Flame, Purple Clouds, Falling ⥀ Racconto di Valentina Riva

Presentiamo oggi il racconto Flame, Purple Clouds, Falling di Valentina Riva. La sintografia in copertina è di Andrea Capodimonte

 

L’occhio che guarda pulsa come un cuore in aritmia: prima disgrega le cose e poi le accumula di getto, e poi il contrario. I dettagli, all’inizio rarefatti, finiscono per precipitare in un punto esatto; oppure, se ben delineati, subito si sfrangiano e perdono la nettezza dei loro contorni. La fibrillazione è certo data dalla scena su cui l’occhio-cuore si posa, anche se non fino in fondo. L’occhio-cuore può spingersi soltanto al penultimo grado dell’orrore, fino al millimetro, sterminato, che ancora separa chi sta cadendo dall’impatto mortale che lo attende.

 


Flame, Purple Clouds, Falling

 

Il pulviscolo umido brillava nel cono di luce rovesciato da un lampione. Che non era più tempo di falene, si capiva anche dalla sciarpetta che le avvolgeva il collo, madida un po’ di brina e un po’ di saliva amara. Mentre cercava di scollare le labbra per lasciare andare un lamento, una specie di farina le si accumulava agli angoli della bocca; e sarà stato per via delle ciglia impastate di rimmel, ma i contorni dei marciapiedi, dei pali della luce e delle sue stesse gambe erano sfocati come il sole al tramonto. Anche i movimenti intorno erano vaghi: la macchina che passava di fronte sembrava lenta… lentissima. Ferma.
Intanto che i rumori le bucavano la testa come se stessero per sgorgare dalle tempie, diventava difficile distinguere un battito cardiaco da una portiera che sbatte. Diventava difficile anche distinguere l’ombra di una pianta che oscilla al vento dall’ombra di un uomo che si avvicina a scatti fino a che le pupille riescono a dilatarne il volto: sconosciuto, solo fino a un paio d’ore prima.
Lei puntava i piedi fasciati nelle calze smagliate come per ancorarsi a terra, ma le sue gambe rimanevano cenci buoni a lucidare i sanpietrini sui quali venivano trascinate. Diceva di no un po’ con la voce un po’ con la testa, ma bastò il tempo di un frullo d’ali per trovarsi sospesa a mezzo metro dal marciapiede. I sampietrini si allontanarono e si capovolsero, prima di essere coperti dalla portiera che si chiuse con uno scoppio.

you thought it was hot and light like a flame
but it is just a purple cloud
and you begin to wonder why you came
while bit by bit you are falling down

Mentre il ritornello continuava a girare nell’autoradio, un leggero dondolio muoveva il suo corpo afflosciato sul sedile posteriore; viaggiava nell’aria della notte ridotta in polvere nera, mentre luci rosse e gialle passavano lucide sul finestrino: prima fitte, poi sempre più rade, fino a scomparire.  Non riusciva più a sentire nemmeno la canzone. Ora il buio era completo.
Quelli che continuavano a percorrere la sua schiena erano brividi di freddo, o forse migliaia di piccoli insetti. Quando aprì gli occhi, non se ne curò più. Le mura della stanza erano ricoperte di mattoncini dipinti di nero. Il buio scivolava anche sul pavimento, a parte l’alone scarno proiettato in cerchio da una lampadina impolverata. Non c’erano finestre, ma dal piccolo buco cilindrico scavato al centro della parete, alitavano una luce verde e un velo d’aria.
Sollevando la testa da terra, oltre le barre di ferro e i sacchi di calce, vide spalle larghe e curve sotto un cespo di capelli neri. La paura la colpì come un pugno che, invece di farle sbatterle il cranio sul pavimento, la fece scattare in piedi, lunga, sul secchio vuoto appena rovesciato. Allora, le spalle oltre le barre di ferro diventarono petto e il cespo nero diventò volto: gli occhi, illuminati dall’ombra, avevano perso l’espressione gentile della sera prima, quando riflettevano un calice di vino e gli scintillii che scendevano dal soffitto del club. Il primo suono che uscì dalla gola di lei fu solo una sciacquatura di corde vocali; il secondo fu un urlo netto che non smetteva più di rimbalzare tra le pareti nere. Lui soffocò quella voce con uno schiaffo e le strofinò sui denti una polvere bianca che si faceva rossa a mano a mano che si mischiava al rivolo di sangue che le scendeva dal naso.
I contorni dei sacchi e dei pali cominciarono a sciogliersi un po’. Si sdoppiavano, si riunivano, si sdoppiavano ancora. La gonna arrotolata stringeva i fianchi, ma era la pancia a fare male. Lei lo colpì su uno zigomo con tutta la forza di cui era capace, ma in cambio ricevette un altro schiaffo, che le ustionò la pelle più del primo e, per un attimo, le bloccò il fiato. Anche il peso di lui sul petto le toglieva l’aria, ma il buco cilindrico scavato nel muro continuava a respirare. Fuori, il sole vacillava come la fiamma di una candela. No, dovevano essere solo foglie. Migliaia di foglie gonfie di vento, che decidevano sul flusso di luce e sulle sfumature di verde che scorrevano lungo il cilindro: chiare al centro, più scure lungo i contorni.
Il ritornello della canzone della notte prima tornò a suonare nella sua mente. E lei avrebbe voluto essere una fiamma, una nuvola viola, o la musica stessa, per farsi piccola, alzarsi in aria e uscire attraverso il cilindro. Il giardino verde, poteva quasi vederlo; il vento, riusciva a sentirlo. Lo sentiva respirare sulla faccia, tra i capelli.
Ma l’ultimo soffio fu soffocato dalle dita di lui che erano passate al collo. Il giardino era scomparso; non riusciva a vedere più nemmeno il cilindro. Sentì solo un grande vuoto nello stomaco, lo stesso che si sente prima di cadere.

 

 

 


Riva
Sintografia realizzata da Andrea Capodimonte.