Forme del conflitto ⥀ “Pietre da taglio” di Anna Franceschini e “Lacrime di Babirussa” di Riccardo Innocenti

Due libri poetici a confronto sulla tematica del genere: Pietra da taglio di Anna Franceschini e Lacrime di Babirussa di Riccardo Innocenti

 

Fin dall’esordio, questa “costellazione” ospitata da Argo e intitolata Forme del conflitto ha voluto essere un’indagine – se così si può chiamare una modalità di intervento del tutto aperiodica e asistematica – sulle scritture poetiche contemporanee e, in particolare, sul loro gradiente politico.

Innegabilmente uno dei punti di riferimento per questo tipo di discorso (assai superiore, e per distacco, negli esiti teorici) è stato e continua ad essere il Fortini di Metrica e storia – in vista, quindi, di una prospettiva vagamente marxisante nella quale le forme intrattengono certe relazioni con la processualità storica, nonché (restando quasi sempre a monte del discorso, in questa come in molte altre occasioni) con la cosiddetta “struttura”. Da un lato, dunque, le analisi dei libri di Claudio Orlandi e di Gianluca D’Andrea, risultanze formali, assai diverse tra loro, di un approccio poetico allo stesso fenomeno storico; dall’altro, quelle dei libri di Rosaria Lo Russo e di Alessandro Broggi nella loro creazione, o ricreazione, di forme che impongono, con certa autonomia, una cesura e, a partire da quella, una riconsiderazione globale della storia – innanzitutto, ma non solo, come storia delle forme.

I conti, evidentemente, non tornano mai del tutto, come si rende manifesto, ad esempio, in quella poesia per così dire “post-pandemica” che scambia continuamente evento e sintomo, anche a livello teorico. Del resto la prospettiva marxisante qui evocata tende inevitabilmente, quasi per statuto, a imporre un discorso arbitrario sulle diverse risultanze fenomenologiche, forzandone i limiti e venendone forzata. Non è lo scontro muscolare che interessa, però – offrendo troppo facilmente il fianco ad altrettante critiche, egualmente muscolari (si potrebbe dire anche: altrettanto ideologiche) – quanto l’illuminazione e l’esplorazione dei territori “altri” che si vengono così a determinare.

È così ad esempio che, leggendo due importanti libri degli ultimi anni come Pietre da taglio (Kurumuny, 2021) di Anna Franceschini e Lacrime di Babirussa (NEM, 2022) di Riccardo Innocenti, l’attenzione passa di diritto dalle forme ai generi. Com’è noto, la definizione di genere in relazione alla poesia è quanto mai scivolosa, assomigliando troppo a quelle in voga nell’ambito dell’invisa Letteratura (proprio quella con la L maiuscola); altresì complessa è la relazione formale delle due opere con i generi che si impongono a livello tematico (ma anche, stando alle premesse, tematico-ideologico, esistenziale, politico, etc.): sono entrambe, in qualche modo, opere de-generi che procedono da un “genere”, incluso quello “poetico”, e sviano verso altri orizzonti.

In primo luogo è de-genere l’esordio sulla misura del libro di Anna Franceschini, pur essendo presentato come segue nell’introduzione di Caterina Serra (autrice anche di molte altre prefazioni per la collana Rosada della casa editrice Kurumuny, in cui il volume si inserisce):

«Parole femministe che ripensano gli spazi condivisi, riformulano le relazioni e i rapporti di potere che le determinano, che ogni volta partono da quel gran motore che è la consapevolezza di sé, del proprio diritto a una buona vita, a una libertà di nominarsi e nominare il mondo» (p. 10).

Una capacità, quella della nominazione, che è connessa a tutte le altre e funge da perno, perché più chiaramente attinente alla scrittura poetica – non tanto, però, come capacità demiurgica o palingenetica (che sarebbe, in sé, inevitabilmente consolatoria), quanto come bisogno primario: «[…] si dovrebbe scegliere il nome, invece di trovarsi dentro alle cose ed escogitare modi per uscirne» (p. 57).

Come si può intuire già da questa breve citazione, e in funzione dell’intensità del lacerto, la parola di Franceschini non è “femminista” in un senso immediato e magari esclusivamente ideologico; la sua densità, invece, è segno, per questa lettura critica, di un groviglio esistenziale – tanto dal punto di vista materiale, quanto da quello psicanalitico – che non può né vuole essere dipanato (o, ancora peggio, “spiegato”). Reca altresì la traccia di un’intensità che si ripercuote – questa sì in modo chiaro e netto, lineare – sul piano formale.

Il libro, infatti, è costituito da un’alternanza di sequenze e di testi che sembrano maggiormente individualizzati, molti dei quali evidenziano una marcata circolarità (anche per contrasto: si prenda a titolo di esempio il testo che inizia con «Si stava in cerchio […]» e termina con «disintegrandosi», p. 34); allo stesso tempo, vi è una misura che si amplia progressivamente a partire dalla quartina che compone il testo incipitario fino al passo lungo e disteso della prosa, che prende via via il sopravvento nel corso del libro.

Vi è, dunque, un respiro della poesia che travalica il singolo testo – anche se non si può tralasciare di citare, per la pregnanza metapoetica, il doppio movimento del verso: «La caduta leggera solleva un’altra immagine» (p. 24) – e rende conto dell’organicità dell’opera, senza dimenticarne, per questo, la scansione in “scene”, già rilevata qui da Valentina Murrocu.

Nel libro, in effetti, si passa da una sequenza intitolata Scena madre a una che recita Nessuna scena, così come si passa dal doppio senso della prima espressione – scena madre, in quanto drammatica e consapevolmente patetica e, al tempo stesso, scena madre, come dramma della maternità – alla mancanza di una scena, e di un’espressione, su cui proiettare e proiettarsi, evitando ogni speranza apotropaica vagamente connessa all’omicidio sacrificale (come si legge nella sequenza Il centro protetto).

Situazioni e verbi, ancora una volta, di pertinenza psicanalitica, ma non cinematografica, visto che in questo libro il palcoscenico è spesso buio, o il sipario è chiuso, e si scopre presto come, in realtà, per molti versi non ci sia nessuna scena. Senza il cinema né l’onirismo dello schermo, mi risulta allora un po’ difficile sostenere – come ha fatto Gianni Montieri appoggiandosi sulla frequente indicazione di “sogni”, nel libro – che in Pietre da taglio si passi, senza soluzione di continuità, di sogno in sogno.

A differenza del testo finale di Francesca Marica (posto a controcanto dell’opera di Franceschini, com’è abitudine nella collana Rosada, ma assai più impregnato, fino al surrealismo, di immagini), infatti, i sogni di Pietre da taglio sono spesso anche degli incubi, e questi, soprattutto, incubano una morte che alla fine rimane senza racconto, per citare il titolo di un’altra sequenza.

È una situazione di frequente impasse, dunque, in cui il groviglio psicanalitico – agitato da una dimensione domestica mai goduta in pieno come tale, dove tanta parte ha il nesso culturale e politico tra “domestico” e “femminile” – è aggravato, innanzitutto, dalla durezza delle condizioni materiali più pressanti; è così, ad esempio, che della casa si leggono questi versi fulminanti: «non hai voce per dirlo non hai casa / senza nulla di scritto» (p. 40). Un groviglio è infine sciolto, ma soltanto temporaneamente, nella chiusa di una delle prose collocate verso la fine del libro: «Ho legato fili minuti al passo per permettermi un racconto. So che abito» (p. 65).

Permesso che, invece, la maschilità sovraesposta di Lacrime di Babirussa di Riccardo Innocenti si prende assai di frequente, in omaggio a uno dei propri tratti caratterizzanti. Una volta si sarebbe forse parlato di “fallologocentrismo”, e questo Innocenti sembra saperlo bene, quando mette in bella mostra proprio le contraddizioni e le aporie di tale meccanismo culturalizzato dell’ordine patriarcale. Come rileva Jessy Simonini nella brillante postfazione che si sviluppa precisamente attorno a questo tema,

«è indiscutibile che la questione della maschilità sia strettamente legata, in questo libro […] alla violenza come tensione fondamentale del soggetto, come elemento che storicamente e culturalmente determina il maschio nel suo rapporto con l’altro e, soprattutto, con tutte le donne» (p. 80, corsivo nell’originale).

Una violenza, dunque, che trae origine da scenari precisi e particolari, ma che vuole di continuo universalizzarsi, occupando tutto il campo: non per caso, allora, la recensione del libro di Gerardo Iandoli e l’attacco del saggio critico di Davide Castiglione si attardano su questo punto, ravvisando una «forma di contemplazione che può farsi estetica, cioè autotelica» – citando Castiglione – «come uno sprofondo nell’orrido che può riuscire assolutorio o escapista. Oppure, o anche, trascendersi in una riflessione etica sul contemporaneo – dalle risonanze cupe, certo, che rasentano la disperazione e la furia nichilista».

Oltre a tutte queste possibili risultanze, è lo stesso processo “fallologocentrico” di universalizzazione del particolare a rivestire un notevole interesse, ribadendo la costruzione di una maschilità fragile e al tempo stesso “tossica”, resa metaforicamente da quel Babirussa in lacrime, che piange – come da titolo –  e al tempo stesso esibisce i propri temibili canini.

Si tratta, dunque, di una consapevole sovraesposizione di un costrutto culturale che, in realtà, viene mantenuto a debita distanza; non per farne ironia o per darne un giudizio moralistico, poiché l’oggetto della rappresentazione non viene mai vagliato, inducendo così i lettori (maschile universale scontato, in questo caso) a trarre le proprie conclusioni.

Si legga, a titolo di esempio, questa notomizzazione dell’atto sessuale, dove a prevalere è unicamente, e asfitticamente, la prospettiva maschile: «La penetra da dietro per qualche minuto / concentrandosi sul movimento che compie / poi pensa a lei come a un maiale. Rallentando / ne osserva le parti, mentre spinge il bacino / verso il suo e tira a sé con le mani / la carne dolce nelle pieghe dei fianchi / i seni schiacciati contro le lenzuola» (p. 38).

Risulta, allora, particolarmente aberrante e decisamente riuscita, al di là della messa a nudo di una certa costruzione della maschilità, la convergenza di due sguardi: uno che si ritrova ancora una volta a scivolare sulla Pura superficie – dopo l’esempio fornito da Guido Mazzoni, nel libro omonimo (e con tutta una serie di riferimenti nel panorama poetico contemporaneo, elencati da Castiglione, cui andrebbero forse aggiunti, per una certa tonalità fauve di fondo, una parte dell’opera di Massimo Sannelli e, ancor di più, il nome di Simone Cattaneo) – e un altro che, invece, procede da una prospettiva chiaramente determinata, in chiave di genere/gender, e che, in virtù di questo, tende a occupare progressivamente la visuale anche di chi legge.

Si veda ad esempio l’inizio di questa prosa in cui i piani si intersecano con effetti notevoli: «Scrive nel 2021 e molte delle idee che ha fatto sue erano mediate da video in streaming pensati per utenti come lui e offerti su piattaforme rette da algoritmi. Anche la sua nozione di femminismo è stata mediata da contenuti online, quindi è comprensibile che si senta nervoso mentre la giovane donna del video gli parla degli uomini…» (pag. 72). «Il problema», naturalmente, «è nascosto sul fondo» (ibid.), ma, scivolando sulla “pura superficie”, è difficile, se non impossibile da raggiungersi.

Per Davide Castiglione, «la differenza fondamentale» tra i libri di Mazzoni e di Innocenti «risiede […] nella fede fortissima, benché nichilista, dell’io nei confronti dei propri enunciati nel libro di Mazzoni, vis à vis l’io non solo esperienzialmente ma anche enunciativamente passivo del libro di Innocenti (il cut-up è d’altronde figura emblematica di questa passività, di questo “essere parlati”)».

Si può aggiungere che, oltre alla questione del soggetto, vi è una dimensione di classe e di capitale culturale che è affrontata in due modi assai diversi; questa differenza, che non ha nulla a che fare con un giudizio politico o di valore, in prima battuta, porta il libro di Mazzoni a garantirsi vari appigli, a molteplici dimensioni e livelli, mentre nel libro di Innocenti tutto torna a girare ossessivamente intorno a una domanda, posta fra le righe di questo passaggio della postfazione di Simonini:

«la pratica militante e una certa rigidità teorica mi spingono a interrogarmi sul senso di questo tentativo di decolonizzazione, fedele alla grande domanda che ci rimane dagli Elementi di Mario Mieli: può forse un uomo, un uomo cisgender soprattutto, posizionarsi chiaramente contro l’ordine patriarcale che egli stesso contribuisce ad alimentare? È una domanda aperta, forse espressione di un dogmatismo che non bisognerebbe lasciare entrare in nessun discorso sulla letteratura» (p. 82).

Innocenti non dà risposte, com’è prevedibile, lasciandoci attoniti di fronte all’osceno portato sulla scena; inoltre, il suo vorticare ossessivo attorno a un’esplorazione del desiderio – «Così anche oggi, come ogni altro giorno / lo sguardo ostinato entrerà nei miei schermi / per sfiorare nuove immagini. È il desiderio / che esce dalla tana e cerca a lungo un posto caldo / dove potersi squagliare» (p. 22) – è anche tentativo, per negazione, di buddhistico allontanamento, non fornendo, al tempo stesso, alcuna traccia di desideri alternativi.

Innocenti vorrebbe forse tenerci inchiodati sine die alla lettura del libro. Unico contraltare, in tutto il libro, sono infatti i corsivi che intervallano le varie sezioni, cut-up di un “manuale per smettere di fumare”, che diventa “manuale per smettere di respirare”. Come se l’uscita da certe dinamiche sia l’uscita anche dalla poesia (che di respiro è fatta, per tradizione) e – su questo punto concordo con la fine dell’analisi di Castiglione – dal libro. Contraltare che però non spegne mai del tutto il vortice ossessivo attorno al centro della maschilità fragile eppure tossica, che continua a interrogare i lettori, mentre li spinge verso un esterno, dove, in realtà, nessun racconto è (più) possibile.

Con buona pace dei promotori e anche di detrattori, soprattutto nostrani, del politically correct contemporaneo, che non fanno altro che prolungare certi discorsi ideologici, qui ce n’è ben donde per smettere di raccontare – affidandosi, infine, a un altro genere.

 

 

(da: A. Franceschini, Pietre da taglio)

 

Spazio chiuso d’entrata porte
aperte all’esodo è un tubo un
passaggio secco per questioni di morte
con enormi onde più in là
nel centro     stranianti per tutti

Mentre mi parli                scappa
percorri l’isola esci
dall’acqua che c’è dentro
congiungiti ad un liquido comune
dove si lavano     tutti i figli

 

 

Il maiale grasso è vivo
con la gente che ride           si sporca
e non sa      che il grano è all’ospedale
si mangia il tempo di prepararsi al peggio

Il sangue non è solubile
la terrazza:   gli aerei
che vorrebbero precipitare
tutto è imminente
sembrano caderci addosso
mentre volano con noi     dentro
e noi da fuori          a guardare

 

 

(da: R. Innocenti, Lacrime di Babirussa)

 

Gli piacciono i documentari violenti
sul mondo animale, lo fa stare bene
vedere che la natura è una merda
gli uccelli del paradiso, che recitano
danzando per trovare un partner, come
esseri umani nei video di TikTok.
Si scusa se lei gli chiede di togliere
il video delle formiche che smembrano
altri insetti, mentre fanno colazione.

Una volta ha macellato un maiale
enorme, a casa di un amico, ha visto
litri di sangue uscire dal corpo appeso
polli, cani e gatti che accorrevano
per bere dai ruscelletti di sangue fumante
e dalle impronte degli stivali. È stato normale
fare a pezzi quel corpo e mangiarlo
è stata proprio una bella esperienza.

 

 

L’uomo ha lottato per decenni, eppure
respirando trascorre la sua esistenza in
una servitù che si infligge da solo.

Da quando ho smesso di respirare una
delle mie grandi soddisfazioni è essere
libero e non dover passare il mio tempo
desiderando, per poi pentirmi

non dover vivere con la continua
sensazione di insicurezza che mina
la vita.

 


Forme del conflitto sono già state rintracciate in:

Noi di Alessandro Broggi

Sogni e risvegli di Fabrizio Bajec

Il divieto di accorgersi di Elisa Donzelli (documento apparso su Le Parole e Le Cose)

Movimento e stasi di Massimo Palma

Anatema di Rosaria Lo Russo

Il mare a Pietralata di Claudio Orlandi

Nella spirale (Stagioni di una catastrofe) di Gianluca D’Andrea