Forme del conflitto ⥀ “Non sappiamo come continuare” di Demetrio Marra
Le poesie di Demetrio Marra in Non sappiamo come continuare. Nove processi biofisici (2024) raccontano la disillusione e la manifestazione del teppismo come fantasma adolescenziale che l’individuo adulto non può sopprimere
From teppa with love. Ricordo di aver visto questo graffito da qualche parte, negli anni Novanta: nella Bassa lombardo-emiliana, la “teppa” era ancora in giro, all’epoca… Oggi è un’espressione desueta, e forse lo è diventata già durante il percorso di formazione di Demetrio Marra, classe 1995.
Non così, invece, il teppismo letterario: non si intende, naturalmente, né quello fascista né quello papiniano, ma quello bianciardiano, ovvero una guerriglia, magari a bassa intensità, ma con inattese esplosioni, contro gli inganni e le storture del lavoro culturale. Ed è questo teppismo che nell’ultimo libro di Marra, Non sappiamo come continuare. Nove processi biofisici (2024), sembra trovare una nuova e vivificante attualizzazione.
Ci si riferisce, innanzitutto, alla modalità di pubblicazione del libro – un’autoproduzione, per una volta non-Amazon, della quale Marra sciorina anche i costi, in appendice al libro, per una questione non soltanto di “trasparenza”, termine ormai in più circostanze abusato, ma anche di corroborazione pratica del discorso autoriale – e allo scritto finale, dove Marra, in particolare, critica alcune dinamiche dell’editoria di poesia italiana. Marra le situa all’interno di una disamina più generale dello stato dell’arte, fino ad esercitare una funzione critica assai più estesa, come si può leggere in passaggi lapidari come questo: «la militanza culturale è una forma come un’altra di rinuncia alla militanza reale» (p. 75).
Rinuncia, o forse lutto, intorno al quale gravitano anche i testi di Marra, come segnala Dimitri Milleri nella brillante prefazione, preferendo però usare il termine – che resta fortemente connotato, se pensato all’interno di una critica dell’economia politica – di fallimento: per Milleri, Non sappiamo come continuare è un «libro di fallimenti a matriosca, nove processi legali, forse, di una persona reale nei confronti delle / contro le sue identificazioni (non pensate ma performate nel tempo)» (p. 7), e dunque «tentativo di un’eticità, non innalzarsi ma rivendicare un fallimento assolutamente preferibile e scontato» (p. 9).
Sono parole che hanno sicura corrispondenza con il testo di Marra, ma che rischiano forse di allontanarne la lettura dal piano (bio)politico al quale alludono i Nove processi biofisici del sottotitolo – adeguatamente riverberati dalle nove sezioni del libro – preferendo quell’orizzonte “etico” che, pur frequentemente invocato dalla poesia e dalla critica di poesia contemporanea, non riesce tuttavia a costituire un’autentica alternativa alla rinuncia, lutto o assenza di cui sopra.
Quanto alla “preferibilità” individuale di tale scenario, sembra chiaro come lo scritto finale sull’editoria e sulla militanza culturale/reale si possa configurare come «un altro “schermo”» (p. 9), come scrive Milleri, in sintonia con il dubbio, che Marra espone e lascia irrisolto,
«che la polemica contro l’editoria, e in particolare l’editoria di poesia, [sia] un alibi. Un modo per mettere in secondo piano i testi. Va bene. Può darsi. Significa accumulare gli alibi: anche la scrittura è un alibi, un modo di distogliere l’attenzione da me, e direzionarla verso la pagina. Questa cosa (io che gesticolo indicando il libro) è anche uno spostamento» (p. 79).
D’altra parte, un eventuale scioglimento di questo dubbio nella direzione esclusiva dell’alibi, con le sue connotazioni morali e/o psicanalitiche, o della sua confutazione significherebbe, alternativamente, rendere il collegamento tra i testi poetici e lo scritto finale labile e privo di motivazioni, oppure squalificare lo scritto finale come espressione di una posa. E non c’è posa realmente possibile nel libro di un teppista come Marra – nella “teppa”, come si direbbe in gergo educativo, “non ci sono filtri”. (Ma, tralasciando il cosiddetto “vanverismo pedagogico”, si potrebbe anche dire: una scrittura che si riconosca esplicitamente come alibi… non può che offrirsi come alibi al quadrato, non potendo essere né un semplice alibi né la sua pura confutazione).
Ancora, Dimitri Milleri individua un altro snodo fondamentale del libro di Marra nella «caduta nell’ordinario scolastico e piccolo borghese» (p. 7), in contrapposizione al velleitarismo dell’intellettualità accademica esperita in precedenza – non mancando, tuttavia, di citare, sia in esergo che nello scritto finale, alcuni testi recenti che sono ritenuti comunque validi dall’autore, spesso per la loro trasgressività, o anomalia, culturale e politica, come Linguaggio inclusivo ed esclusione di classe di Brigitte Vasallo, Filosofia della cura di Boris Groys e Il pensiero perverso di Ottiero Ottieri, curato nel 2022 dallo stesso Marra.
Lo scarto biografico, sociale e intellettuale tra le due realtà (nonché le loro allucinazioni) si può avvertire pienamente, per esempio, in una strofa come questa, dalla sezione Quattro incipit senza data: «Non mi riposo! mi accorpo al tempo / che non ho! mi laureo e vuol dire / impastarmi nella voglia di / trovare un luogo che non sia l’alibi / del mio cementarmi nella Scuola, / nel Libro, nel Quotidiano, e dopo / la fatica il cervello ancora / costruisce l’assenza del pensiero, di quel, / chi dovrei crocifiggere per questo? (p. 27).
È poi la sezione Tautoromanzo, nella spola tra casa e scuola attraverso un paesaggio milanese degradato – «ha le cuffie bluetooth e ascolta Morning / che ha paura gli rimanga in testa, / che parla della conferenza di Glasgow, di riforestazione, / pensa che qualsiasi cosa si faccia verrà incendiata / come si incendiano la spazzatura e gli alberi in estate» (p. 34) – a imprimere il proprio sigillo a questa poetica della classe disagiata – per riprendere en travesti il titolo di un fortunato saggio di Raffaele Alberto Ventura del 2017, le cui tesi sembrano qui convenientemente rielaborate. Il declassamento è un’esperienza al tempo stesso socio-economica, culturale (restituendo giusta complessità a quella che viene spesso definita, con un cliché, la “frustrazione” della classe docente) e morale (per il fatto di subire l’orripilante fascinazione che comportano le varie declinazioni ideologiche della piccola borghesia, e anche di potervi di fatto aderire, più o meno consapevolmente che sia). È anche uno scontro continuo con il principio di realtà quale elemento cardine dell’integrazione sociale e funzionale dell’individuo adulto:
«invece è già dopo, / trasformandosi in tutto quello / che da giovane ha odiato, / e solo perché è precario, / ha un contratto a gennaio, ventinove, / poi quella lì recupera per miracolo dall’ernia, / dice non vedo l’ora ma a gennaio / non si presenta lo richiamano» (p. 39).
Se lo scontro con il principio di realtà sembra in prima battuta inaggirabile, ciò si estende, su un piano prettamente politico, all’orizzonte della prassi come rivolta/rivoluzione – un orizzonte evocato esplicitamente in almeno quattro luoghi del libro, e con una lieve preferenza per la rivolta, in quanto «non posso sognare la rivoluzione / e volere ugualmente: / smettere di lottare / ignorare la guerra / pensare a voi come vittime / in un qualche film, in una qualche serie / che poi mi tornate solo / come custodie in sogno, / vi eterno! finché almeno io…» (p. 60). La rivolta è maggiormente presente – come lo è, del resto, nell’esperienza politica globale degli ultimi anni, nella forma specifica dei riot – fino a costituire lo sfondo perturbante del quotidiano e ad esempio di quei cliché, altrimenti consolanti, raccolti tramite eavesdropping: «per fortuna almeno quello lì, / che da banchiere si commuove in Parlamento, / è andato a fare in culo, / ed è come se gliel’avesse detto in faccia, / dato il caldo, i fuochi l’aria di rivolta» (p. 46). In ogni caso, nemmeno la rivolta è del tutto praticabile, per la frapposizione di un ulteriore schermo che torna a definire con più chiarezza la posizionalità piccoloborghese: «ti riprendo al cellulare come le rivolte, / mi sei fuori estranea, piccione sulla cornice” (p. 18) – arrivando infine a uno sdoppiamento di senso ironico, quando a «rivoltarsi» è, più banalmente, un «calzino» (per quanto «un calzino in aula», come metafora di un «darsi» pedagogico-didattico totale, e quindi per definizione impossibile e/o inutile, p. 38).
Quello di Marra è quindi un racconto della disillusione, ma senza tanti patemi e con una netta preferenza per l’ambiguità, in alcuni casi, tragica in altri comica, del verso, a rafforzare la percezione di un fallimento – o di una rinuncia, un lutto, un’assenza – “preferibile”, e infine preferita. In questa disillusione ritorna allora a farsi sentire il teppismo, come fantasma adolescenziale che l’individuo adulto non può sopprimere una volta per tutte, fantasma che si fa anche stile. Flavio Santi ha giustamente accostato la poesia di Marra a quella di Simone Cattaneo, in una lettera aperta all’autore recentemente pubblicata su Palin Magazine, nella somiglianza di un gesto che in pittura sarebbe stato, con ogni probabilità, fauvista. Anche Andrea De Alberti ha scritto del libro di Marra dichiarando che «sembrano poesie scritte da un grande poeta calabro americano. Un po’ Berto trasformatosi miracolosamente in poeta. Un misto di prosa e poesia filosofica». A Niccolò Gualandris, che ha scritto del libro su Aratea Cultura, non è sfuggita l’inclinazione indie di alcuni passaggi del libro.
In tutti questi riferimenti, circola la possibilità di un teppismo adolescenziale che continua a contaminare la fase della “maturità”, che è anche quella del declassamento e dell’adattamento sociale, riportandola sulla soglia a guardare il baratro dove inevitabilmente sguardo e parola finiranno per gettarsi. È anche per questo che non sappiamo – insieme all’autore, in senso generazionale, ma anche a cavallo tra le generazioni – come continuare, e tuttavia, questo lavoro, per Marra e chiunque si allinei su posizioni simili, dovrà pur trovare un seguito.
⥀
Dentro
III
ti riprendo al cellulare come le rivolte,
mi sei fuori estranea, piccione sulla cornice,
abusivo parassita no:
posso bonificare le fantasie
sulle aspettative, sulla razionalità,
su come intercorre nel senso comune ogni azione,
ogni volta che non smettiamo, non si può,
di circolare il sangue, inviare gli impulsi
⥀
Tautoromanzo
IV
Lui non vola, a febbraio, e non cambia rotta,
non si schianta tornando sempre a piedi, visto?
si dice, come è rimasto…
il pensiero è più duro di Mattarella,
e sempre dalla stessa strada!
finché non dice perché no,
proviamo questo panettiere,
che gli ricorda come ogni panettiere
quello dietro l’angolo della scuola elementare,
con le pizzette di pasta sfoglia,
il nome preso da un senatore ostrogoto,
le finestre al pianoterra a scorrimento,
scuola che adesso gli riviene in cantiere
come il palazzone nascosto
all’improvviso su via dei f.lli Lumière,
il bonus centodieci ha un cartello
con la descrizione dei lavori
e poi CIA Obama Killer.
(da “Pretesti. Nota all’autopubblicazione”)
La ricetta autentica della carbonara è l’ultimo baluardo del fascismo. Change my mind.
Forme del conflitto sono già state rintracciate in:
Sogni e risvegli di Fabrizio Bajec
Il divieto di accorgersi di Elisa Donzelli (documento apparso su Le Parole e Le Cose)
Movimento e stasi di Massimo Palma
Il mare a Pietralata di Claudio Orlandi
Nella spirale (Stagioni di una catastrofe) di Gianluca D’Andrea
Pietra da taglio di Anna Franceschini e Lacrime di Babirussa di Riccardo Innocenti
Waves di Vincenzo Bagnoli e Eleanor di Alessandra Cava
Per far vivere altro cadiamo di Marco Carretta (scritto di Matteo Cristiano)
Lottare per le idee di Giuseppe Muraca
Togliattə di Mariano Correnti e Liricologismo di Marzia D’Amico

Lorenzo Mari
Lorenzo Mari vive e lavora a Bologna. Ha pubblicato alcuni libri di poesia, tra i quali gli ultimi sono Querencia (Oèdipus, 2019) e la plaquette Tarsia/Coro (Zacinto, 2021). In prosa, ha pubblicato il racconto Via Mascarella alta e bassa (autoproduzioni Modo Infoshop, 2019) e ha ottenuto il XXXV Premio Teramo Giovani - Giacomo Debenedetti per il racconto Un percorso sicuro.
Traduce dallo spagnolo (Agustín García Calvo, Sonetti teologici, L'Arcolaio, 2019; César Vallejo, Trilce, Argolibri 2021) e dall'inglese (David Keenan, Memorial Device, Double Nickels, 2020, insieme a Matteo Camporesi).
Ha curato l'edizione italiana di ZURITA. Quattro poemi del poeta cileno Raúl Zurita (Valigie Rosse, 2020), nella traduzione di Alberto Masala.
Collabora con varie riviste online (Pulp Libri, Fata Morgana Web e Jacobin Italia).