Forme del conflitto ⥀ “Lottare per le idee” di Giuseppe Muraca
Per la rubrica Forme del conflitto, Lorenzo Mari scrive oggi del volume Lottare per le idee. Roberto Roversi, poeta e protagonista della cultura italiana contemporanea (Pendragon, 2023) di Giuseppe Muraca
Nel contributo dedicato in precedenza a Waves di Vincenzo Bagnoli e a Eleanor di Alessandra Cava, si è accennato alla figura di Roberto Roversi, cogliendo l’occasione della sua evocazione da parte di Marco Berisso nella prefazione di Waves, e si è alluso alla possibile esistenza di un’eredità roversiana piuttosto paradossale, molteplice e al tempo stesso non pienamente stimata come tale – nonostante la sbornia memorialistica di questi anni (che restano, di fatto, un po’ paludati) – a cent’anni dalla nascita del poeta bolognese. Una lacuna cittadina – fatta eccezione per alcuni operatori culturali locali, in primis, ma non soltanto, la casa editrice Pendragon – e nazionale – rispetto alla quale, oltre alla presenza di un sito-archivio piuttosto ricco, si levano di tanto in tanto voci singole – come ad esempio quelle di Fabio Moliterni, Matteo Marchesini e Marco Giovenale, assai differenti tra loro, ma di fatto convergenti, almeno, in questo volume. È una situazione che sembra preludere a un facile oblio o anche a un’operazione di recupero esclusivamente limitata agli scaffali accademici o poetici e, più in generale, a una fruizione tutto sommato limitata (come controcanto, e sempre più frequente, di determinate forme di oblio culturale e, in questo caso più che mai, politico). Dal lavoro critico di Giuseppe Muraca, Lottare per le idee. Roberto Roversi, poeta e protagonista della cultura italiana contemporanea, non a caso edito sempre da Pendragon all’inizio di quest’anno, emerge invece qualche spunto, e anche “appiglio pratico” in più, rispetto alla semplice necessità di un’operazione memorialistica, per quanto criticamente strutturata.
Come altri profili critici firmati da Muraca (che negli ultimi anni si è occupato di Aldo Palazzeschi, Franco Fortini, Luciano Bianciardi e molti altri), la traccia attorno alla quale si sviluppa la sua scrittura saggistica è apparentemente biografica, ma ciò serve soltanto a una migliore storicizzazione dei nuclei fondanti dell’opera dell’autore. Operazione quanto mai necessaria, nel caso di Roversi, per evitare di identificarlo troppo rigidamente ora come l’«animatore di Officina», ora con «il poeta del ciclostile», ora con il «poeta civile» (tra l’altro, in questo caso, misconoscendo proprio l’approccio politico di Roversi in favore di un’etichetta usata e probabilmente abusata negli ultimi decenni… poco o nulla roversiani).
Le quattro sezioni del libro esplorano dunque la traiettoria biografica e insieme culturale e politica di Roversi, passando dagli esordi degli anni Quaranta e Cinquanta – con la fondamentale mediazione di Alberto Meluschi e Renata Viganò per l’uscita di Roversi da un apprendistato segnato dalla cultura fascista (elemento non tacitato ma, giustamente, nemmeno enfatizzato da Muraca) – al dibattito degli anni Sessanta – nel quale Roversi si iscrive nell’alveo della “nuova sinistra” grazie soprattutto alla fondazione e direzione della rivista Rendiconti, nel 1961.
In merito a quest’ultimo punti, Muraca, già autore di un saggio sugli intellettuali e le riviste della sinistra eterodossa, si appoggia alle posizioni di Franco Fortini che, in un articolo per aut aut del 1974, proponeva una tesi ancora oggi convincente e che conviene riportare con la stessa estensione della citazione operata da Muraca:
gli animatori di quelle riviste ebbero coscienza, anche se non chiarissima, che un certo tipo di comunicazione non può e non deve necessariamente passare attraverso la convenzione culturale tradizionale e che, per esempio, la riflessione politica e l’analisi sociologica possono assumere, a seconda delle circostanze, l’aspetto della rivista e dei suoi saggi, ma anche della “lettera”-pamphlet, del giornaletto, del poligrafato, del volantino, della comunicazione orale. E questo, proprio per motivata sfiducia nelle forme gerarchiche della comunicazione, persuasi che, per esempio, certe parole, certi modi di un discorso etico o poetico o politico non guadagnano affatto, nel mondo moderno, dalla loro diffusione numericamente crescente ma anzi da una loro relativa clandestinità.
“Clandestinità”, in effetti, sembra la parola chiave per identificare la successiva produzione di Roversi, proprio nel momento in cui scrive le opere comunemente ritenute più importanti. “Clandestinità”, o meglio ancora, “marginalità”: una posizione certamente favorita, e in modo paradossale, dalla centralità (simbolica, se non anche, parzialmente, storica) di Bologna nei decenni successivi, come osservatorio, ad esempio, sul rapporto tra PCI, sinistra extraparlamentare e movimenti. Non è un caso, dunque, che Muraca dedichi due importanti capitoli del suo libro a “Roversi e il Sessantotto” e a “Roversi dal movimento del Settantasette alla strage di Bologna”, prima di passare all’ultima fase della vita e della produzione dell’autore. Sono snodi culturali e politici fondamentali, talvolta relegati in secondo piano dall’approccio poetico, delle varie “bolle” poetiche. Un’appendice preziosa al libro di Muraca è infine costituita dalle «amicizie fantastiche» di Roversi con Pasolini, Fortini, Sciascia e Sereni, a testimoniare di una “marginalità” comunque in comunicazione con il “centro”, secondo la già citata profezia di Fortini, che resterà ancora valida per qualche decennio.
Se il profilo appena delineato coincide spesso con l’immagine già ricordata, e forse stereotipica, di Roversi, Muraca aggiunge almeno tre aspetti meno noti, ma egualmente importanti nella considerazione dell’opera dell’autore bolognese. Una è sicuramente la partecipazione al dibattito della nuova sinistra, poi confluito nella “sinistra eterodossa” degli anni Settanta e primi anni Ottanta; vi si aggiunge poi l’analisi della scrittura in prosa e per il teatro di Roversi (parzialmente già oggetto di ricerche ma forse non ancora del tutto attestata) e, infine, un dato che è biograficamente vicino a quello di Muraca, ma che fornisce anche qualche spunto critico in più ai suoi lettori. Si tratta della fascinazione e l’interesse di Roversi per la storia culturale e politica della Calabria – a partire dalle novelle dei primi anni Cinquanta intitolate Ai tempi di re Gioacchino, per arrivare fino alla presenza nel poema più tardo L’Italia sepolta sotto la neve – per la quale, pur resistendo l’idea anche un po’ esotica di «luogo dell’anima», e oltre al riferimento culturale e letterario all’opera di Tommaso Campanella, si può certamente affermare che «dietro l’elaborazione letteraria c’è un forte bisogno di conoscenza di una realtà rimasta ai margini della storia e del tutto dimenticata (che Roversi ha inteso sottrarre all’oblio) e che nell’immediato dopoguerra era saltata all’attenzione nazionale con le lotte dei contadini contro il latifondismo».
E altri ancora, come si diceva, possono essere gli interrogativi che emergono dalla rilettura, nel 2023, del profilo critico di Roberto Roversi. Innanzitutto, il “poeta del ciclostile” abbandonò, o forse perse costanza, nell’uso di questa strategia di comunicazione “clandestina” o “marginale” a partire dagli anni Ottanta, dichiarandolo anche nel verso di una sua poesia: «L’età del ciclostile è finita». Muraca fa coincidere questa scelta con l’avvento del riflusso e del craxismo, secondo una lettura contestuale che non manca di ragioni; eppure, a quarant’anni di distanza, in un momento in cui i problemi della comunicazione letteraria sono aumentati a dismisura, proprio l’immaginario, più che la tecnica in sé e per sé, del “ciclostile” non cessa di proporsi come valida alternativa a ciò che si va costruendo (o distruggendo) tanto online quanto offline, ossia sull’apparentemente immarcescibile “cartaceo”.
Quanto a Roversi, il ciclostile è anche funzionale alla costruzione dell’immagine dell’intellettuale impegnato, oltre gli stereotipi più “engagé”, come sabotatore che mira ai gangli dell’industria culturale più che come critico dell’ideologia (operante, magari, da una condizione di privilegio). Il sabotaggio, dunque, sembra andare oltre la critica francofortese dell’industria culturale, cui tutto sommato anche noi restiamo ancorati: se il sabotaggio roversiano è una tecnica che si spiega bene e probabilmente si esaurisce nel suo contesto storico, nasce però da una spinta ancora forte verso la costruzione di posizioni alternative all’ordine vigente.
Ciò può essere anche praticato da una posizione di solitudine – parola cara a Roversi, e spesso ricorrente – che non è, però, ascesi. È una solitudine, infatti, che ha una valenza politica che travalica quella meramente letteraria. Lo si può capire guardando all’eredità poetica in senso stretto di Roversi, raccolta da una discendenza che rimane piuttosto folta, anche quando la si compara ad altri esempi – nell’impossibilità, per dirne qualcuna, di dirsi pasoliniani o sanguinetiani, nella relativa facilità di dirsi balestriniani, o rosselliane, via via fino all’infido territorio ultracontemporaneo dell’epigonismo non dichiarato ma funzionale ai molteplici meccanismi della promozione e autopromozione letteraria. Tuttavia, e per tornare a una definizione stereotipica, circolante soprattutto tra chi è stato alla sua bottega, Roversi era anche il «poeta con il lapis» – non tanto verso di sé, se si guarda alla sua comunque assai prolifica produzione, ma certamente incline a rivedere, correggere e probabilmente uniformare alla propria dizione tutti i giovani poeti (più che poete) che si presentassero al suo cospetto. Un modo di “tenere a bottega le giovani generazioni” che oggi può essere variamente replicato, ma non manca di rivelare i propri limiti, specie se adeguatamente storicizzati.
Per tutti questi motivi, e per molti altri che sfuggono ai limiti di questa breve nota di lettura, il libro di Muraca si presta come un’agevole porta per un primo accesso alla lettura di Roversi, ma anche uno strumento dei più accorti per tornare con convinzione a Roversi, oltre ogni ansia memorialistica.
Forme del conflitto sono già state rintracciate in:
Sogni e risvegli di Fabrizio Bajec
Il divieto di accorgersi di Elisa Donzelli (documento apparso su Le Parole e Le Cose)
Movimento e stasi di Massimo Palma
Il mare a Pietralata di Claudio Orlandi
Nella spirale (Stagioni di una catastrofe) di Gianluca D’Andrea
Pietra da taglio di Anna Franceschini e Lacrime di Babirussa di Riccardo Innocenti
Waves di Vincenzo Bagnoli e Eleanor di Alessandra Cava
Per far vivere altro cadiamo di Marco Carretta (scritto di Matteo Cristiano)
Lorenzo Mari
Lorenzo Mari vive e lavora a Bologna. Ha pubblicato alcuni libri di poesia, tra i quali gli ultimi sono Querencia (Oèdipus, 2019) e la plaquette Tarsia/Coro (Zacinto, 2021). In prosa, ha pubblicato il racconto Via Mascarella alta e bassa (autoproduzioni Modo Infoshop, 2019) e ha ottenuto il XXXV Premio Teramo Giovani - Giacomo Debenedetti per il racconto Un percorso sicuro.
Traduce dallo spagnolo (Agustín García Calvo, Sonetti teologici, L'Arcolaio, 2019; César Vallejo, Trilce, Argolibri 2021) e dall'inglese (David Keenan, Memorial Device, Double Nickels, 2020, insieme a Matteo Camporesi).
Ha curato l'edizione italiana di ZURITA. Quattro poemi del poeta cileno Raúl Zurita (Valigie Rosse, 2020), nella traduzione di Alberto Masala.
Collabora con varie riviste online (Pulp Libri, Fata Morgana Web e Jacobin Italia).