Forme del conflitto ⥀ “Ipotesi sul mio disfacimento” di Bernardo Pacini e “Fracking” di Alessio Verdone

I due libri di poesia Ipotesi sul mio disfacimento (Mar dei Sargassi, 2024) di Bernardo Pacini e Fracking (Arcipelago Itaca, 2024) di Alessio Verdone a confronto:  in entrambe le raccolte i poeti tentano di risolvere il conflitto, o almeno di raggiungere un equilibrio

 

Nell’accostare i recenti libri di Bernardo PaciniIpotesi sul mio disfacimento (Mar dei Sargassi, 2024) – e di Alessio VerdoneFracking (Arcipelago Itaca, 2024) – ciò che già sulla soglia della lettura colpisce l’attenzione è il rincorrersi, nell’immaginario, della balena che spicca sulla bella copertina del volume di Pacini (il cui progetto grafico del libro è stato affidato a Francesca Testa) e il riferimento a Giona nelle prime righe della prefazione di Stefano Colangelo:

Quando ci si sente intrappolati nell’Essere, senza riposo né fuga, vuol dire che si sta vivendo l’avventura di Giona: l’avventura, cioè, della passività, del lasciarsi andare verso il sonno, del cercare l’abisso o il ventre della balena come rifugio inattaccabile, dove di Dio si conservi solo l’assenza. Questa è la sintassi, la postura di Giona – il personaggio tragico, più che il profeta – interpretato da Emmanuel Lévinas in Dall’esistenza all’esistente e nel Tempo e l’altro, nella seconda metà degli anni Quaranta. In sintesi: l’Essere mi invade, mi toglie la nozione di spazio e tempo, mi deruba della mia soggettività, e mi toglie il sonno, il passaggio verso un regno di quiete e di rifugio, sicché non sono più io, non ho più coordinate per muovermi, né per sottrarmi: sono definitivamente in gabbia (Verdone 2024, p. 5).

Se Colangelo individua la gabbia di Verdone nell’aspetto visivo del testo – demandato, in prima battuta, alla sperimentazione con le contraintes della la pagina digitale, ovvero con gli «spazi bianchi, ordinati a blocchi paralleli dalle tabulazioni», ibid. – Andrea De Alberti, nella postfazione al libro di Pacini, rintraccia la gabbia all’interno di una topica pluriforme, ovvero l’insieme di

oggetti che indicano il risultato di processi di disfacimento: un limone spremuto con rabbia, pezzetti di spago, palline, gabbie, siepi basse, banconote false. Una specie di assimilazione involontaria del reale attraverso i tic, che procede in modo del tutto naturale, quasi istintivo. Il tic sembra essere per Bernardo il Big Bang, lo sforzo da cui facciamo derivare le idee, le parole e i pensieri. In un tic assurdo può avvenire il tac: due semplici suoni capaci di generare un’esplosione di senso (Pacini 2024, p. 81).

Sbaglieremmo, forse, nell’approfondire e portare ad esiti univoci ed estremi tale accostamento, rischiando, ad esempio, di finire dalle parti del «furto della soggettività» evocato en passant da Colangelo e diametralmente opposto, almeno in prima battuta, alla dilatazione dell’io (Pacini 2024, p. 80) che, per De Alberti, prelude al disfacimento al centro del testo di Pacini. Saremmo, cioè, per l’ennesima volta – e non per responsabilità dei pre- o postfatori dei due libri, che anzi svolgono funzioni egregie nei rispettivi testi, ma per via di una semplificazione ormai abusata, nel “dibattito poetico” – nei pressi di una discussione sul perimetro dell’io, più o meno “lirico” che sia, e ci attarderemmo quindi su una questione che – per entrambi gli autori, nonché per il panorama poetico in cui si muovono, nella contemporaneità italiana – è già perlopiù risolta de facto.

Meglio, forse, concentrarsi sulle dinamiche tensive – dove già questa definizione, per certi versi eufemistica, rivela un rapporto, assai interessante, di understatement rispetto alla definizione di “forme del conflitto” che anima questa rubrica – presenti in entrambi i titoli e nei testi che compongono i rispettivi libri. Come non pensare, oltre all’ipotesi sul disfacimento di Pacini, alla prima sequenza del suo volume, intitolata “Attrito di A con B”? Il primissimo testo di questa sequenza rende inoltre conto delle varie dimensioni di questo attrito: «[…] La vera ambiguità dell’esperienza di quel gioco / passava dall’inganno delle regole / il trillo riprodotto con il metodo ortodosso // non era che stridore dell’attrito di A con B – / lo svago che cercavo non veniva dall’accordo / di elementi rettamente collegati […]» (Pacini 2024, p. 12). Attrito di A con B, ovvero tra due punti ideali – astratti, quindi, da ogni materialità, in partenza – che diventa invece fracking nel libro di Verdone, il primo che affronteremo nello specifico.

Al di là dell’esergo (Verdone 2024, p. 15), che rinvia il fracking al processo di fratturazione idraulica, finalizzato all’estrazione di petrolio o gas naturale (indicato, peraltro, come possibile concausa di fenomeni sismici, e già di per sé segno di devastazione artificiale degli ecosistemi) troviamo alcune occorrenze di «fracking» nel libro di Verdone che ne chiariscono meglio la portata: se la prima – «ora il vigore di un fuoco malato / si mitiga di un nome che non ha / nome ma è forte / contrastante / è un fracking profondo che ottiene qualcosa / e libera » (p. 18) – sembra collocare un certo portato traumatico al cuore della propria scrittura poetica (facendone, comunque, motivo di “liberazione”: di energie psichiche, o forse di altro ancora), la seconda – «il soggetto ricusa / accessi di paranoia che lo hanno / condotto a ricercare / proprio qui / nella stesura del poemetto / cosiddetto fracking una lettura / mascherata a reazioni oggettive / per disorganizzare narrazioni / di eventi sviluppantisi nell’etere» (p. 28) – ha carattere sia (auto-) psicanalitico che metapoetico.

Qui non si è potuto peraltro riprodurre l’aspetto visivo della «poesia a simmetria bilaterale» di Verdone, così com’è stata argutamente descritta da Antonio Francesco Perozzi in una delle ingiustamente poche recensioni del volume rintracciabili in rete:

A livello grafico, la spazializzazione dei versi sembra infatti regolarsi su una immaginaria linea centrale. Questo imprime al testo un’oscillazione che pare funzionare come emanazione diretta dell’oscillazione concettuale e diegetica: al centro del discorso c’è infatti un’opposizione tra un tu e un io, disposti ognuno «su una linea» e, a seguito di un “clinamen” che riscrive la simmetria, «due sulla linea e due sulla linea».

Sulle citazioni che Perozzi opera dai testi di Verdone (variamente ripetute all’interno del testo, costituendone uno dei mantra) si tornerà a breve, ma conviene insistere ancora su quella «immaginaria linea centrale» che è in realtà uno spazio bianco che divide i versi in emistichi, per la verità mai regolari, e nelle funzioni, di ascendenza lirica, dell’“io” e del “tu” individuate da Perozzi. È qui che il fracking, o l’inabissamento di Giona, si verifica anche a livello visivo: con una scelta visiva forse semplice, ma di certo funzionale alla coesione del testo sul piano ideologico-tematico e su quello formale.

Tornando alle citazioni riproposte anche da Perozzi, una di queste offre una variatio che suona costiana – «e la linea non si abbandona e due / su una linea ma due / sulla linea» (p. 52) – rimandando cioè ai “Due passanti” di Corrado Costa in Pseudobaudelaire (1964). Insieme a un episodio di tutt’altro tipo, e cioè parzialmente montaliano – «e non rimane / che la sillaba nervosa di un verso / la balbuzie ritmata / di un bisbiglio / incompiuto» (p. 18) –, la presenza di Costa appare uno dei tanti esempi del sistema di riferimento poetico e letterario di Verdone, da subito esibito nella pagina di eserghi iniziale – Giuliano Mesa, Amelia Rosselli, Gabriel García Márquez e Andrea Inglese – volendosi e potendosi mostrare come assai solido e radicato nella contemporaneità poetica, pur mancando, forse, di un’esigenza profonda, per ognuno e tutti questi casi, rispetto alla propria opera. Per dirne una, soltanto García Márquez e Andrea Inglese, nei loro lacerti, alludono a quella storia biblica di Giona che è posta al centro, formale e allegorico, del volume e risuonano con quei testi ecfrastici, segnalati in corsivo, che costellano il testo rimandando all’iconografia di Giona nella storia dell’arte mondiale.

Nei testi di Verdone, infine, è frequente lo shift tra il piano più chiaramente autobiografico e quello storico, includendo talora riferimenti più o meno chiari alla dimensione retinica dello sguardo – si veda a titolo d’esempio l’incipit: «Completamente farsi occhio completamente / farsi sguardo in questa distanza / immersi» (p. 27) – talora all’informatizzazione e digitalizzazione delle nostre esistenze on-life – come nella chiusa: «e quindi rinunciare / non tessere le tele / rifuggire afflizioni / immotivatamente / ma allora diffidare / e allora / dare link» (p. 33). Tale shift indica già di per sé la sussistenza della questione del “noi” come possibile terzo punto di una triangolazione che include “io” e “tu”, ma fuoriesce dagli steccati deittici più tradizionali della lirica, senza potersi fare descrizione, o narrazione, univoca né lineare: «questo è il regesto / di un romanzo / che non si può scrivere / in questo adesso / è un dialogo tra tutti / questi / io e tu / che non siete voi / ma siamo noi» (p. 39). Un’aporia, quest’ultima, che incrina ma non mette in crisi l’orizzonte tutto sommato confortante del fracking di Verdone, allontanando, in ultima istanza, la possibilità del conflitto; nelle parole ancora una volta di Perozzi, che sentiamo di poter condividere: «La poesia di Verdone è dunque una poesia in certo senso armonizzante: la divisione dei singoli si risolve in un’unione pacifica. Un’unione che, però, proprio per l’oscillazione del testo e lo straniamento delle formule ripetute, risulta felicemente surreale, sospesa in questo gioco in cui geometria e relazioni umane si confondono».

Rispetto a questo tono surreale di fondo, l’Ipotesi sul mio disfacimento di Bernardo Pacini evidenzia un posizionamento sicuramente diverso, sostenuto da soluzioni formali proprie e specifiche. Si veda subito, ad esempio, la battuta pseudo-umoristica – e comunque strozzata in gola – con cui si apre il testo in cui compare il sintagma che conferisce il titolo all’intero volume:

«Ho un quaderno su cui scrivo se mi accade di squamarmi. / Si può dire che è un quaderno in vera pelle» (Pacini 2024, p. 21).

Se già dalle pagini iniziali del libro «vediamo svanire la nostra ironia / nel fumo denso della fog machine» (p. 9), accedendo dunque a una qualità a tratti post-ironica, ma non per questo meno tragicomica, del discorso, la metafora del libro di poesia come «quaderno di vera pelle», ottenuto tramite personale desquamazione, è anche una delle tante occorrenze in cui, nel testo, si manifestano il disfacimento, o la decomposizione, o la disgregazione delle identità – su tutte, forse, quella di genere, con un testo, ad esempio, che ricorda da vicino la poesia di Simone Cattaneo e più recentemente quella di Riccardo Innocenti, già affrontata in questa rubrica: «Il goal / da centrocampo con la maglia di Samaras, totalmente casuale. / Ed ecco l’anteprima di una gif: Armando che si muove dentro / Pimpa» (p. 66).

In ogni caso, già l’esergo iniziale – dovuto a Zachary Schomburg: «We are all unwilling to consider our own inevitable decompositions» (“noi tutti siamo ritrosi quando si tratta di considerare le nostre inevitabili decomposizioni”), in linea con l’interesse di Pacini per la poesia statunitense contemporanea, della quale è già stato traduttore, nei casi di Bill Knott e di Russell Edson  – dava il tono generale di questa ricerca, poi variamente rifratta nelle varie sezioni del libro, o anche nei singoli testi, come nel caso della paradigmatica sequenza “(insistere a inesistere)”: «[…] Per quanto io mi sforzi di negarlo / sparisce chi decide di sparire: insistere a inesistere è un mestiere / forse un’arte» (p. 48).

Il fulcro di quest’ultima citazione non sembra essere l’intenzionalità del gesto della sparizione – intenzionalità correlata, più che altro, al fenomeno del ghosting, che è anche il titolo della sezione in cui si trova il testo in questione – se si considera che un testo precedente, nella sezione “Phishing”, rimandava, al contrario, all’aleatorietà dell’I Ching (p. 25); al cuore della questione sembra piuttosto esserci quel dolore che si fa “mestiere” o “arte”, analogamente alla metafora gibraniana della lirica come perla dell’ostrica, e cioè del linguaggio come concrezione nei pressi delle ferite della psiche. E se questo riferimento potrebbe sembrare totalmente estraneo alla lettura del libro di Pacini, conviene ricordare come l’aggiornamento linguistico e tematico del libro – come nel caso dei fenomeni di phishing o, per altri versi, di ghosting – comprende sempre il mantenimento di appigli a topiche più tradizionali, come quella «nebbia», che torna per ben cinque volte nei testi di “Ghosting”. Non si tratta, con questo, di un ritorno al poetese (occasionalmente, Pacini indugia anche nel preziosismo aulicizzante, come nel caso del «fulgore albugineo delle luci», p. 13, ma gli effetti testuali sono, ovviamente, assai diversi) né di una ripresa del tipico pot pourri storico, culturale e linguistico della scrittura poetica postmoderna; l’intento, al contrario, sembra essere serissimo e duplice: la lettura del presente con gli occhiali della storia culturale e letteraria e, al tempo stesso, il percorso di lettura inverso (consapevole, quindi, di quanto sia ineludibile la mutazione tecno-antropologica degli ultimi anni anche nell’approccio al fatto poetico): in fondo, «Che vuoi, la coscienza ha le sue metriche / persino nelle faccende domestiche» (p. 61).

È in tal senso che va letto il sistema letterario di riferimento squadernato negli eserghi, nelle citazioni e nei riferimenti intertestuali; per limitarsi ai primi, le citazioni procedono dalla poesia contemporanea italiana (Giovanni Giudici, Elio Pagliarani, Alessandro Ceni, Stefano Dal Bianco) e statunitense (Zachary Schomburg, appunto, e poi Gregory Orr e Russell Edson), con occasionali sortite classiciste (Callimaco) o nella prosa da premio Nobel (Annie Ernaux). È un paesaggio più variegato, forse, di quello di Verdone, e più teso verso la condivisione della propria biblioteca personale che non all’autolegittimazione letteraria; spicca, in ogni caso, la presenza di Giudici, con ben tre epigrafi: della poesia giudiciana non sembra interessare tanto la “lirica morale”, né forme e stilemi (che sembrano dedotti, più che altro, dalla frequentazione della poesia statunitense contemporanea, se occorre ricercare un riferimento forte), quanto un posizionamento intellettuale che si può forse far risalire a una prosa di Giudici sempre del 1964, ovvero La gestione ironica. In quel testo, secondo Giudici, fare poetico e fare politico (quest’ultimo, in realtà, piuttosto lontano dalla poesia di Pacini) devono convergere nella stessa direzione, ovvero in senso contrario all’entropia:

«dove questa è tendenza all’indifferenziato, quelli tendono a organizzare e distinguere. E altrettanto si dica in rapporto all’alienazione, concetto che, mutuato dall’economia come l’altro dalla termodinamica, esprime una tendenza per molti aspetti similare: una tendenza contraria all’intenzione, al progetto».

E dunque, se il fracking di Verdone non esclude la riconciliazione del vuoto al suo centro, il disfacimento di Pacini è cosa diversa dall’entropia: che sia più o meno allegorico, il progetto di entrambi i poeti sembra ancorato a strategie di formalizzazione deputate a risolvere se non il conflitto, le dinamiche tensive che ne residuano, in una sorta di (assai provvisorio) equilibrio e in attesa di una smentita che è sempre prossima a raggiungerci.

 

 

(da Fracking)

 

Dalì

Missione                                                numero
.                                           ottomila
il nauta riporta                 in verbali
arcani                                di avere condotto
un’immersione in oceani
.                                                   densi
.                                                   di affanno
rovente                                     di sangue
coagulo
.          vischioso                       in amnios
e allega               foto-radiografica
.                                                                evidentia.

 

 

XII.

Ci sono tanti modi                                   per finire
una frase           una fase                        tanti modi
per fermare una voce                             rallentare
una pace           una linea                       con quei
.                            due sulla linea
.                                                                     ché non c’è
fine ma solo addizione                   lì       sulla
linea                           e in questo              che da due inverni
chiamiamo l’inizio                                     c’era una fine
un destino                                                   a doppio fondo
.                                                                      traslucido
se serri i tuoi occhi                     o li apri             mentre
nell’universale giudizio                                       (l’altro)
non vogliamo guardarci intorno                          lì
nella bolla crepata                                  io magro e spento
tu brillante e rossastra –                                     ed è vero
era già così dal principio                       dici
è vero               ti rispondo                       e poi convengo
che                   tutto questo tempo è irredimibile
che le cavallette                                     sparse dal fumo
le regioni della speranza                                     sfregiano
che in successione                                 sorgi e tramonti
che le ore si allungano                          in primavera
.                                           e autunno
.                                           e la distanza è già abbastanza
e la stella si fa ormai più pressante
e il ganglio del terrore                            mi si attacca
.                                           alla capitis galea
.                                           al massetere
e mi blocca –            ma lo sappiamo entrambi
e la linea non si abbandona                                e due
su una linea                      ma due
sulla linea
sempre la stessa                                     ché per fare un inizio
.                                                                                      ci vuole una fine.

 

 

(da Ipotesi sul mio disfacimento)

 

I casi sono tanti. Può succedere
che un giorno, nel momento esatto in cui
riconosci il retrogusto dell’acciuga
nella salsa verde che ti sei preparato,
tu ti scopra all’improvviso felice.

La coincidenza ti spinga a credere
che, come del bene, anche del male
esiste un habitat marino, due oceani
dei quali solo tu sei tributario.

Segui la corrente, troverai
lo specchio dove stagni in miserere
preleva una decina di bottiglie
di quel liquame salmastro.

Usale come zavorra per il telo
della vasca olimpionica di salsa verde
che vorrai costruire sul terrazzo
quella che da allora chiamerai
il tuo personalissimo Cantabrico.

 

 

Arriverai domani se oggi non sei arrivato.
G. Giudici

E Dio li benedica quei momenti in cui il congegno
ci spalanca all’ascensore. Alto sui soffitti della Nasa,
che usi un’altra volta il suo rampino per convocarci a sé

come il rover che ha ammartato tra gli applausi della terra.
(Che siamo come Dio lo sapevamo, ora vediamo
se è vero anche il contrario). Lo specchio impiccato

alla parete del vano ascensore si prende tutta
l’ombra per formarci. Ci guarda anche stamani,
lo sguardo concentrato ed un sorriso che rallenta la discesa

paresi involontaria con le mani fitte in tasca, tra le chiavi.
Dentro al foro verticale, che scendiamo o che saliamo
si sprofonda come etruschi nelle tombe ad ipogeo.

Quando usciamo siamo in fondo a quel sorriso, il manto
del pianeta che ci ingoia. C’è l’esterno e l’ascensore.
E poi ci siamo noi, che esploriamo la laringe rosso marte

dell’esistere con dolo. Ventitré le fotocamere ci guardano
negli occhi. Dio che chiudi e rispalanchi gli ascensori, il pulsante
è danneggiato, sei presente e sei occupato al tempo stesso.

Da mesi naufraghiamo nel profondo, confidenti nel plutonio
decaduto: se ci chiedi un sacrificio sii preciso, dicci il piano
per salire dritti al monte, non sorridere olocaustico.

L’ascensore benedica quel momento in cui Dio ci
spalanca al suo congegno. Nei frantumi dello specchio, nelle carie
di una bocca sorridente che ci mostra sul pianeta inesplorato della gioia.

 

 


Forme del conflitto sono già state rintracciate in:

Noi di Alessandro Broggi

Sogni e risvegli di Fabrizio Bajec

Il divieto di accorgersi di Elisa Donzelli (documento apparso su Le Parole e Le Cose)

Movimento e stasi di Massimo Palma

Anatema di Rosaria Lo Russo

Il mare a Pietralata di Claudio Orlandi

Nella spirale (Stagioni di una catastrofe) di Gianluca D’Andrea

Pietra da taglio di Anna Franceschini e Lacrime di Babirussa di Riccardo Innocenti

Waves di Vincenzo Bagnoli e Eleanor di Alessandra Cava

Per far vivere altro cadiamo di Marco Carretta (scritto di Matteo Cristiano)

Lottare per le idee di Giuseppe Muraca

Togliattə di Mariano Correnti e Liricologismo di Marzia D’Amico

Non sappiamo come continuare di Demetrio Marra

di Alessandro Broggi