Forme del Conflitto ⥀ Aspettando l’Inaspettat*. Risposte non accorte
Per la rubrica dedicata alle Forme del conflitto, a cura di Lorenzo Mari, presentiamo un suo contributo in risposta a Il divieto di accorgersi di Elisa Donzelli pubblicato recentemente su Le Parole e Le Cose
Il documento scritto da Elisa Donzelli come accompagnamento all’iniziativa svolta lo scorso 23 gennaio alla Casa della poesia di Milano e online è stato pubblicato su Le Parole e Le Cose con il titolo Il divieto di accorgersi. Credo che – insieme a un intervento, per certi versi analogo, di Marco Giovenale apparso su Operaviva nel luglio 2020 e intitolato 6070 – possa essere valorizzato come un momento importante di un possibile dibattito che vada oltre certi limiti costitutivi dei lit-blog e delle bolle social; di più, credo che ponga domande che stanno a monte e a valle della scrittura di molt*, fra chi si è confrontat* anche teoricamente con la poesia contemporanea (qualunque significato abbia o non abbia quest’ultima espressione: poesia contemporanea, o anche poesia contemporanea); sono domande importanti e perciò mi sembra, provenendo dal “divieto di accorgersi”, che richiedano, innanzitutto, risposte non accorte. Viscerali, eterodosse, devianti – sbagliate, al limite – ma tanto più adeguate, anche in questo, quanto più vicini si sentono gli interrogativi posti 1.
[Soltanto un’altra piccola premessa: tutte le risposte che seguiranno non hanno niente a che fare con un vagheggiamento idealistico di rivoluzione, o con altre velleità politiche che non tengono in conto i limiti, simbolici e materiali, delle questioni in gioco. I limiti ci sono (e sono i limiti di una determinata, e non di un’altra, potenza). Inoltre, non hanno a che fare con le “poetiche”, con il “pubblico della poesia” o con la “funzione dell’intellettuale”: dibattiti che, se non sono superati, sono ormai largamente conosciuti in tutta la loro contraddizione e, spesso, nella loro scarsa fungibilità.]
Manca una collettività della e nella poesia: le riviste militanti sono diventate contenitori telematici inevitabilmente di altro tipo (anche solo per effetto dei mezzi utilizzati); gli atlanti e le mappe non hanno colmato il vuoto di una critica che non ha retto il passo del discorso che andava contro e oltre il canone. In questo, niente sembra funzionare come indice affidabile di collettività; al massimo, si sono riprodotti “micro-nuclei” di interesse (riprodotti, perché già c’erano, ci sono sempre stati e sempre ci saranno). Vero.
E tuttavia, quel lavoro – insieme alla lotta; insieme, in modo meno austero, al godimento – è stato rimandato appunto dai poeti (uso consapevolmente il maschile universale, qui, e cioè il maschile universale che è anche tipicamente bianco, abilista, eccetera… e, non ultimo, piccolo-borghese), non da altr* soggett*. Dirci questo, essere in grado di dirci questo, può rappresentare uno dei portati più chiari di un libro – della storia di un libro, più precisamente – che esce in Italia nel 1965, intorno, appunto, al discrimine materiale e simbolico proposto da Elisa Donzelli, e che trova traduzione venezuelana nel 1970, con una nuova postfazione scritta dall’autore nel giugno 1968 (postfazione che per me è di recente lettura e spero si infiltri anche in queste righe): Verifica dei poteri di Franco Fortini.
Ora, l’evocazione di un livello “politico” non coincide in prima battuta, né in modo esclusivo, con una specifica estetica o un particolare posizionamento teorico. Elisa Donzelli ha giustamente sottolineato alcune aporie della cosiddetta “poesia civile” o “sociale”; fuori da queste declinazioni, che potrebbero superficialmente sembrare le più affini ai modi della politica, molta altra poesia e molte altre scritture restano nella politica (oppure, e in modo altrettanto fecondo, ai suoi margini). Giovenale scriveva, ad esempio, di una coltivazione dell’ombra e della latenza, all’interno delle “scritture non assertive” («una idea non tutto-assertiva e non pienamente dichiarativa della scrittura», si legge in 6070). Si potrebbero aggiungere ancora molte altre declinazioni: ricorrendo a un noto sofisma della critica militante, si potrebbe aggiungere che anche quando si cerca, senz’alcuna propensione dialettica, di rendere manifesta la “fine della politica” (o “della storia”) e il proprio “ritiro dalla politica”, le posizioni restano – parzialmente o completamente che sia – determinate a livello ideologico. E via di questo passo.
Già questa rapida constatazione della molteplicità non tanto delle “poetiche”, quanto dei possibili posizionamenti estetici, culturali e – se appunto ci poniamo interrogativi su memoria, storia, collettività – politici potrebbe rinviarci a una riproposizione, sempre più frammentata e idiosincratica, della Solitudine della forma, per citare un saggio di Guido Mazzoni di ormai vent’anni fa. A questo proposito, Andrea Inglese ha ripreso un sintagma simile rispondendo al questionario proposto da Giorgiomaria Cornelio, pubblicato in un primo momento su Nazione Indiana e ora disponibile in volume con il titolo La radice dell’inchiostro (2021). Cornelio ha posto una domanda in apparenza terribile (esemplari le risposte di Adriano Spatola, Corrado Costa e, soprattutto, l’abiura della letteratura, nel 1985, di Emilio Villa) e al tempo stesso quotidiana, che richiama le risposte più diverse, da parte di ciascuna “solitudine”: «È ancora legittima la radice dell’inchiostro?». È ancora possibile, tra le altre, la scrittura poetica?
Inglese risponde: «Siamo condannati alla solitudine della forma. Una qualche forma c’è, ed è anche singolare, ma è difficile da decifrare interamente anche per noi stessi, perché non c’è occhio che la percepisce, che si sofferma su di essa, e che reagisce in qualche maniera significativa, esplicita, magari attraverso un conato, un gesto di stizza, un’incomprensione esibita. Il problema allora non è: a che serve?, ma a chi serve? Chi in qualche modo riuscirà o proverà a servirsene. […] Una verifica degli usi, ossia delle letture. Delle nostre letture di scritture altrui».
Verifica dei poteri e verifica degli usi, dunque. Convergono, banalmente, sulla modalità della verifica, metodologia alla quale si possono sottoporre ex novo alcuni passaggi nodali della discussione aperta da Donzelli. Innanzitutto, gli eventi dei quali si potrebbe, o si dovrebbe, tornare a parlare, secondo Donzelli – «da Gorbaciov a Chernobyl e alla caduta del Muro, dall’uccisione di Falcone e Borsellino al ventennio berlusconiano, dal G8 di Genova alle Torri gemelle», per citare, a titolo di esempio, il relativo passaggio del “Divieto di accorgersi” (cui si aggiungono poi altri riferimenti alla crisi economico-finanziaria del 2008 e alla crisi pandemica) – hanno una relazione spesso complessa e tormentata con la categoria di “evento” (su questo punto, e non solo, alcuni nouveaux philosophes avrebbero molto da dire, tra l’altro).
Tuttavia, un’analisi ed elaborazione diversa – che può adottare, ad esempio, un riuso consapevole degli stessi media, qui illuminati soltanto su uno dei possibili versanti della loro esistenza e proliferazione – non può essere demandata unicamente a un gesto individuale che, inevitabilmente, risulta anche un po’ moralistico, o velleitario. Anche su questo punto, in fondo, rimbalza la mancanza di collettività messa in capo a queste risposte non accorte.
A verifica si possono sottoporre anche le stesse generazioni che si sono succedute a partire dal 1966/1968, per stare a Donzelli, o dai nati negli anni Sessanta, per stare a Giovenale. Curioso, in questo senso, che la prima scriva di «una generazione che però non c’è, e non può esserci» e il secondo inizi il proprio scritto con un perentorio: «Credo nell’esistenza delle generazioni». Chi ha letto entrambi i testi sa che si tratta di affermazioni, in entrambi i casi, ulteriormente articolate e sfaccettate e che, pur evocata, non vi è alcuna vera polarizzazione tra le due posizioni: tutto questo può rinviare a un uso del criterio generazionale che oscilla tra il livello retorico e quello euristico – cercando, en passant, gli inevitabili appigli sociologici. In questo senso, alla sociologia dei media proposta ad esempio da Giovenale – semplificando: «gli sceneggiati degli anni Sessanta sono stati sostituiti dalle telenovelas e dalle serie tv, con le loro brave risate gregarie, negli anni Ottanta» – si può contrapporre l’analisi di Jack Judith Halberstam nell’Arte queer del fallimento (2011), di prossima uscita in traduzione italiana. Secondo Halberstam, una certa dimensione “collettiva” si può ancora rintracciare in una certa produzione Pixar degli ultimi decenni, benché con tutto il potenziale e le aporie del caso, trattandosi di una iniziazione alla rivolta come “Pixarvolt” (Pixar + revolt) – in quel caso, è proprio l’arte queer del fallimento a illuminarne e riposizionarne la portata.
La questione delle generazioni porta con sé quella dei padri e delle madri, di fratelli e sorelle maggiori – una famiglia, anche questa, che può essere scombinata e ricombinata da uno sguardo queer, evitando di scambiare il presunto complesso edipico o, d’altra parte, di Peter Pan per una realtà che necessita di una trasformazione e di un’evoluzione verso l’età adulta in senso moralistico, e cioè a prescindere dalle sue coordinate materiali. In assenza di nomi certi – come pare di capire, e come effettivamente deriva tanto dalla latenza e latitanza della critica come verifica, quanto dall’assenza di collettività – Donzelli propone, ad esempio, di tornare «ai nonni (di nonne nelle antologie su cui ci siamo formati ce n’erano ben poche) e, nel caso di molti di noi, in particolare ad uno: Vittorio Sereni», con il Diario d’Algeria, pubblicato 75 anni fa. Qui invece si è fatto più volte il nome di Franco Fortini, e non tanto e non solo per le sue opere singole come Verifica dei poteri, giù giù fino all’ultima, Composita solvantur (1994), quanto per una certa vigenza – ora negata, ora riaffermata – della lezione fortiniana, ancora molto presente, ad esempio, in un saggio di indubbia rilevanza, a questo proposito, come I destini generali (2015) di Guido Mazzoni.
Aggiungere Fortini a Sereni, tuttavia, non ci cava d’impiccio. Così come non ci cava d’impiccio nominare un altro possibile nume tutelare di questo percorso come Amelia Rosselli – per quanto sia giusto chiedersi, con Donzelli, perché manchino di una certa, determinata, riconoscibilità le genealogie e discendenze femminili, così come sembra che non ne abbiano guadagnata una altre genealogie: queer, transnazionali 2, etc. – o ancora altr*. E questo perché approfondire la disamina delle opere e insieme dei rapporti di affinità e diversità – in una parola, delle genealogie – è un lavoro che ognun* finisce per fare pro domo sua. Succede spesso, e non soltanto per la motivazione generale, di ordine ideologico, per cui la critica latente non è verifica dei poteri e degli usi, e la sua pratica porta al rafforzamento dei “micro-nuclei” di interesse. (Che sono tali, “di interesse”, anche perché la ricostruzione di una genealogia funziona finora, e in primo luogo, come accrescimento del proprio capitale simbolico, non di quello de* autor* riscopert*).
Mi sembra che questo succeda anche, forse soprattutto, perché la crisi della politica e della collettività può essere facilmente retrodatata (i “micro-nuclei” ci sono sempre stati, come si diceva) e le generazioni de* autor* nat* negli anni Quaranta e Cinquanta e tuttora in vita (con buona pace, anche, de* autor* degli anni Trenta, qui egualmente presenti o trascinati con una certa forza) ha sofferto delle stesse trasformazioni in principio riconducibili, materialmente e simbolicamente, agli anni Sessanta. Non si salva nessun*, perché nessun* sta, di fatto, salvando nessun*. Per quanto questi nomi restino di un certo appeal per una rinnovata produttività del lavoro culturale e anche accademico, il lavoro collettivo, se si è arenato, si è arenato anche in questo caso.
Cambiando ora angolazione, verifica è anche, etimologicamente, “rendere vero”. Come si rende vera questa interrogazione? I percorsi possibili sono tanti.
Uno. Riversare questo lavoro nel proprio lavoro poetico, traduttivo e critico che comunque, nonostante tutto, va avanti e per molt* può ragionevolmente costituire l’unica priorità. È quello che propone Elisa Donzelli rispetto al proprio lavoro editoriale e di operatrice culturale. Chi vorrà, discuterà la validità delle singole proposte che arriveranno in questo senso; la direzione di queste risposte non accorte vuol essere leggermente diversa, presupponendo la ricerca di un livello che trascenda e, collettivizzandole (ovvero, più prosaicamente – si era detto di non inneggiare alla rivoluzione, no? – socializzandole entro l’orizzonte di una o più collettività), articoli nuovamente le singole posizioni.
In ogni caso, secondo questo primo percorso, si corre di nuovo il rischio della solitudine della forma o, al limite, dei micro-nuclei, ma assumendosene, almeno, sempre più coerentemente la responsabilità. Bene.
Due. Si può cercare di immaginare un lavoro politico diverso. È curioso, ma di vitale importanza che, alla fine del suo intervento, Giovenale ricordi le esperienze delle riviste universitarie (in particolar modo, quelle sorte attorno al periodo della Pantera, alla Sapienza). Oggi le università non sembrano più essere laboratori di quel tipo, stretti tra le limitazioni materiali inevitabilmente connesse, per dirne una, alla didattica a distanza e ancora alcune coordinate simboliche e materiali più generali che sembrano radicalmente cambiate (rispetto ai primi anni Dieci, però, mi sento di dire, diversamente da Giovenale, e cioè almeno rispetto al tempo dell’Onda). Si potrebbe pensare ai movimenti: anche questi – come le riviste universitarie che spesso ne sono state emanazione, o contraltare – hanno vissuto e stanno vivendo una fase di trasformazione che li rende, al tempo stesso, interlocutori materialmente precari, ma politicamente ancora praticabili. Perché no, in fondo? Perché non confrontarsi con i laboratori politici e culturali che hanno fatto dell’anonimato una delle proprie risorse di base, invece di continuare ad arrogarsi una funzione intellettuale (ineludibilmente connessa a un certo capitale simbolico individuale) che è andata invece disgregandosi? Perché non imparare da chi fa politica, allo scopo di ritornare a fare politica culturale, ossia quello che ragionevolmente ci può competere?3
Tre. Approfondire il confronto con le altre generazioni di autori, dare loro più respiro, e più spazio. Fare nomi nuovi, che esulino dalle coordinate di un lavoro di canonizzazione che ormai si è interrotto, ma si è anche definitivamente cristallizzato, nel frattempo. Dopo Sanguineti, Rosselli e Zanzotto si possono fare altri nomi? Non è il caso di togliersi d’impiccio e iniziare a lavorare su questi nomi e queste opere un po’ più seriamente e coordinatamente?
In questo modo, la genealogia critica può essere sottratta al capitale simbolico dei singoli e configurarsi, anche in questo caso, come verifica dei poteri e, insieme, verifica degli usi. Il che è già una risposta alla perdurante agonia, che talvolta è soltanto latenza, della critica: non tanto una critica che aggiunge nomi e si inserisce nel cortocircuito della canonizzazione (la lotta contro e oltre il canone, così come l’analisi storica del crollo del palco di Castelporziano, ci arrivano come temi triti e ritriti e al tempo stesso irrisolti direttamente dal non-dibattito poetico degli anni scorsi), quanto una critica diversa. E, di nuovo, con-divisa.
Quattro. Non ci sono risposte facili. Nessuno di questi possibili percorsi garantisce un esito positivo, né in merito alla costruzione (decostruzione, ricostruzione, etc.) di una collettività, né per le questioni – non immediatamente, ma di certo inderogabilmente politiche – della memoria e della storia. Inoltre, nessuno di questi percorsi può cambiare di una virgola i destini generali, posto che esistano ancora. La verifica può tuttavia “rendere vera” un’apertura verso l’inaspettato: de* tant* soggett* (non poeti) che hanno fatto politica in questi anni non sono stati, nessuno è stato soggetto rivoluzionario in senso stretto, ma molt* sono stat* inaspettat*.
Quello che ci si aspetta, invece, in un’epoca post-pandemica, è, con ogni probabilità, che si riprenda esattamente dove ci si era interrotti. Continuando a fare le stesse cose, insieme alle nuove che ci sono state inculcate, più che inoculate. La normalità, che è tutto fuorché una mozione di principio queer. Ci si aspetta lo Stesso, non l’Inaspettat*, perché i fortunati e i privilegiati (maschile universale eccoti di nuovo) dicano che “non ci si è accorti di nulla”.
Se la risposta – non ora, ma fatte le verifiche che si riterranno collettivamente necessarie – sarà ancora non accorta, non lo sarà certo in quel senso.
Postilla
La verifica può “rendere vero” attraverso una via sempre politica, ma che ridà spazio a una contemplazione, se non mistica, di certo non analitico-razionalista come quella che qui viene in qualche modo proposta (in modo viscerale, sbagliato, deviante perché, come si diceva, “sentito”). Potrebbe essere la via del reincanto. Ne parla Stefania Consigliere (ah, les nouveaux philosophes, di nuovo!) in Favole del reincanto. Molteplicità, immaginario, rivoluzione (2020). Sembra la via seguita, per altri versi, anche da Bianca Battilocchi: risalendo a Emilio Villa e poi ancora fino a María Zambrano, Battilocchi ha risposto al questionario La radice dell’inchiostro con parole che vanno similmente alle radici dell’Inaspettat*: «Il poeta (come il mistico) deve farsi orfano del mondo – diventare lo sradicato – per fare conoscenza dell’infinità del tempo o della sua stessa inesistenza, e incarnarsi in una prospettiva nuova e sempre mutevole. Per una testimonianza che possa avvicinarsi all’Inaudito e suggerire una nuova direzione del nostro peregrinare, non si dovrà lasciarsi intimorire dal proprio bisogno di radicalità. Emilio Villa scriveva della necessità di “slogarsi per logarsi”, distruggere per generare, come un alchimista. La vulnerabilità sarà quindi offerta nel laboratorio poetico come materia prima da manipolare» (pp. 99-100).
Note
1 Altrettanto viscerale è l’uso dell’asterisco in alcune occasioni, all’interno di questo articolo. Sbagliato e deviante, anche rispetto a una sua possibile normazione “inclusiva”, appare comunque un indice della necessità di quello sguardo queer sulla questione che affiora anche altrove, in questi paragrafi.
2 Recentemente, autor* nat* negli Ottanta (Tommaso di Dio: William Carlos Williams, La primavera e tutto il resto, Ibis 2020; Carmen Gallo: T. S. Eliot, La terra devastata, Il Saggiatore 2021; di prossima pubblicazione un importante lavoro, anticipato qui, di Luciano Mazziotta sui Sonetti a Orfeo di Rilke) si sono impegnati nella traduzione dei capisaldi del modernismo internazionale, altroché il dopoguerra di Sereni…
3 L’interrogativo sulla politica culturale come spia di un’irrisolta critica dell’ideologia affiora anche in un recente articolo/saggio di Matteo Marchesini, L’agonia della critica (Il Foglio – sì, Il Foglio – 7 febbraio 2022).
4 Perché il lamento post mortem su* poet* sottovalutat* che, negli ultimi giorni, ha toccato l’opera di un’autrice fondamentale della poesia contemporanea come Cristina Annino, non abbia più ragion d’essere!
Forme del conflitto sono già state rintracciate in:
Sogni e risvegli di Fabrizio Bajec
Lorenzo Mari
Lorenzo Mari vive e lavora a Bologna. Ha pubblicato alcuni libri di poesia, tra i quali gli ultimi sono Querencia (Oèdipus, 2019) e la plaquette Tarsia/Coro (Zacinto, 2021). In prosa, ha pubblicato il racconto Via Mascarella alta e bassa (autoproduzioni Modo Infoshop, 2019) e ha ottenuto il XXXV Premio Teramo Giovani - Giacomo Debenedetti per il racconto Un percorso sicuro.
Traduce dallo spagnolo (Agustín García Calvo, Sonetti teologici, L'Arcolaio, 2019; César Vallejo, Trilce, Argolibri 2021) e dall'inglese (David Keenan, Memorial Device, Double Nickels, 2020, insieme a Matteo Camporesi).
Ha curato l'edizione italiana di ZURITA. Quattro poemi del poeta cileno Raúl Zurita (Valigie Rosse, 2020), nella traduzione di Alberto Masala.
Collabora con varie riviste online (Pulp Libri, Fata Morgana Web e Jacobin Italia).