluche, vecchie radio.
Alla fine delle loro conversazioni, si auguravano che ogni persona, da quel limbo, avesse raggiunto almeno uno dei ghetti d’Europa.
Chi volesse proporre prose brevi e illustrazioni per la rubrica, può inviarle a questo indirizzo email: RubricaPassaggi@argonline.it
Maria Teresa Rovitto
Ha conseguito un dottorato con una tesi in filosofia del diritto nel 2016. Ha curato diverse pubblicazioni negli studi interdisciplinari di diritto e letteratura. Suoi racconti sono apparsi su Storie. All write – Leconte editore, nella raccolta Sfocature. Memorie di foto ritrovate, Emuse/FIAF/Risme, su «Morel. Voci dall’isola», nella sezione Atomi di «retabloid», luglio 2022, su Micorrize. Dal 2009 al 2012 e poi nel 2021 ha fatto parte della redazione di Critica Letteraria e attualmente collabora con il collettivo Poetarum Silva. Suoi testi sono in attesa di pubblicazione su In allarmata radura e sul Multiperso di Carlo Sperduti.