La fine dell’antropocentrismo? ⥀ Sul saggio Raccontare la fine del mondo di Marco Malvestio
Raccontare la fine del mondo. Fantascienza e Antropocene di Marco Malvestio è un testo di critica letteraria a metà tra le opere di fantascienza e la volontà di rivolgersi a un pubblico molto più vasto sensibile a questioni di tipo etico
Più che scrivere una recensione a Raccontare la fine del mondo. Fantascienza e Antropocene di Marco Malvestio, edito da Nottetempo, vorrei cogliere alcuni spunti di riflessione presenti in questo libro e svilupparli. Di fatto, è un testo di critica letteraria che analizza opere di fantascienza che raccontano la fine del mondo, come risulta evidente dal titolo. Eppure, a leggere la quarta di copertina, appare chiaro che il testo vuole rivolgersi a un pubblico più vasto, che ha più a cuore problemi di tipo etico che di tipo estetico:
Si può sopravvivere all’Antropocene, forse, riconfigurando il nostro posto nel mondo, ripensando cosa significa essere umani, e ricomponendo la frattura concettuale tra umano e animale, tra organico e inorganico. Anche la fine del mondo, se davvero significa solo fine dell’umano, può essere un’opportunità.
Pertanto, in questo mio scritto, cercherò di seguire questa tendenza alla riflessione etica presente nel testo. Tuttavia, non si può ignorare che il saggio di Malvestio si addentri in problematiche legate al rapporto tra umano e ambiente a partire da una precisa questione di tipo narratologico. Sarà il punto di partenza delle mie considerazioni.
A legare i vari capitoli di Raccontare la fine del mondo è l’interesse nei confronti di forme di agentività non umane: radiazioni, virus, cambiamento climatico, piante e animali. Generalmente, tutti questi elementi vengono descritti in rapporti di causa/effetto, anziché di intenzione/azione come accade per gli esseri umani. Discorso che vale anche per gli animali, perché, seppur venga riconosciuta loro una minima capacità d’azione, il più delle volte vengono definiti a partire dai loro istinti o bisogni primari, come se fossero delle forme di vita meccaniche, senza una reale volontà. In uno schema narratologico classico, incentrato sulle azioni umane, tali elementi assumono il ruolo di accidenti, cioè di eventi capaci di influenzare la vita dei personaggi. Al contrario, le opere analizzate da Malvestio descrivono i non-umani come dei personaggi a tutti gli effetti, che partecipano all’intreccio tra individui che dà vita al racconto. In sintesi, la fantascienza descrive anche il non-umano in termini di intenzione/azione.
Donare una volontà al non-umano significa stabilire un nuovo rapporto gerarchico tra gli esseri viventi: se anche il non-umano agisce seguendo una logica, allora l’umano perde il suo ruolo centrale. Limitarsi, però, a rappresentare una volontà umana in un corpo non-umano non sarebbe un’operazione granché interessante, poiché non si farebbe altro che dare un volto alieno a un personaggio che però, di fatto, è l’ennesimo umano. Malvestio ricerca opere in cui gli autori rappresentano dei non-umani che agiscono secondo una logica altra. L’aspetto inquietante sta in questo: i personaggi umani (e con essi il lettore) non possono fare più affidamento né sullo sguardo scientifico, che ricerca le cause dietro gli eventi, perché il non-umano non è più materia inerme che si lascia studiare in tutta tranquillità; né su quello empatico, che permette di riconoscere le motivazioni dietro alle azioni di altri individui come noi. Le nostre capacità interpretative vengono meno, di fronte a qualcosa che ragiona in maniera del tutto inedita.
C’è un altro aspetto che accomuna gli elementi non-umani analizzati in Raccontare la fine del mondo: in tutti i casi si ha a che fare con delle masse. Questo è un ulteriore aspetto di interesse: il non-umano non appare sotto forma di individuo, bensì di sistema. L’elemento visibile del non-umano non è che un sintomo di qualcosa che non è nell’ambiente, ma è l’ambiente stesso. In ciò risiede l’aspetto ecologico di queste narrazioni, altro termine chiave per il discorso di Malvestio. Per comprendere le opere prese in esame, bisogna considerare la trama non come l’interazione tra vari personaggi, ma come l’interazione tra tutti gli elementi del mondo descritto. Ancora una volta, vengono meno le gerarchie classiche: il personaggio non è più importante della strada che attraversa, dell’utensile che maneggia o dell’animale che incontra, ma tutto contribuisce a creare un sistema eco-narrativo in cui ogni cosa ha la medesima importanza. Ad esempio, nel capitolo sull’energia atomica, la bomba non è un mero strumento nelle mani dell’uomo, ma un’entità capace di cambiare completamente il rapporto che l’umano ha con se stesso, con gli altri e con il mondo in cui è immerso.
L’elemento massiccio permette di avvicinarsi all’aspetto catastrofico di queste narrazioni, evocato nel titolo del saggio. Per poter comprendere appieno le opere fantascientifiche prese in esame, è necessario riprendere un passaggio di Raccontare la fine del mondo, espressione della veemenza retorica di Malvestio:
Ogni anno vengono ammazzati un miliardo e mezzo di maiali, 500 milioni di pecore, 400 milioni di capre, 250 milioni di bovini, 50 miliardi di polli e tra i 37 e i 120 miliardi di pesci negli allevamenti acquatici, oltre al trilione ucciso nella pesca libera (numeri che escludono ovviamente il pescato illegale e il bycatch, ossia tutti gli organismi catturati insieme alla specie scopo della pesca e rigettati, morti, in mare) (p. 145).
Si può analizzare questa citazione alla luce del concetto di sublime, così come teorizzato da Immanuel Kant. Per il filosofo, esistono due forme di sublime: 1) il sublime dinamico, che si prova di fronte alla forza annientatrice della natura, dove l’umano comprende tutta la sua limitatezza; 2) il sublime matematico, che l’essere umano prova quando si accorge di essere capace di pensare le infinite dimensioni del cosmo, nonostante le sue facoltà sensoriali gli permettano di osservare solo una piccola porzione dell’universo. Nella frase di Malvestio, l’essere umano è sia il soggetto capace di pensare l’assolutamente grande carneficina di animali, sia la forza annientatrice artefice di tale mattanza. Il termine antropocene, che compare nel sottotitolo del saggio, eleva l’umano a forza della natura, capace di avere un impatto di dimensioni abnormi sull’ambiente. La natura perde così il suo monopolio sul sublime dinamico.
C’è un altro aspetto molto importante da tenere in conto quando si parla di sublime dinamico: l’essere umano, per provare tale sentimento, deve osservare la forza annientatrice da una posizione di sicurezza, altrimenti sarebbe sopraffatto dal terrore di chi subisce su di sé gli effetti di una violenza inaudita. Nell’Antropocene, che qui vorrei definire come l’epoca del sublime dinamico umano, l’uomo sembra aver raggiunto un livello di sicurezza tale da non aver più paura della forza annientatrice della natura, ma soltanto di quella scatenata dalle sue stesse mani. Al contrario, le opere analizzate da Malvestio sembrano volere ricordare come quell’antica forza sia ancora ben reale, anzi: la stessa può sprigionare una violenza così catastrofica da impedire all’umano qualsiasi via di fuga. La fine del mondo, insomma.
La forza annientatrice del non-umano, nei testi presi in esame, assume i tratti di una Rivoluzione. E tale termine va inteso in maniera letterale, nel senso di rivolgimento, ritorno. Il non-umano, in quanto potere della natura, cerca di riprendersi il proprio antico potere di distruzione, strappandolo dalle mani dell’essere umano.
Ma che tipo di Rivoluzione prefigurano queste narrazioni apocalittiche?
L’alternativa all’estinzione e alla catastrofe […] può anche essere il superamento dell’umano. Postumano non significa diventare qualcos’altro in senso letterale, biologicamente o evolutivamente – anche se è in questo modo che la fantascienza lo rappresenta, attraverso cyborg o mutanti, cloni o ibridi con l’alieno: significa, semmai, abbandonare un modo di vedere il mondo. Abbandonare l’umano significa abbandonare l’antropocentrismo e riconoscere invece l’agentività delle altre forme di vita e di materia. Si può sopravvivere all’Antropocene, forse, riconfigurando il nostro posto nel mondo, ripensando cosa significa essere umani, e ricomponendo la frattura concettuale tra umano e animale, tra organico e inorganico. Anche la fine del mondo, se davvero significa solo fine dell’umano, può essere un’opportunità (p. 183).
Qui ricompare la frase presente nella quarta di copertina. La prospettiva proposta da Malvestio è sicuramente interessante, tuttavia c’è un punto su cui, credo, sia ancora necessario interrogarsi. Com’è evidente da alcuni passaggi di Raccontare la fine del mondo (si veda al riguardo soprattutto il capitolo L’era del virus), gran parte dell’apparato teorico che dà forma al ragionamento di Malvestio trae origine dagli studi postcoloniali. Questi ultimi hanno cercato di mettere in crisi la presunta oggettività dello sguardo dell’uomo occidentale, dando risalto al punto di vista delle culture decentrate o subalterne, che nel corso dei secoli hanno subito la violenza dell’Occidente. In sostanza, gli studi postcoloniali hanno mostrato come esistano molte realtà sociali differenti, con una propria visione del mondo, e come tra di loro sia presente un rapporto gerarchico, che non si struttura intorno a questioni di valore, bensì a questioni di potere. L’approccio critico usato da Malvestio considera anche i non-umani come dei subalterni, di cui ora è necessario riconsiderare il punto di vista.
Dare voce ai subalterni è un aspetto centrale degli studi postcoloniali. Non basta rinnovare l’interesse nei confronti degli altri punti di vista, è fondamentale che questi possano esprimersi dalla loro posizione, senza la mediazione della lingua del centro. Aspetto non banale e di non facile realizzazione, poiché a volte la voce dei subalterni viene distorta dal discorso occidentale, soprattutto anglosassone, di cui gli stessi studi postcoloniali fanno parte. Quando si parla di non-umani, il discorso si fa ancora più radicale: se per gli studi postcoloniali è fondamentale il concetto di traduzione, per permettere a differenti punti di vista di potersi comprendere, con i non-umani tutto ciò diventa piuttosto complesso, perché non si tratta di passare da una lingua a un’altra, restando però nell’ambito del linguaggio umano, ma di cambiare completamente linguaggio, confrontarsi con logiche animali, vegetali o inorganiche.
Oggi è quanto mai urgente agire nel mondo tenendo conto anche del punto di vista non-umano, tuttavia, non so se tale consapevolezza conduca per davvero al superamento dell’antropocentrismo. Come ha mostrato Furio Jesi nei suoi studi sulla festa, per lo studioso è pressocché impossibile poter vivere intimamente la festa di chi appartiene a una cultura differente. La festa è uno spazio e un tempo in cui una comunità condivide una certa visione del mondo. Lo studioso non può fare altro che essere spettatore degli aspetti esteriori della visione: i movimenti della danza, i costumi, le reliquie sacre, i monili, i canti, ecc. Il ricercatore esterno alla comunità lavora con sintomi, tracce, frammenti di un mondo che gli resterà per la maggior parte precluso. Quali sono le nostre possibilità di partecipare alla festa del non-umano? Possiamo partecipare alla visione dell’animale, della pianta, della terra, di elementi che possiedono linguaggi completamente diversi dal nostro, capacità sensoriali che mettono a dura prova la nostra capacità di immaginazione, categorie cognitive che mettono in crisi le nostre capacità raziocinanti?

Gerardo Iandoli
La mia biografia: Gerardo Iandoli (Avellino, 1990) si è laureato a Bologna e dottorato all'Università di Aix-Marseille, entrambe le volte in Italianistica. Si occupa di teoria letteraria e rappresentazioni della violenza nella letteratura, nel fumetto e nelle serialità televisiva italiana degli anni Duemila. Scrive per la rubrica UniversoPoesia di Strisciarossa. Ha pubblicato un libro di poesie, Arrevuoto (Oèdipus 2019).