Forme del conflitto ⥀ “Sì” di Alessandro Broggi

Nel libro sperimentale di Alessandro Broggi (Tic, 2024) vi è un’apertura al cambiamento grazie alla pronuncia del che elimina ogni tipo di autoreferenzialità e la generazione del conflitto

 

Da cosa ripartire, per una rubrica che si intitola “Forme del conflitto” e che dei conflitti esistenti non può che essere un pallido e contorto riflesso? Senza dubbio da (Tic, 2024) di Alessandro Broggi, già presente in questo spazio in occasione della pubblicazione del volume precedente, Noi (Tic, 2021), e soprattutto firmatario di un nuovo libro nel quale il conflitto viene citato e apparentemente avversato e negato per almeno due volte.

«È possibile solo dire sì, il no non è più concepibile: tutto ciò che non accolgo provoca divisioni e qualsiasi separatezza genera di per sé conflitto» (p. 59) e ancora: «Se posso dire una cosa, ma con gioia, è meglio. Se c’è dolore, non lascio che si converta in tensione. Non c’è conflitto, non c’è paura» (p. 77). In un testo in cui «[è] possibile solo dire sì» (p. 59), come ribadisce il titolo generale dell’opera, questo sembra preludere a un’apertura radicale – per quanto non necessariamente mistica – oppure a un’accettazione, in senso nietzscheano, del male: entrambe le vie, in ogni caso, escluderebbero o anche trascenderebbero le spinte conflittuali dell’esistenza materiale.

Tuttavia, prima di individuare nel testo un’impronta assertiva, che si esplicherebbe sul piano psicanalitico/ideologico – fossimo negli anni Sessanta o Settanta… – come un “rifiuto del conflitto”, occorre ricordare, citando dalla nota finale al libro, come , «analogamente alla pubblicazione che lo precede», e cioè a Noi, «[sia] prevalentemente costruito come un mosaico di tessere derivate, mai segnalate nel corpo del testo: vi è fatto cioè largo ricorso a strategie di reimpiego e ricontestualizzazione, attingendo a modalità costruttive e sfruttando risorse verbali – per lo più sintagmi ma anche frasi, riprese letteralmente o variate – prelevate da fonti disparate» (p. 119). Come evidenziato anche dalla ripresa dei personaggi “segnaposto” di Noi – privi, anche qui, di particolari sviluppi psicologici o narrativi –  ciò che interessa è la costruzione di una struttura macro-testuale, già analizzata nelle sue specificità da Gian Luca Picconi a proposito del libro precedente: ne deriva un’immagine complessiva dell’opera che non può ridursi ai confini di un posizionamento autoriale unico e monolitico, ma che si rifrange nei materiali testuali utilizzati fino a farsi caleidoscopio.

 

«È possibile solo dire sì,
il no non è più concepibile: tutto ciò che non accolgo
provoca divisioni e qualsiasi separatezza genera di per sé conflitto»

 

Kalí-doscopio, se si vuole recuperare con un (disdicevole) gioco di parole, il sostrato di filosofie e pratiche perlopiù provenienti dal Sudest asiatico che affiora, ad esempio, tra gli eserghi della prima sezione, dove compaiono i Veda, il Vigyan Bhairav Tantra e una «frase ascoltata a un satsang». Per contro, le epigrafi di natura strettamente letteraria o poetica sono ridotte ai minimi termini: se dunque le citazioni sono piuttosto numerose, sulle soglie delle quattro sezioni del libro, ciò non accade per una qualche necessità di rapporto con il canone, bensì per metterne ironicamente in discussione la costituzione (innegabilmente eurocentrica e positivista), e soprattutto per ribadirne la funzionalità nella costruzione, che fa dell’intertestualità quasi un’iperbole, del testo.

Non c’è nemmeno orientalismo, in questo senso, né un misticismo di marca new age, benché alcuni riferimenti espliciti e anche alcuni passaggi del libro – per citarne un paio, «Quello che credi, crei…» (p. 21) e anche «[…] qualunque cosa pensi prima o poi si avvera, perché modelli la realtà in base alle tue aspirazioni» (p. 64) – possano indurne il sospetto. Se si parte dagli esempi riportati, ci si può infatti chiedere se non ci si stia imbattendo in quella vena di creazione/realizzazione del sé, vagamente autoimprenditoriale, che permea tanto di quello che – oggi, dopo decenni di confronto, anche sprezzante – si può definire per estrema semplificazione new age. Ma è un’altra direzione quella intrapresa da : lo si può intuire, tra i tanti possibili appigli, dalla sottosezione “Attività” della prima parte, con un intreccio senza soluzione di continuità tra otia e negotia che, se non affronta il lavoro entro una dialettica spiccatamente materialista con il capitale, di certo non celebra acriticamente né l’uno né l’altro polo. Oppure, dicendolo in un altro modo, di Kalì – che, di fatto, nulla c’entra, a livello testuale – il libro non porta l’accezione distruttiva, ma quella ricostruttiva, di divinità del cambiamento (come accade con tanti altri rinvenimenti etnoantropologici, erroneamente interpretati come variamente catastrofici, apocalittici, etc., a partire da basi positiviste eurocentriche).

Il cambiamento è apertura, qui, e di una marca apertamente relazionale, come rileva Mariangela Guatteri in questa calzante e incalzante lettura video e lettera all’autore: «Sarà questo », chiede Guatteri, «un attrezzo efficace per scalzare i modi e i toni di una autoreferenzialità dopo tutto impaurita, che asciuga ogni sorgente relazionale?» La risposta sta nel titolo, ed è dunque positiva, come emerge ad esempio nella seconda sottosezione della prima parte, “Comunicazione”, dove si legge: «Essere consapevoli dovrebbe invece significare essere la stessa consapevolezza, e perciò, come individuo, sparire» (p. 79), togliendo «la biografia, il personaggio, questa storiella della mia identità» – già identificata in precedenza con la «separatezza» generatrice di conflitto (p. 59) – a favore di un piano «impersonale», se non anche transindividuale.

 

«Sarà questo », chiede Guatteri,
«un attrezzo efficace per scalzare i modi e i toni
di una autoreferenzialità dopo tutto impaurita, che asciuga ogni sorgente relazionale?»

 

Su un altro piano del dibattito filosofico, quello che si affronta è il problema della monade, intrinseco alla storia della lirica moderna, come ha osservato Guido Mazzoni in Sulla poesia moderna (2005; On Modern Poetry, 2022). Non è dunque accidentale che in “Attività” compaia un tu per certi versi assimilabile al tu lirico – benché sempre cangiante: sia maschile che femminile, e oggetto di continui accostamenti agli otia e negotia più disparati – e che con questo pronome di seconda persona singolare inizino ad affiorare, sul piano formale, alcuni fonosimbolismi insistiti (come questa allitterazione, già nelle pagine precedenti: «[…] plasmi, postuli, promuovi, moduli, destini. Assumi i tuoi apprendimenti e dispieghi i tuoi accumuli», etc., p. 13) e, sul piano tematico, ed esistenziale, l’ombra della morte («Ti sei soffocata con un boccone in un’anguriera, procurata un ascesso al fegato o un enfisema su una petroliera. Soffri di un’affezione sconosciuta, sei cianotica, esanime», etc., p. 33). Sembra esserci un intento che non è né programmaticamente antilirico, né votato alla decostruzione radicale della lirica o post-lirica, ma che si pone già al di là di questo orizzonte: se, come si legge nelle pagine finali, «[…] l’esperienza che hanno del mondo è il mondo di cui hanno esperienza» (p. 115) – dove il soggetto sottinteso rivela, appunto, le qualità della monade – ciò significa che tale proliferazione di monadi è inevitabile, ma che al tempo stesso la sua formulazione contiene in sé la possibilità di un’interpretazione diversa, inerente all’apertura trascendentale e tragica di cui si tornerà ad accennare a breve.

Tornando infatti al piano impersonale come transindividuale, in seguito si trova anche questo passaggio: «Ciascuno è tutti, tutti sono ognuno e tutti sono me, lo specchio non raccoglie polvere» (p. 89), con un consistente détour rispetto all’ormai noto «Ho scritto un testo che non tende a nulla. Vuole solo esserci, come tutti» della Pura superficie (2017) di Guido Mazzoni; pur senza tendere verso alcunché, e senza raccogliere polvere sulla superficie dello specchio – anzi, nuovamente agendo in una chiave diversa il discorso di Mazzoni sulla monade, o le monadi, che pullulano nella poesia moderna – il testo di Broggi non rimane sulla “pura superficie”, né si accolla gli esiti vagamente nichilisti di un determinato approccio materialista ai rapporti umani.

In fondo, una delle questioni fondamentali di sembra essere la «disposizione di fronte alla realtà delle cose» (p. 11), con un sostanziale ampliamento degli orizzonti rispetto alla rielaborazione delle coordinate di tempo e spazio, rintracciata anche da Picconi in Noi. Nei due libri di Broggi, in effetti, non vi è un’impronta puramente fenomenologica, o anche fenomenologico-marxista: ad essere continuamente proposto è un esercizio di apertura, che non è solo relazionale ma trascendentale, nel quale si corre spesso il rischio di incappare nell’apertura, intimamente tragica, di vere e proprie voragini. Lo segnalano i frequenti interrogativi ex abrupto che riguardano i vari personaggi, ma rimbalzano anche verso chi legge, come ad esempio nel passaggio fulminante di un testo verso la fine del libro: «Vita, mondo… “Come vivo?”» (p. 105).

Domanda che acquisisce tonalità paradossali, e paradossalmente ancora più tragiche, in un’opera che si presenta anche, nelle parole di Lorenzo Cardilli, come «manuale per il depensamento del soggetto». È in effetti nel medesimo testo – o meglio, nel medesimo blocco testuale, trattandosi sempre di «mosaici di tessere derivate» – che si torna sulle questioni appena citate:

Più la mia mente crea immagini e le applica alla realtà e più naturalmente vi rimane aggrappata: concepisce pensieri di attaccamento e dirige l’energia, che quindi non è più libera di andare dove deve per produrre risonanza. La mia visione del mondo è in effetti l’ostacolo più grande al libero fluire dell’energia: quando considero come vera in sé una forma della mente si originano sofferenza e infelicità, perché la realtà, che è in perenne mutamento, sfugge al controllo delle forme (p. 17).

E un’altra questione centrale in sembra essere appunto quella della forma, anzi delle “forme”, con un plurale che manifesta la possibile derivazione da una tradizione critica, in questo caso, non di rado di marca marxista. La realtà in continua trasformazione sembra sfuggire alla loro presa, rafforzando così il peso delle varie entità monadiche nelle loro infinite definizioni della realtà. Definizioni che però non sono mai autoconchiuse, pena la perdita dell’apertura relazionale di cui sopra; sono anzi immerse in un ciclo continuo di aggregazione e disaggregazione: «[…] anche con il solo movimento sei il facitore di una forma, percepisci questa forma che si genera, arriva a un culmine e poi si disgrega» (p. 21). Sono forme che non sottostanno ad alcun controllo individuale («Non sei tu che la produci, sei tu che semplicemente la permetti», p. 21), come anche da una prospettiva marxista, dove le forme non sono esclusivamente riconducibili alla singola sfera autoriale; se «sei lo spazio che permette alla vita di scorrere» (p. 21), tale corso e decorso non si aggiusta, per questo, ai vincoli della vita. Con la morte, infatti, si interrompe il corso delle vite individuali, ma, come si legge molto più avanti: «Intendete con me, tutto finisce ma questo che scrivo va avanti» (p. 97).

Non si tratta del mito oraziano dell’aere perennius, dell’immortalità della poesia: se la scrittura va avanti e attraversa un ciclo senza fine delle forme, ciò può accadere finché la scrittura mantiene e comunica «la felicità di lasciare tutto allo stato di apparizione» (p. 98), e senza che questo sia epifania, dove «gli affioramenti non si distinguono dalle dissolvenze» (p. 60).

Nella dialettica tra la scrittura e le forme – altrove trascurata, anche e soprattutto dove si postula il “tutto è testo”, “tutto è linguaggio” – si può abitare, con estrema leggerezza, nello «spazio che permette alla vita di scorrere» e divertirsi: «E ora divertiti a vivere in un mondo non descritto…» (p. 65). Il richiamo intertestuale, eventualmente anche antifrastico, potrebbe essere alla Descrizione del mondo, progetto intermediale curato qualche anno fa da Andrea Inglese; ciò che più importa, però, è che questo divertimento è anche divergenza, o détour, da un più generale “mondo” in cui gli «affioramenti» e le «dissolvenze» non hanno forse qualità epifaniche, ma sono certamente piccoli cortocircuiti (a-dialettici, ma derivanti da una dialettica, e dunque da un certo recupero del conflitto, in ultima istanza), come si legge nelle righe prefinali: «Un cortocircuito, per cui ogni cosa sembra riconoscersi e può soltanto essere vissuta, nessuna parola essendo reale… Tutto questo; stella che fila su stella» (p. 117).

Una stella filante che si sovrappone alla stella danzante più chiaramente nietzscheana, con tutta la levità dell’attitudine e la potenza del testo che è .

 

 

TRENTASETTE

.   Giurata, cenciaiola, maggiorente, benzinaia. Critica televisiva, guardarobiera, nutrizionista, palleggiatrice. Specialista in sound-design e meteorologia delle eclissi, shibari, scienze di frontiera e post-capitalismo, guardia campestre, banditrice, piazzista, badessa, lessicografa, caramellaia, ti dai alla mendicità quando non all’indigenza. Spasimi, balzelli, subsidenze, linimenti…
.   Hai discusso di pacchetti retributivi, benefit e policy aziendali, definito flussi di cassa e piani pluriennali, presentato molteplici candidature. Ti ci sei applicata con accortezza, con abile pazienza… “Si è rivolta a questo, si è industriata in quello, ha impiegato la sua sagacia amministrativa nella difesa della propria liquidità, per diversi anni registrando guadagni consistenti”; prende il via per te un certo incremento economico, di quanto mandi a segno ti dà piena ragione la logica delle tue operazioni…
Tanto meglio brindare, bere socialmente…

 

QUATTRO

.   Dinamiche di eventi, lo spazio conosciuto, il vento dei secoli… passaggi stagionali, la polvere in un bosco. Senza aspettative su come le cose debbano o non debbano andare, su come debba o non debba svolgersi l’esistenza, effetti diversi potendo a buon diritto derivare dalla stessa causa e lo stesso effetto da cause differenti… “Ha attraversato una via, poi un’altra”… «Le case qui sono sparpagliate senza alcun ordine e le strade costituite semplicemente dal ripetersi del transito, lungo percorsi che una volta consolidati non hanno precluso lo sviluppo di nuove abitazioni. Gli alberi sporgono sull’acqua e fanno ombra alle sponde, il canale scorre fra le murature e i fiori sono rossi». Oggi pomeriggio in fondo alle alzaie, equanimemente interpellato da scorci ghiaiosi e circondari balconati, bordeggiando i saliscendi con i campi che si allungano dietro le costruzioni oppure dove abita lei – la rampa, l’impiantito, l’allegria, la sua faccia –, in che modo ti sorprende ora la vita, Maurizio?

 

 


Forme del conflitto sono già state rintracciate in:

Noi di Alessandro Broggi

Sogni e risvegli di Fabrizio Bajec

Il divieto di accorgersi di Elisa Donzelli (documento apparso su Le Parole e Le Cose)

Movimento e stasi di Massimo Palma

Anatema di Rosaria Lo Russo

Il mare a Pietralata di Claudio Orlandi

Nella spirale (Stagioni di una catastrofe) di Gianluca D’Andrea

Pietra da taglio di Anna Franceschini e Lacrime di Babirussa di Riccardo Innocenti

Waves di Vincenzo Bagnoli e Eleanor di Alessandra Cava

Per far vivere altro cadiamo di Marco Carretta (scritto di Matteo Cristiano)

Lottare per le idee di Giuseppe Muraca

Togliattə di Mariano Correnti e Liricologismo di Marzia D’Amico

Non sappiamo come continuare di Demetrio Marra