“Movimento e stasi” di Massimo Palma ⥀ Forme del conflitto

La rubrica Forme del conflitto, a cura di Lorenzo Mari, prende oggi in esame la raccolta poetica Movimento e stasi di Massimo Palma, che pone in una nuova luce gli eventi che hanno attraversato Genova durante il G8 del 2001

 

A conti fatti – o meglio, nel continuo tentativo di fare i conti con quello che si legge – ci si trova, ogni tanto, a invertire la rotta. Così, quella che segue non è una vera e propria recensione, ma nasce come un movimento critico e solidale, avanti e indietro rispetto a una posizione che si sente – idealmente, e al tempo stesso nella forma (dunque, anche materialmente) – simile e vicina. A volte, insomma, quando ci si riconosce prossimi nella lettura, conta più questa piattaforma, che è sempre di partenza, del meccanismo-principe – sempre pericolosamente vicino al do ut des, intimamente livellatore e conservatore – della produzione per i lit-blog e le riviste (o per i reading, i festival, i premi, etc.). E questo è quanto mi succede con Movimento e stasi (Industria & Letteratura, 2021) di Massimo Palma.

Come l’autore – che ne ha scritto, ad esempio, qui, per Antinomie – anch’io posso dire che non ero a Genova, nel luglio del 2001, e che tuttavia, a poco più di vent’anni di distanza, è in quel “contesto” – o meglio, in quella costellazione, per usare un termine che immagino caro a entrambi – che nascono determinate forme. Le abbiamo accudite per molto tempo – Massimo Palma, in realtà, aveva già pubblicato in passato Happy Diaz. La formazione musicale di una generazione che è stata ammazzata di botte (Arcana, 2017), con tredici ritratti disegnati da Tuono Pettinato – in un modo che sta a metà strada, forse, tra l’accudimento di una figlia e di una serpe in seno (…o di un Paesaggio con serpente, come si dirà).

E quelle forme hanno “accudito” noi, inseguendoci e ossessionandoci, come quella coppia minima Raum/Traum – oltre a essere filosofo, e dunque inevitabilmente a contatto con la lingua tedesca, Palma ha recentemente tradotto Georg Heym – che chiude la prosa intitolata, appunto, “Traum”: «Un ministro italiano che sapeva il tedesco prendeva nota su piccoli biglietti ripiegati. Scriveva spazio Raum – sogno Traum» (p. 27). E l’elisione finale della a di “trauma” si rivela determinante, ça va sans dire.

 

«cinquanta giorni dopo i fatti di Genova
i fatti restarono nella testa delle persone
per diventare fotografie»

 

Sans dire… Mentre di Genova 2001 si è detto, alternativamente, troppo e troppo poco, come sottolinea lo stesso Palma: «Tutti continuarono a muoversi per giorni e per tutta l’estate. Alle sagre e nei treni regionali si discuteva ancora e si litigava – ci si spartiva il campo come si fosse ancora in quelle strade come se poi tutti ci si fosse stati davvero» (“camminavano in fila”, p. 19). In queste righe, si intravede il rischio ecolalico corso da “chi a Genova c’era”, ma soprattutto da “chi a Genova non c’era”, secondo un grande topos delle riflessioni politiche e intellettuali che hanno seguito quei giorni di luglio 2001. Un guazzabuglio di voci, non c’è che dire, rispetto al quale l’esito può certamente essere la resa a una condizione generalizzata di illeggibilità e inappartenenza: «come se il mondo esterno scorresse su una tavola tridimensionale», ha scritto Guido Mazzoni (in “Genova”, La pura superficie, Donzelli, 2017). Restando forse più radicato in quella particolare storia di movimento e stasi – e dunque anche, per inevitabile riferimento, in quella del “movimento dei movimenti” che a Genova si riversò nelle strade – Palma propone una soluzione piuttosto diversa.

Non si tratta soltanto della persistenza di un determinato posizionamento politico, così come si ritrova nei vari giudizi storico-politici che punteggiano, assertivamente, il libro: come il problema di “chi a Genova non c’era”, viene posta, successivamente, anche la questione di come l’11 settembre 2001 avesse completamente cambiato, nel giro di poco, le carte in tavola («il movimento dei movimenti entrò nel moto spontaneo pacifista e non ci fu più violenza alcuna solo paura della violenza e da allora dopo le manifestazioni si lodavano quei prefetti che non cercavano lo scontro li si pensava sindaci delle città», “cinquanta giorni”, p. 33). Al di là di un ragionamento su quegli eventi (o anche “non-eventi”, a seconda della valutazione filosofica e politica) che, dal mio punto di vista, non riassorbirono del tutto la traiettoria del “movimento dei movimenti” nel giro di due mesi, Palma propone, in primo luogo, di partire da una posizione epistemologica più ampia. “Ma sarà poi possibile?”, è legittimo chiedersi, da un punto di vista squisitamente politico – Palma sembra rispondere affermativamente e, per essere più precisi, con un libro dove fa spesso capolino il lavoro, nella dimensione alienata della “fatica” (parola spesso ricorrente, in Movimento e stasi). In altre parole, la sua risposta è innanzitutto racchiusa nello sguardo di quel camallo di Genova che osserva la manifestazione da una posizione terza, particolarmente utile nel tentativo di definire la scena con un piglio demistificante rispetto al semplice binarismo, spesso ideologico, insurrezione/repressione («Li vide il camallo. Al sole fece la salita di corsa e scese di nuovo al sole con metà degli zaini i sacchi a pelo metà e metà e arrivò tutto sudato. Si buttò in acqua. Perché a Genova al porto si fa così diceva – tra noi quando serve ci si organizza si dà una mano», “la spiaggia”, p. 51).

A partire da questo opportuno ricorso alla critica dell’ideologia, si apre uno squarcio su una dialettica storica più generale, rispecchiata (pur se con un importante inversione prospettica tra tesi e antitesi) dalle tre sezioni del libro: stillmovementstasis. Si tratta, per certi versi, di una dialettica tipicamente hegeliana (dato confortato, pur nella sua paradossalità teorica, dal fatto che Palma, nella sua carriera accademica, sia uno studioso attento dell’opera di Kojève), nella quale la sintesi è una Aufhebung che porta con sé traccia dei momenti precedenti. La stasis è, infatti, una stasi «che in greco denota sia il negativo del movimento, sia la sedizione, la scissione violenta in seno al corpo politico (c’è chi la traduce con ‘rivoluzione’)» (pp. 8-9), come puntualmente scrive Gennaro Carillo, nella prefazione al libro. Tradurre stasis con rivoluzione è, tuttavia, un’operazione chiaramente velleitaria, cui la scrittura di Palma è restia a prestarsi, preferendo scorgere una possibile sintesi (gradualista?) in una serie di passaggi, dei quali l’“esercizio uno”, verso la fine della terza sezione e del libro, costituisce una prima piattaforma: «Ora l’esercizio è stare nel ricordo fermi» (p. 73).

Ed è certamente un momento diverso dalla stasi della prima sezione, still, dove il riferimento è inevitabilmente anche fotografico, come si legge in modo esplicito nel testo intitolato, appunto, “stills”: «cinquanta giorni dopo i fatti di Genova / i fatti restarono nella testa delle persone / per diventare fotografie» (p. 20). Non si tratta, ancora una volta, di una resa al rumore bianco visuale e, in generale, mediatico attorno a Genova 2001, anche se l’incipit del testo successivo parrebbe andare in questa direzione: «non c’è chiarezza nelle immagini» (“divisione”, p. 21). Come chiarisce la seconda e conclusiva strofa di “stills”, le fotografie «[e]rano ritratti delle ferite erano precisi / e non uscivano dalle teste / finché i giudici non fissavano le udienze» (p. 20): conservano, dunque, un rapporto con la giustizia, con la testimonianza, e anche con quello che eccede il livello strettamente giuridico di quest’ultima, nella sua continua manipolazione da parte di altri poteri. Sono, inoltre, fotografie che impietriscono lo sguardo di chi le osserva, nel tragitto del trauma oculare che va da Medusa fino a Paul Celan, come si legge nelle pagine iniziali di un saggio di Palma che risulta indispensabile per poter percorrere anche Movimento e stasi, ossia I tuoi occhi come pietre. Trauma e memoria in W. G. Sebald, Paul Celan e Charlotte Salomon (Castelvecchi, 2020): «Dein Aug, so blind wie der stein» (“Il tuo occhio, come pietra cieco”), da Blume (Sprachgitter, da 1959) è di certo una pietra tombale sulla «retorica della testimonianza a tutti costi» (Palma 2020, p. 12) ma non è l’esito finale, né per Celan né per Palma, sia come critico che come poeta; Palma, anzi, cerca di «insistere» sulla contraddizione della Grata di parole nella quale si inserisce il testo di Celan, e di «allargarla» (Palma 2020, p. 14), fino a che «l’opera “metaforica” dell’artista che riscrive il trauma come catena semiotica e associazione di contiguità “oscene” tra campi semantici irrelati (occhi e pietre) appare come decifrazione di tracce scandalose che affollano la memoria» (p. 17).

 

«da allora dopo le manifestazioni
si lodavano quei prefetti che non cercavano lo scontro
li si pensava sindaci delle città»

 

Seguendo queste tracce – variamente dislocate nel libro, così com’è slogata la sintassi della scrittura poetica, secondo un portato di certo Novecento letterario che Genova 2001 né il 9/11 non portarono, in alcun modo, a finire, sul piano storico – vi è forse ancora la possibilità di Uscire mossi (così si intitola il già citato articolo di Palma per Antinomie) dalle fotografie, o ancora, come si legge in Movimento e stasi, di «uscire vigili / dal ricordo» (mezzi per un fine, p. 25). Vi è un’oltranza, in questo, che rischia di apparire del tutto intellettualizzata – come effetto ultimo, probabilmente, della diatriba su “chi a Genova c’era/non c’era” – ma che invita, al di là dell’etica, e più propriamente nel campo della politica, non tanto alla vigilanza, quanto alla veglia.

È un’accensione pratica che, per quanto mi riguarda, e nell’ottica del movimento critico e solidale cui accennavo in apertura, significa guardare all’oltranza senza rassegnarsi a passare incessantemente «quinci di là», o a ritrovarsi rinchiusi nella «zona rossa» come accadeva nel mio Querencia (la cui esplorazione topologica si ritrova infine indirizzata ad assolutizzare ora il movimento, ora la stasi). C’è un’oltranza presso la quale vegliare, senza porsi al di là, o al di sopra, del corso della storia.

Di più, Palma pone a esergo dell’intero libro un passaggio della prosa L’ordine e il disordine di Franco Fortini, ultimo testo di Questo muro (1973) e primo di Paesaggio con serpente (1984), da me posto in esergo a un’altra silloge, Ornitorinco in cinque passi: «La ragione dell’ordine, la dimostrazione del disordine, e tu règgile. L’uno che in sé si separa e contraddice, e tu fissalo; finché non sia più uno. E poi torni a esserlo, e ti porti via». Di questo passaggio, Pietro Cardelli ha scritto un’accurata analisi, all’interno di un saggio pubblicato in un primo tempo sulla rivista Annali di studi umanistici (VI, 2018) e ora disponibile su Formavera, con il titolo «[…] Fermatevi» – L’imperativo nella poesia di Franco Fortini, che conviene riportare per intero:

Qui il testo mette in scena, come i due precedenti, un vero e proprio percorso dialettico: tesi, antitesi e sintesi. Eppure va oltre, perché il coinvolgimento della seconda persona singolare avviene solo nella conclusione. Compito dell’io sarà quello di tenere assieme ordine e disordine, tesi e antitesi, sapendole reggere entrambe, avendo la forza di fissarle, accettando la contraddizione delle cose e muovendo oltre, verso l’Aufhebung, la sintesi. L’accostamento di un testo in prosa, discorsivo-elencativo, fondato sulle figure di ripetizione e di parallelismo, con un finale basato sugli imperativi determina uno scatto, anche formale, che pare replicare il movimento hegeliano della sintesi intesa come superamento. Lə lettorə rimane spiazzatə e si sente coltə nel profondo. In quel cammino appena descritto rivede il proprio percorso esistenziale, in quel “tu” tre volte nominato vede se stessə. Di nuovo, il poeta mette sulla pagina un itinerario di apprendimento nel quale chi legge si rispecchia. È la vicinanza fra autore e lettorə a determinare una comprensione possibile e, di conseguenza, un insegnamento.

Tralasciando la dimensione dell’insegnamento, più chiaramente propria del gesto poetico e intellettuale fortiniano, sono parole che riverberano straordinariamente anche nella mia lettura di Movimento e stasi di Massimo Palma, insieme al «fermatevi» di Composita solvantur utilizzato da Cardelli come titolo per la ripubblicazione del suo saggio su Formavera. È un riverbero che dice: “Fermiamoci”, non tanto nella stasi o nel movimento, quanto nella stasis “e vegliamo”. Da qui in poi.

 

 

qualcosa deve rompersi

sale sale ancora mentre il braccio rompe il vetro.
È difficile contenere l’urlo
solo i tedeschi lo fanno.
Scontornano i selciati. È un lavoro piccolo preciso.

Come fai a dare la merce alle fiamme chiedi.
Ma quanto è bello il fuoco lo sapete anche voi eppure illustrate
la pura violenza con didascalie e singhiozzi
rotti perché abbiamo sprecato il valore del lavoro
a Tebe sotto le mura perché
abbiamo girato il capo senza vedere
chi faticava.

Prima delle cariche
vi stavamo mostrando la fatica andare in fumo.

 

 

trasmissione

senz’aria non fermarsi al naufragio
agli spettatori che siamo ridire
la parte che era
il movimento in tre stasi la resa.
All’inizio del racconto
le voci non si sentono
si sente l’apnea di chi
nuota tra immagini e ferite
nell’acqua che devasta.

La chiave è stata muoversi in quell’acqua
tra i rifiuti essere complice di lui proprio alla fine
cercare e chiedere le foto
avvicinare ogni scatto a occhi aperti
trovarla distinguere la faccia
nutrire ancora il corpo com’è apparso
sapere com’era quando ha preso
posizione.

 


 

Forme del conflitto sono già state rintracciate in:

Noi di Alessandro Broggi

Sogni e risvegli di Fabrizio Bajec

Il divieto di accorgersi di Elisa Donzelli (documento apparso su Le Parole e Le Cose)