Forme del conflitto ⥀ “Noi” di Alessandro Broggi
Prosegue la rubrica dedicata alle Forme del conflitto nella poesia italiana contemporanea, a cura di Lorenzo Mari, con un’analisi di Noi, il nuovo libro di Alessandro Broggi
Se il personale è politico, la deissi personale lo è ancora di più.
Al di là della validità o meno della matrice di questa espressione, che si può rintracciare in uno slogan barricadero finito, forse, fuori moda – o forse, al contrario, diventato mainstream – questo è anche, per chi scrive, uno degli assiomi di fondo della storia della poesia del secondo Novecento e dei primi decenni del ventunesimo secolo. Opportunamente decentrato, o anche abbandonato tout court, l’asse io-tu della lirica tradizionale, si sono esplorate altre strade, all’interno e oltre i limiti della deissi personale: una delle più battute (insieme al voi che è parimenti prodotto dallo “scorniciamento” dall’asse lirico, risultando, però, politicamente insostenibile, in quanto figurazione di una platea di fatto inesistente, e al loro che è ormai, e inevitabilmente, legato ad asfittiche costruzioni paranoidi) riguarda la dimensione del noi, che appare intrinsecamente legata a un’immagine di collettività, magari unita anche da legami di solidarietà culturale e politica.
Si è presupposta con forza, questa prima persona plurale, nella stagione della “poesia civile” rimasta poi circoscritta ai primi anni Duemila; è recentemente ritornata – in modo sintomatico, si potrebbe dire – nei titoli di due volumi pubblicati di recente: Noi di Laura Pugno (Amos, 2020) e Noi di Alessandro Broggi (Tic Edizioni, 2021). Se il primo libro, recentemente insignito del Premio Fortini 2020, presenta la «connessione di tutto con tutto», come si legge sul portale Rai Cultura, ovvero un «movimento di […] ricomposizione del dissidio tra noi, il linguaggio e il mondo, di riunificazione sotto l’insegna della luce solare», il Noi di Broggi interviene all’interno di quel dissidio e lo intensifica anziché tentare di conciliarlo. Alla ricerca delle forme del conflitto cui è dedicata questa costellazione, si guarderà dunque, e in modo esclusivo, al libro di Broggi per trarne, se possibile, alcune riflessioni che non tralascino, in ogni caso, di esplorare la dimensione sintomatica e, più in generale, contestuale in cui questo libro ricade.

Bisognerà innanzitutto provare a fare ciò che Broggi non fa mai, nel corso del libro, e cioè ricorrere a un artificio retorico, apparentemente inventivo, di qualche tipo, allo scopo di sottolineare che i “noi” presenti nel libro non sono semplicemente pronomi personali, ma pronomi per sonagli. Come nella teoria dello sviluppo mentale di Piaget, i sonagli innescano «reazioni circolari secondarie», testimoniando la capacità di agire sugli oggetti e ripetere le azioni su di essi allo scopo di prolungare il piacere derivante dal rumore così prodotto. Per Broggi, tuttavia, tale piacere non ha nulla a che fare con l’ecolalia, ma si sostanzia, nella costruzione del testo, attraverso la manipolazione non-creativa – per usare così la definizione aggiornata di uncreative writing, proposta oltreoceano da Kenneth Goldsmith, senza ripercorrere tutta la tradizione, più o meno esplicita, di una tecnica che si è venuta a definire, molto sinteticamente, come cut up – di materiali testuali preesistenti. Come si legge nella Nota finale, infatti, «[i]l dettato di Noi è quasi interamente costruito come una sottile e fitta trama di microprelievi, effettuati da testi esistenti di diversa provenienza: frasi letterali o variate, sintagmi e costruzioni mai segnalati nel corpo del testo» (p. 109). Se il “quasi” marca la necessità di coesione testuale del testo (ulteriormente rafforzata da quegli omissis che vi compaiono per ben quattro volte, scandendo la massa testuale) e presuppone una qualche forma romanzesca, successivamente smentita da una lettura più approfondita del testo – come ha sottolineato Filippo Pennacchio nella sua lettura di Noi per La Balena Bianca –, il prosieguo della Nota di Broggi è, in realtà, ancora più significativo perché sottolinea la matrice borgesiana dell’operazione («la lingua è un sistema di citazioni», dal Libro di sabbia) e termina sottolineando come «l’ego, in definitiva, non sia che un epifenomeno, se non un’illusione» (p. 109).
Allo stesso modo, dunque, si possono considerare epifenomenici i “noi” evocati dal titolo e mantenuti per buona parte del testo: i personaggi che si ripresentano, frammento dopo frammento, non sono certamente a tutto tondo, configurandosi piuttosto come una serie di nomi-segnaposto; alla domanda: «siamo solo storie?» (p. 86) risponde un precedente affondo, nel quale si riafferma, implicitamente, che Noi non è un romanzo né ambisce alla forma-romanzo, perché ormai «romanzi o atlanti» si scrivono «per sinecura» (p. 75).
«Tutto ci sfugge – tutti,
anche noi stessi»
In un romanzo o in un atlante non vi sarebbero, dunque, né intensità né attenzione per quello che è il rovello tematico di Noi sin dal titolo, e cioè per quello che, tramite la prima persona plurale, si presenta in prima battuta come un «assetto relazionale» (p. 49), per poi ridursi a un coacervo di «relitti fantastici, furtivi» di «passate relazioni» (p. 56). In altre parole, in Noi la prima persona, quando non è consolatoria («soltanto il senso del noi ci fa stare un po’ meglio», p. 61), ha una validità meramente operativa («se talvolta ci pluralizziamo è per adeguare le capacità alle mansioni», p. 67).
Se l’instabilità della deissi pronominale è al tempo stesso agita e tematizzata – in questo, come in molti altri modi – la deissi temporale è altrettanto instabile, portando ad esempio a una ripetuta oscillazione tra presente, passato e futuro («attendiamo, attenderemo», p. 36, o ancora: «se non ci sbagliamo, se non ci sbagliassimo», p. 90). Ancora più complessa, tuttavia, è la questione della deissi spaziale, spesso tematizzata in modo esplicito come ragionamento sul “paesaggio”: se, da un lato, il paesaggio «è ciò che non ha confine» (p. 45) e che non conosce «il conflitto delle parole» (p. 85), la sua configurazione va incontro, più che a un processo (che potrebbe anche essere circolare e consolatorio) di decostruzione e ricostruzione, a una vera e propria disgregazione.
Quest’ultima dinamica segue almeno due percorsi, intrecciati fra loro senza soluzione di continuità ed egualmente validi e interessanti. Da una parte, il paesaggio di Noi presenta una fauna, una flora e uno scenario compositi, creati attraverso accostamenti irrealistici di collettività e, più in generale, habitat diversi: se si legge che «la nostra sorte dipende intimamente dalle risorse naturali» (p. 54), a interessare, tuttavia, non sembra essere la conseguenza ecologica e/o ecologista più immediata del discorso, quanto l’instabilità epistemologica cui la scoperta di tale molteplicità e simultaneità può comportare.
Da questa pluralità abitativa e prospettica, emerge, infatti, la consapevolezza che ogni specie designa, e disegna, il proprio paesaggio: tra le tante possibili, la concezione umana del paesaggio – che, anche in un percorso di decostruzione e ricostruzione che si voglia definire “post-antropocentrico”, potrebbe essere tranquillamente univoca – ne esce assai ridimensionata. Si crea, infatti, una moltitudine a-dialettica; senza una qualche tensione dialettica reciproca, tale scenario non può, dunque, aspirare a un percorso di sintesi o risoluzione, attraverso un momento di dis-identificazione e poi di nuova identificazione per la specie umana – un percorso sul quale, peraltro, cade subito una sorta di censura morale: «siamo patetici» (p. 86).
«Se talvolta ci pluralizziamo
è per adeguare le capacità alle mansioni»
D’altra parte, il paesaggio è ciò che altrettanto rapidamente «va fuori sincrono», all’interno di un più generale «requiem interpretativo» (p. 77) che comprende anche l’orizzonte degli eventi (nonché il loro «oltraggio», p. 77): il resoconto che costituisce Noi inizia ad essere «assediato dal delirio», configurandosi presto come una scena non storica (o meglio, non storicizzabile) all’interno di un «teatro cronico» (p. 79). Non si tratta più di esplorare quello che c’è Dietro il paesaggio, come fece Andrea Zanzotto ormai settant’anni fa, bensì di fornire una «descrizione del mondo» (p. 87) che riecheggia, nei suoi presupposti epistemologici, l’omonimo progetto poetico-artistico coordinato, qualche tempo fa, da Andrea Inglese; in esso, infine, non c’è «nessuna speranza nel cambio topologico degli spazi» (p. 97), tale e quale, invece, affiora in molte opere recenti che si sono interrogate sulle varie dimensioni dello spazio, come ad esempio NT (nessun tempo) di Alessandra Greco (Arcipelago Itaca, 2020).
Si tratta di una disgregazione spaziale che si ripercuote anche sul piano temporale e su quello pronominale, rispondendo certamente a una «fase di continua trasformazione» (p. 96) di derivazione eraclitea, nella quale il «fissaggio dei referenti» dipende unicamente dalla «progressione delle sensazioni» (p. 98); tuttavia, è anche il sintomo di una disfatta più generale, nel quale non c’è più posto per alcuna «resistenza segnica» (p. 75). A tale disfatta vengono associate possibili chiavi di lettura: è stato tutto (dove già quel tutto è indice di un piano fenomenico assai ambiguo e mai del tutto acclarato, né acclarabile) un caso di «allucinazione collettiva» (p. 93), o anche un procedimento (magari malriuscito) di «autoterapia» (p. 93)?
Tutto questo, in realtà, non importa molto, visto che l’esplorazione dei personaggi (dei, ma anche del “noi”) sembra continuare, piuttosto stoicamente, anche in chiusura di libro («cominceremo a distrarci camminando», p. 96). Ma si scopre anche, in modo ancor più decisivo, che «tutto ci sfugge – tutti, anche noi stessi» (p. 75). Questo sfuggimento – da intendersi anche come “fuga prospettica”, secondo un’accezione forse meno comune del termine, ma con ogni probabilità compatibile con la posizione autoriale – prende talvolta il nome di “oblio”, nel corso del libro, poiché, come si legge in questo passaggio vagamente ellittico:
Il viaggio ricomincerebbe di nuovo, a ogni parola e a ogni frase, il regime della rappresentazione come una sorta di equivalente dell’esistenza, un prerequisito dell’oblio (p. 82).
Se l’oblio è l’esito prevedibile del regime della rappresentazione dominante, non si può dire lo stesso, tuttavia, di un’altra disgregazione, ovvero di quella che interviene con la morte, poiché «il tempo non duplica sé stesso» (p. 49) e «la fine ultima non è iscritta nel nostro registro simbolico» (p. 74). La morte scombina ogni ordine socio-simbolico (creando un disordine che quello che abbiamo imparato a etichettare, in modo sintetico e forse anche banale, come “elaborazione del lutto” tenta poi di ricomporre): nel libro, questo si riflette “narrativamente” nella morte di uno dei personaggi: è uno dei primi segnali della disgregazione in atto, ma, al tempo stesso, non è una morte che possa essere compresa e interpretata in sé stessa, venendo subito retrodatata e perdendo dopo poche righe la sua stabilità referenziale.
Noi non è un libro tragico, insomma, così come, per altri versi, è moderatissimo l’effetto comico di alcuni luoghi testuali, come ad esempio i nomi, che risultano vagamente astrusi, dei personaggi. Del resto, il fatto che il sorriso possa essere soltanto accennato (rivoltandosi talora in amara ironia: «chi siamo noi per non amare tutto?», p. 49) è già anticipato da un passaggio come questo: «Tania ha un’aria euforica, spesso suadente: “Ho dimenticato la battuta”; accresce la nostra percettività con una costante disposizione al buon umore» (p. 38). A risaltare non è soltanto il dominio della “percettività”, in sintonia con le preoccupazioni epistemologiche che costellano, e talora puntellano, il libro, ma anche l’abbandono di ogni tipo di “euforia” (strettamente legata come può essere al polo, solo apparentemente antinomico, della “depressione”) in favore di una “costante disposizione al buon umore”. Che è soltanto una disposizione (intrinsecamente letteraria, peraltro), un’attitudine che non può mai essere decisiva e che ben si coniuga con l’istanza ‘cava’ dell’enunciazione ravvisata da Pennacchio nell’intero libro.
In ultima istanza, Noi non dà risposte definitive, né di tipo consolatorio né, all’opposto, di tipo nichilista, sulla costituzione e poi disgregazione della prima persona plurale che è l’oggetto – uno fra i tanti oggetti, per meglio dire – della sua inchiesta. Proprio in questo può risiedere il carattere politico del libro, che è piuttosto marcato, per quanto versato nell’anti-storicismo e nella mancanza di dialettica: un pungolo costante.
post-scriptum
…Poi, se una possibile, per quanto parziale, risposta a questi dilemmi può essere contenuta nelle sezioni finali del libro, questa rivelazione si verifica soltanto a patto di leggere le assai rilevanti righe finali al di fuori di una semplice autogiustificazione meta- o anche extra-letteraria. Quella di Noi non è forse una “costruzione mentale” sulla cui verità e validità [noi] «non abbiamo bisogno di sapere» (p. 106)?
Domanda, dal sapore a-dialettico e quasi zen, che rimane aperta tanto per chi opera nel panorama della poesia contemporanea e potrà trovare nel libro utili indicazioni di poetica (non di Broggi, magari, ma per una messa in discussione di poetiche diverse e non immediatamente sovrapponibili alla sua), quanto per chiunque vorrà avvicinarsi alla lettura di uno dei testi “di ricerca” – non ci dev’essere né pudore né sospetto di ruffianeria nel dirlo – più importanti che siano usciti negli ultimi anni.
43.
Se dovessimo dire cosa ci ha fatto più impressione oggi, parleremmo di imponenti liquidambar a perdita d’occhio, più o meno distanziati sull’erba, dove gli scoiattoli grigi stanno raccattando infruttescenze prima delle nevi imminenti. Nessun albero arriva a toccare il cielo. Come proseguiamo, ascoltiamo volpi in numero immenso allontanarsi verso la calma, l’ondata di freddo si manifesta secondo diverse pulsazioni, l’inverno sale dalla terra.
La foresta – ramature e macchie di arbusti senza foglie – attenua la variazione climatica con la sua dimensione, il gelo non ne vieta l’ingresso. Maurizio ci ha raccontato di un’escursione ai ghiacciai vallivi, gli trema il sorriso; si apprende che in più di un’occasione, la notte scorsa, sul bordo della radura vicino al campo hanno sostato alcune linci, parte di un piccolo branco che, terminata la caccia al sorgere del sole, è tornato verso l’area di riposo. Forse ne vedremo altre nel viaggio.
Scriviamo: la fame ha reso arditi lupi e linci che girovagano in prossimità, le orme degli animali sono molto sparpagliate. Strisciamo bardati di pelo o ci ricopriamo dei nostri corpi, soltanto il senso del noi ci fa stare un po’ meglio. Stiamo con noi, Norberto ha di nuovo parlato nel sonno, ci siamo riaddormentati.
61.
Il nostro ciclo vitale, nessuno potrebbe completarlo al posto nostro, la costante degenerazione e rigenerazione attorno a noi, la morte come pura necessità e come menzogna, anche la nostra.
“Stanno accettando tutto, per superarlo. Stanno nella loro morte”. Ogni volta che abbiamo compiuto una scelta abbiamo incluso noi stessi nella scelta, a che cosa abbiamo creduto noi? C’è qualcosa che è coerente con qualcos’altro? Bisognerà attendere che tutti i discorsi siano conclusi? Il nostro benessere esplicativo ha ambiti di pertinenza ristretti, una storia di coscienze riflesse, rovine istantanee, per quanto l’occhio possa vedere sotto il cielo. Ogni concetto è il sottoprodotto di una situazione particolare e già quella situazione non esiste più, la nostra esistenza è diversa.
Come ripetere il procedimento e non il risultato; gli eventi passati non hanno mai avuto luogo esattamente nel modo in cui li ricordiamo, il nostro racconto sta costruendo il mondo negoziando in permanenza l’emergere del reale, dev’essere vero sempre e tuttavia ciò a cui rinvia non è effettivo, è immaginario. Come ogni essere umano anche noi ci siamo inventati una storia che poi, a prezzo di enormi sacrifici, abbiamo considerato la nostra vita. Viviamo in un mondo dove l’immaginario è il reale.
Sequenze alternative di lettere avrebbero dato vita a identità differenti? Secondo quali premesse? Quanta intelligenza! Eleonora Whitt, Maurizio Sabona, Norberto Orci, Tania Mojeri. “Come se fossero noi”, come se fossimo loro. Dandoci strani nomi tutti i giorni, siamo anche noi degli impostori. Il mondo enunciato: una consuetudine fonatoria posticcia, sempre gli stessi gesti e le medesime parole usate per istituire distinzioni, contorni, confini che, anche se ce lo siamo dimenticati, sono nostre creazioni. Il conflitto delle parole, che il paesaggio non conosce. Siamo solo impasti evolutivi di un certo tipo dentro un imperscrutabile crogiolo, poco meno di una briciola di materiale di crosta terrestre superficiale.
Forme del conflitto sono già state rintracciate in:
Sogni e risvegli di Fabrizio Bajec

Lorenzo Mari
Lorenzo Mari vive e lavora a Bologna. Ha pubblicato alcuni libri di poesia, tra i quali gli ultimi sono Querencia (Oèdipus, 2019) e la plaquette Tarsia/Coro (Zacinto, 2021). In prosa, ha pubblicato il racconto Via Mascarella alta e bassa (autoproduzioni Modo Infoshop, 2019) e ha ottenuto il XXXV Premio Teramo Giovani - Giacomo Debenedetti per il racconto Un percorso sicuro.
Traduce dallo spagnolo (Agustín García Calvo, Sonetti teologici, L'Arcolaio, 2019; César Vallejo, Trilce, Argolibri 2021) e dall'inglese (David Keenan, Memorial Device, Double Nickels, 2020, insieme a Matteo Camporesi).
Ha curato l'edizione italiana di ZURITA. Quattro poemi del poeta cileno Raúl Zurita (Valigie Rosse, 2020), nella traduzione di Alberto Masala.
Collabora con varie riviste online (Pulp Libri, Fata Morgana Web e Jacobin Italia).
[…] recensione di filippo pennacchio su la balena bianca. –la recensione di lorenzo mari su argo. –alcuni capitoli del libro su inverso. –una performance di teatro-danza basata sul […]