La fine del tempo. Una visita al Bunker Valentin di Giulia Oglialoro ⥀ Passaggi
Su Passaggi, la rubrica di Argo dedicata alla prosa breve, troviamo oggi il testo La fine del tempo. Una visita al Bunker Valentin di Giulia Oglialoro, con un’illustrazione di Andrea Capodimonte. L’editoriale della rubrica può essere letto qui
Immagine in copertina di Andrea Capodimonte, Senza titolo, 2023.
Avanziamo lenti come una folla adorante, ondeggianti sull’erba umida, allucinati dal sole bianco che ammorbidisce i contorni dei nostri corpi. Respiriamo l’aria immobile e paludosa e l’apertura feroce dello spazio tutt’intorno, le scarpe scivolano sul sentiero e lo scalpiccio di passi è il nostro battito di cuore – siamo un animale dalle molte facce e i molti accenti, ma una sola direzione dello sguardo.
Proveniamo da diversi angoli d’Europa, e a sospingerci nelle campagne di Brema, nel punto più settentrionale del suolo tedesco, è stato un vento di curiosità, intessuto delle voci di amici e conoscenti che, in notti di confidenze, con un lampo nero negli occhi, hanno detto: Il Bunker Valentin bisogna vederlo, almeno una volta nella vita.
E quando lo vediamo, in lontananza, dopo aver camminato per chilometri tra piccole case dai tetti di paglia e pascoli che si son fatti via via sempre più radi, subito restiamo incantati dalla sua luce spenta e ossificata, dal freddo bagliore emanato dalle pareti alte, senza finestre. Nonostante l’edera che si avviluppa agli angoli, l’impressione non è quella che si avverte in tanti luoghi abbandonati dall’uomo, dove la natura con pazienza e ostinazione si impossessa dei relitti, ma piuttosto il contrario, ovvero di un tempio che attrae a sé tutto ciò che vive intorno, un tempio a cui persino gli steli del prato e gli arbusti sembrano flettersi in adorazione.
Avvicinandoci, un passo dopo l’altro, riconosciamo l’architettura semplice e rigorosa che abbiamo scorto nelle fotografie sgranate sul web, o sugli schermi dei telefoni di chi ci invitava a vederlo di persona, sperimentando nel corpo il suo incantamento. Mettiamo a fuoco la forma di un enorme parallelepipedo di cemento, su cui gli anni e la pioggia si sono abbattuti, sbiadendo il bianco originario, disegnando nere stirature. Proprio l’essenzialità delle sue linee sprigiona uno strano cortocircuito fra passato e presente – sembra una vestigia del passato e insieme una premonizione del futuro, un antico ritrovamento ma anche una traccia extraterrestre.
Gli antichi Greci credevano che ogni luogo, ogni bosco, crocevia, pozzo o sorgente fosse presieduto da un genius loci, da spiriti e ninfe dall’animo volubile, e niente poteva essere costruito senza la loro benedizione. Chissà se gli ingegneri del Reich che progettarono il Bunker Valentin, nel 1943, dimenticarono di invocare la divinità norrena che sorveglia questa pianura, e chissà che questa creatura – forse fatta di terra o nebbia, forse dalle labbra pallide come il cielo – non si sia poi vendicata, gettando una maledizione sull’intero edificio. Perché questo solo sappiamo del Bunker Valentin: non fu mai del tutto costruito e mai del tutto distrutto.
Ci disperdiamo. Ormai prossimi alle sue mura, prendiamo direzioni diverse – chi corteggia il Bunker da destra, chi da sinistra. Succubi del suo magnetismo, ci muoviamo con incantata lentezza, come in un sogno lucido in cui possiamo a stento decidere i movimenti. L’erba incolta e fosforescente accarezza i polpacci, e il silenzio non è mai stato così presente – nessuna voce o intuizione di città, non un fischio di auto in lontananza, niente, a parte il nostro fitto avanzare. A tratti, dal selciato emergono dei blocchi di pietra su cui poggiano fotografie e scritte in parte sbiadite: brevi didascalie che ci informano sulla storia del luogo, affissioni recenti, ma anche ciò che è nuovo qui annerisce presto, il terreno rigetta ogni pianificazione. Quando riprendiamo a muoverci, serpeggiando lungo i confini, tastando le pareti come ciechi viandanti, cerchiamo di dare ordine a quel che abbiamo letto.
Immaginiamo lo sforzo dei diecimila prigionieri che ininterrottamente lavorarono alla sua costruzione, il coro di respiri stremati, le schiene piegate dal peso di un progetto delirante: costruire, in soli venti mesi, la più grande fabbrica di sottomarini mai concepita.
Immaginiamo gli scoppi che misero fine a questo progetto, il cielo d’un tratto oscurato dalle bombe sganciate dalla Royal Air Force nel 1945, che distrussero la parte di cantiere ancora incompleta. Ecco che, dopo la guerra, il Bunker cambiò completamente funzione: per pochi anni, prima di essere disertato del tutto, non fu più utilizzato per costruire, ma per distruggere. Tra le sue mura riecheggiavano gli scoppi degli ordigni testati dalle truppe inglesi, che senza sosta sperimentavano quale detonazione sarebbe stata più efficiente, quale combinazione di elementi più fatale. Nella sua promessa d’isolamento, il Bunker Valentin era e resta uno spazio in cui scomparire, un vuoto sulle mappe.
Cerchiamo di tenere insieme queste informazioni, ripetendole dentro di noi come formule di un incantesimo. Ci sforziamo di ricomporre i brandelli di storia, per non lasciare che quello che si erge dinanzi agli occhi sia solo un blocco di muto cemento. Eppure, mentre ci avviciniamo all’unico ingresso – una buia apertura, scavata a forza nel bianco minerale – ci rendiamo conto, con una certezza mai provata prima, che niente lascia davvero traccia, che noi non lasceremo traccia.
Come certe pietre magiche che si portano al collo, e che al contatto con la pelle rivelano lo stato emotivo di chi le indossa, l’esatta temperatura del sangue, il Bunker non ha rilevato altro che la nostra transitorietà.
Siamo lo stesso branco spaventato, dalla notte dell’umanità; ci muoviamo avanti e indietro nelle pianure del tempo, raccontando storie, magnificando imprese, illudendoci così di incidere un’eterna pagina bianca. E adesso che stringiamo assieme i corpi sudati, e ci affacciamo oltre la soglia, e respiriamo il vuoto e il buio compatto dello spazio, ci sembra di percepire un suono tenue e distorto – forse un rivolo d’acqua che sibila ai nostri piedi, forse la risata di una ninfa accovacciata nell’oscurità, laddove noi non possiamo avanzare.
Chi volesse proporre prose brevi e illustrazioni per la rubrica, può inviarle a questo indirizzo email: RubricaPassaggi@argonline.it
Giulia Oglialoro
Giulia Oglialoro è nata nella provincia di Varese, dove tuttora vive. È autrice di diversi cortometraggi documentari e della novella Le stelle nere, pubblicata nell’aprile 2024 da Industria & letteratura.