Forme del conflitto ⥀ “Avrei voluto da giovane solo vivere” di Nadia Agustoni
La lotta di classe, la rivendicazione di libertà e dignità emergono dalle poesie di Nadia Agustoni, contenute nella nuova pubblicazione Avrei voluto da giovane solo vivere
Arrivando alla lettura di Avrei voluto da giovane solo vivere (Aragno, 2024) di Nadia Agustoni poco dopo aver terminato La rimozione del conflitto (Industria & Letteratura, 2024) di Andrea De Alberti, una delle prime riflessioni non può che essere legata alla forza plastica di condizionamento e modellamento del piano esistenziale, nonché della scrittura poetica, esercitata da un determinato sistema socio-economico, nei suoi risvolti materiali e simbolici. Se «i soldi fanno l’infanzia luminosa», in De Alberti (p. 33), e il conflitto che ingenerano arriva in modo chiaro almeno fino all’adolescenza – «L’adolescenza è in parte economica e in parte emotiva, / ci ricordiamo l’odore dei soldi / e l’effettiva disuguaglianza tra un abbraccio e una mancia» (p. 41) – nel testo di Agustoni emerge a più riprese una «lotta di classe» legata, indirettamente, dal titolo dell’opera, e dunque dalla sua macrostruttura, a un rapporto, di primo acchito nostalgico e in realtà assai complesso e stratificato, con l’età giovane.
Tuttavia, nel testo dove compare il verso di Agustoni che dà anche il titolo al suo libro, c’è qualcosa di più: «avrei voluto da giovane solo vivere, non avere alcuna consegna // se non quel bene di ogni cosa» (p. 25). Se la vita, nel suo magmatico incedere, è già di per sé «quel bene di ogni cosa», occorre forse concentrare l’attenzione sulla parola consegna, semanticamente densa, e sull’allusione al fatto che l’esistenza implica molte altre consegne che non hanno nulla a che vedere con la vita come «quel bene di ogni cosa». Se l’etimologia rimanda al verbo latino consignare – “sigillare, sottoscrivere, registrare” – la consegna può essere oggi la ricezione di un oggetto, o di un ordine (per non dire di un’altra accezione di ambito militare, come quella della punizione alla temporanea reclusione in caserma, o simili): si tratta, in altre parole, di qualcosa che il soggetto riceve e al quale si deve adeguare, non di rado mettendo la propria firma.
Con il rischio ora di spostarci lontano dal testo di Agustoni, in tutto questo si può intravvedere il problema dell’interpellazione, recentemente richiamato con grande precisione da Gian Luca Picconi a proposito di Sì (Tic, 2024) di Alessandro Broggi. Un problema, questo, dalla matrice althusseriana che nel libro di Broggi è affrontato in modo molto diverso, e giustamente individuato da Picconi come paradigmatico per le scritture di ricerca (e non solo) a venire, attraverso uno specifico lavoro sul piano dell’enunciazione: «Broggi introduce […] il problema tutto ideologico dell’interpellazione (più precisamente: il meccanismo dell’adresse lyrique si trasforma in interpellazione), dimostrando appunto che non esiste altro che l’interpellazione, che la lingua di per sé è già sempre interpellazione; a questa interpellazione, al fatto che la lingua mi definisca e mi faccia essere qualcosa, il modernismo ha tentato di sottrarsi attraverso la dimensione del negativo («Codesto solo oggi possiamo dirti»); ma quell’«oggi» mostra che dietro al negativo c’è comunque l’utopia ormai irraggiungibile di una salvaguardia del soggetto in modo che possa abbracciare tutto».
La scrittura di Agustoni sembra situarsi nello stesso orizzonte, ma all’altezza, piuttosto, della trasformazione dell’adresse lyrique in interpellazione, proponendone cioè un’interpretazione più spiccatamente materialista e rinviando all’interpellazione come “effetto-soggetto”, a quei meccanismi, in altre parole, di assoggettamento continuamente richiesti dai rapporti di produzione. Che ciò avvenga sulla scorta della lettura di Althusser o meno, non è dato sapere, ma le rispondenze sembrano molteplici: la scrittura di Agustoni suggerisce allora un modo per «mandare in crisi il meccanismo che ci definisce e definendoci ci riduce a un ruolo sociale» – citando ancora Picconi – che in parte collima, in parte differisce dal «movimento affermativo» del Sì di Broggi. Quel movimento affermativo, sottolinea Picconi, avviene «a patto di guardare al mondo dal punto di vista della vita, che è fuori della storia» di Broggi, mentre in Agustoni resta più tenacemente radicato nella storia (ad esempio attraverso il corpo, come si vedrà).
Ora, restando per un attimo su Althusser, la sua opera – considerando ad esempio un testo pubblicato soltanto una decina d’anni fa come Inititation à la philosophie pour les non-philosophes (PUF, 2014), e seguendo il sentiero tracciato da Stefano Pippa in un recente libro sul soggetto surinterpellato – non postula una sola interpellazione, correlata a un processo univoco di assoggettamento, bensì una pluralità di interpellazioni (corrispondente alla constatazione che le ideologie di una data formazione sociale formano sempre una pluralità aperta, di contro invece alla tendenza alla chiusura dell’ideologia dominante) che mantiene la possibilità di attingere a un margine, secondo l’espressione di Althusser, di «libertà oggettiva». Margine di soggettivazione politica, anche, che Agustoni amplifica di molto nella nota a testo, rifacendosi in questo caso più esplicitamente all’opera di Monique Wittig, e celebrando «la libertà di essere, creare e crearsi e sentirsi altro, prima di tutto umanità che è, radicalmente, stare nella libertà; e libertà è molte cose, anche non definirsi, non scriversi col pensiero degli altri» (p. 75).
La poesia di Agustoni non è, ad esempio, incasellabile nell’angusta definizione della “poesia operaia”, pur nascendo, di fatto, in quegli «alveari di morti» (p. 43) che sono le fabbriche: nei versi immediatamente precedenti si può difatti leggere che «la Voronež della mia mente / tradisce bisbigli di fabbriche», con un richiamo alla poesia di Osip Mandel´štam che è anche un aggancio al canone letterario mondiale, e cioè a una poesia senza ulteriore definizione, specifica o dichiarazione dei redditi…
È allora nel margine di libertà, e nel processo di soggettivazione politica, che si può leggere a ripetizione, in più testi, il sintagma «la lotta di classe è», con un ricorso, cioè, a quella lotta di classe che, anche per (un certo) Althusser, è la chiave per evitare interpretazioni eccessivamente funzionaliste dell’ideologia e dell’interpellazione. Emersione sintomatica, in un testo che, appunto, sembra avere rispondenze althusseriane, ma di certo non “le mette in poesia”: la presenza reiterata della «lotta di classe» nel libro di Agustoni esula dal piano della militanza, o del velleitarismo teorico-politico, per restare «pura» (p. 19 e p. 44), e cioè dirsi nella forma più assertiva possibile: «la lotta di classe è», ripetuta tre volte (p. 19, p. 22, p. 44).
Più che assertiva, anzi, è una forma lapidaria: «comincia dove i poveri e gli esclusi sono negli elenchi di chi li uccide. scrivo perché nessuno dica: consentirono. eravamo il silenzio nelle pietre, nei lapidari. lì dove la vita era cancellazione siamo cresciuti. siamo in ogni domanda» (p. 19). E dice di un lavoro che, in ultima analisi, non riguarda tanto e soltanto le morti sul lavoro – troppo spesso ideologicamente eufemizzate come “morti bianche” – come ricordato nella presentazione del libro da Maria Grazia Calandrone, né si richiama esplicitamente alla lotta di classe per una qualche nostalgia (…ideologica?), ma perché solo in questo modo, con queste parole, si riattiva il margine di “libertà oggettiva” nei processi di soggettivazione, e questo anche nel panorama desolante e alienato della fabbrica, o dovunque la vita sia «cancellazione».
«La lotta di classe è nei corpi graffiati» (p. 22), scrive poi Agustoni, indicando come si debba guardare non tanto alla parola, passibile di tutte le deformazioni ideologiche, quanto al corpo dolente, ferito e comunque ancora capace di parola: è qui che si gioca il conflitto di classe, con tutto il suo portato traumatico e di violenza; sono, infatti, «i corpi che ricordano cos’erano prima del dolore» a esprimere la lotta di classe come «pura» (p. 44). Le fabbriche, come si è detto, sono «alveari di morti», più che mezzi di produzione da conquistare o trasformare di segno: in esse, ha luogo «il male sugli inermi» (p. 44), la produzione e lo sfruttamento di una certa divisione politica della vulnerabilità, prima e oltre che del lavoro.
Uno stare dentro al corpo che, tuttavia, non nega la possibilità di un’estasi, per quanto priva di trascendenza: come si legge in un testo, muti – nudi, che conviene riportare per intero, «nelle lingue dei corpi chi parla? essere muti – nudi, / un altro un altrove» (p. 33). Lo ha suggerito l’autrice in un’intervista uscita sull’Eco di Bergamo il 29 maggio 2024, insistendo a più riprese sulla qualità «spirituale» di questa sua nuova opera – spiritualità confermata anche da una forma che torna a impiegare diffusamente il frammento (anche quando si espande rapsodicamente in strofe brevi di varia misura), ricordando più le Lettere della fine (Vydia, 2017; seconda ed.: 2022) che non I necrologi (Camera Verde, 2017). Diversamente da quanto proposto da Cristiano Poletti nella sua recensione per Ytali, appare un movimento spirituale che forse non è ascensionale, ma che certamente insegue una diversa radicalità della parola (e lo fa anche in modo programmatico: «si fa ascia e sole là nell’aria la mia parola», p. 36).
Anche così può avere luogo una trasformazione del corpo che si oppone al suo modellamento eterodiretto, al suo sfruttamento e al suo annichilimento di fabbrica (come luogo al tempo stesso produttore e distruttore di corpi, nella sua continua estrazione di forza lavoro), ed è anche sulla scorta di questo – con un posizionamento che risponde autenticamente alla tensione queer dell’opera già ricordata attraverso la dedica del libro a Monique Wittig – che Nadia Agustoni si ribattezza, in alcuni testi, Nadir.
Trascendenza che si postula ironicamente al contrario – verso il punto più basso, diametralmente opposto allo zenit – per rivelarsi infine, nell’immanenza e nella contingenza, «un altro, un altrove»: se Nadir appare una prima volta «nelle scapole tra terra e luce / in un ampliarsi simile / all’azzurro dimenticato», allocato «tra le costole e il cuore / nel primo alfabeto del mondo» (p. 10), d’altra parte, nella successiva occorrenza, questo alfabeto primigenio rifiuta ogni carica demiurgica, per dischiudere, invece, un «nome dato a qualcosa nell’interiorità / toccato per sempre» (p. 67). Ed è, al tempo stesso, l’aver toccato il fondo (delle cose, della propria interiorità, del male…) a costituirsi come nadir, e il nome nuovo, Nadir, a rivelare che tutto ha un (doppio) fondo. Movimento duplice, se non anche rifratto e purale, che molto ha a che fare con la concezione estetica, fortemente radicata nella classicità, che domina in un altro testo che sembra avere qualità programmatica: «la bellezza che viene anche per noi / per un’ombra a nascondere il mondo» (p. 52), sempre, quindi, con il moto doppio della ri-velazione.
È in questa chiave spirituale che si può, infine, cogliere l’intero (non il “tutto” di un qualche misticismo d’accatto, né peraltro “la totalità” di marxiana memoria… della memoria marxiana più ortodossa, almeno), un intero dove «non c’è frattura non c’è pornografia» (p. 31).
Continua ad esserci, però, una forma di conflitto – anche “di classe” – e insieme un tenacissimo margine di libertà.
⥀
viii
ci hanno dato
la storia del nulla
la genealogia
delle lapidi
ma abbiamo costruito il mondo la vita
la nostra origine è un luogo di azzurro
con i fiori e il silenzio
fino a qui.
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il lungo cammino della storia
la lotta di classe è nei corpi graffiati. è il lungo campo della storia, la dolcezza spossata dei morti mai andati via. ora aprono i segreti, vegliano i sepolcri dove il tempo non li confonde.
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quel bene di ogni cosa
abbiamo la morte vicino, il torace in cui resiste quell’andare del cuore sugli ostacoli. la morte è ogni giorno con la vita. in una fotografia ci vediamo sfocati. sembra per finta sembra un gioco. avrei voluto da giovane solo vivere, non avere alcuna consegna
se non quel bene di ogni cosa.
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perché il sangue sulla terra diventi fiori rossi
i fiori rossi. poi c’è luce nelle spighe
c’è polvere e un volo di uccelli contro il cielo.
vanno in alto: viene per l’estate questo vivere
nei temporali.
Forme del conflitto sono già state rintracciate in:
Sogni e risvegli di Fabrizio Bajec
Il divieto di accorgersi di Elisa Donzelli (documento apparso su Le Parole e Le Cose)
Movimento e stasi di Massimo Palma
Il mare a Pietralata di Claudio Orlandi
Nella spirale (Stagioni di una catastrofe) di Gianluca D’Andrea
Pietra da taglio di Anna Franceschini e Lacrime di Babirussa di Riccardo Innocenti
Waves di Vincenzo Bagnoli e Eleanor di Alessandra Cava
Per far vivere altro cadiamo di Marco Carretta (scritto di Matteo Cristiano)
Lottare per le idee di Giuseppe Muraca
Togliattə di Mariano Correnti e Liricologismo di Marzia D’Amico
Non sappiamo come continuare di Demetrio Marra
Ipotesi sul mio disfacimento di Bernardo Pacini e Fracking di Alessio Verdone

Lorenzo Mari
Lorenzo Mari vive e lavora a Bologna. Ha pubblicato alcuni libri di poesia, tra i quali gli ultimi sono Querencia (Oèdipus, 2019) e la plaquette Tarsia/Coro (Zacinto, 2021). In prosa, ha pubblicato il racconto Via Mascarella alta e bassa (autoproduzioni Modo Infoshop, 2019) e ha ottenuto il XXXV Premio Teramo Giovani - Giacomo Debenedetti per il racconto Un percorso sicuro.
Traduce dallo spagnolo (Agustín García Calvo, Sonetti teologici, L'Arcolaio, 2019; César Vallejo, Trilce, Argolibri 2021) e dall'inglese (David Keenan, Memorial Device, Double Nickels, 2020, insieme a Matteo Camporesi).
Ha curato l'edizione italiana di ZURITA. Quattro poemi del poeta cileno Raúl Zurita (Valigie Rosse, 2020), nella traduzione di Alberto Masala.
Collabora con varie riviste online (Pulp Libri, Fata Morgana Web e Jacobin Italia).