Forme del conflitto ⥀ “Waves” di Vincenzo Bagnoli e “Eleanor” di Alessandra Cava

Poesia, musica e transmedialità nell’inconsueta forma di due opere: Waves di Vincenzo Bagnoli e Eleanor di Alessandra Cava

 


 

Se le precedenti Forme del conflitto si interessavano ai diversi “generi” – pun intended – della poesia, a partire da libri come Pietre da taglio di Anna Franceschini e Lacrime di Babirussa di Riccardo Innocenti, questo contributo parte invece dall’interrogazione della forma-libro. Per certi versi desueta, per altri aspetti resistente, è la forma che, nonostante tutto, accomuna due opere nel complesso assai difformi come Waves (Industria e Letteratura, 2022) di Vincenzo Bagnoli e Eleanor (Howphelia, 2022) di Alessandra Cava – immerse come sono in una relazione dialettica, rispettivamente, con l’intreccio tra poesia e musica e la sperimentazione transmediale.

Partendo dal libro di Vincenzo Bagnoli, accompagnato da un cd con musiche di Nicola Bagnoli e Marzio “Mars” Manni, sembra da subito chiaro l’intento decostruttivo e ricostruttivo rispetto al più tradizionale connubio tra poesia e musica – qualcosa che Marco Berisso sembra indicare, tra le righe, alla fine della sua molto puntuale e partecipata postfazione: «mi pare allora, e infine, particolarmente irresistibile leggere Waves come un equivalente di quel “raccoglitore”, un raccoglitore in cui Bagnoli ha ordinato, tramite le sue poesie, l’album dei “ricordi” che ci appartengono, per permettere loro finalmente di andarsene e liberarci della loro presenza, formativa, affascinante, persino tenera, ma che tante volte ha legato il nostro presente e con cui forse dobbiamo finalmente fare i conti» (p. 131).

Una playlist, si potrebbe dire, degli anni Ottanta, con un’attenzione specifica al versante post-punk; su questo punto, non è difficile riandare subito, nella memoria, a un libro di quindici anni fa come Neon 80 (Zona, 2008) di Lidia Riviello – autrice, peraltro, che Bagnoli conosce bene e con la quale condivide la necessità di riandare all’«Annoottantaoartificiodipolverepunk»

Tuttavia, non si tratta semplicemente di una playlist di “grandi pezzi del passato”, virata in chiave esclusivamente radiofonica o nostalgica; quando la scansione s’interrompe, ad esempio, si spalanca un abisso: «Del tempo è passato, la playlist sembra ormai giunta al termine: si sentono / note a calare come alla fine di Enola Gay, Atmosphere o Christine / la musica dei titoli di coda, il video che finisce, Fade to Black. // La stanza è nuovamente silenziosa: l’uomo continua a restare fermo» (p. 102). Quella di Bagnoli, più specificamente, è “una playlist in atto” – per cogliere, così, un’altra suggestione di Berisso, quando scrive che Bagnoli è «unico erede effettivo di un’esperienza letteraria rimasta per certi aspetti (e un po’ inspiegabilmente, ritengo) laterale nella vicenda contemporanea, quella di Roberto Roversi (penso qui soprattutto alle Descrizioni in atto, ma non solo)» (p. 119).

In realtà, l’unicità di questa eredità potrebbe essere ulteriormente discussa, poiché il lascito di Roberto Roversi, pensando alla tradizione poetica successiva (e non solo a quella bolognese, di origine o di adozione), si è rivelato, nel tempo, pluriforme oggetto di contesa; al tempo stesso, però, si tratta di un autore oramai passato in sordina nel dibattito culturale, se si pensa alle recenti e presenti occasioni di anniversario poco o nulla onorate – fatta eccezione per uno sparuto drappello “resistente”, all’interno del quale non si possono non citare, en passant, le frequenti pubblicazioni della casa editrice Pendragon.

Al di là di questo paradosso, è comunque con indefettibile precisione che Berisso individua l’ascendente roversiano nella poesia di Bagnoli: al montaggio e alla conseguente “deflagrazione dei discorsi” delle Descrizioni in atto roversiane fa da contrappunto, in Waves, la campionatura testuale (diretta e indiretta, attraverso traduzione e/o manipolazione) e il “ri-canto” (con il riuso della metrica originale) adottati da Bagnoli nei suoi testi. Per aggiornamento dell’episteme, poi, i discorsi appaiono già del tutto disgregati, ma sussiste ancora la possibilità residua, e resistente, di cantarli.

Oggetto di contestazione avanguardistica e neoavanguardistica – uno degli attacchi frontali più poderosi e articolati si trova in un recente saggio di Alessandro De Francesco, passato forse lievemente inavvertito nel dibattito italiano, anche per la sua originale pubblicazione in Francia, come Pour une théorie non-dualiste de la poésie (1960-1989) (éd. MIX/Les Presses du Réél, 2021) – il canto resta, a tutti gli effetti, uno dei tanti modi possibili di avvicinarsi alla poesia. Bagnoli declina questa cantabilità in termini di rielaborazione della tradizione metrica italiana, soprattutto del sonetto (e, a questo proposito, non è un caso che uno dei poeti ringraziati in calce al libro sia Gabriele Frasca), ma anche di affinità – a più livelli, non soltanto per la somiglianza nell’occasione poetica – con un libro fondamentale della fine degli anni Novanta come Elegia sanremese (Bompiani, 1998) di Tommaso Ottonieri.

A tal proposito, non sembra poi così sghemba la proposta di un ponte che vada dalla prefazione al libro di Ottonieri firmata, all’epoca, da Manlio Sgalambro – «Il testo di canzone è poesia decaduta. Ma la poesia gli deve la sua attuale popolarità. Un’estetica che non ha nulla da perdere – una estetica che ha da perdere non interessa affatto – scorge nel testo di canzone nefando e scurrile, oppure levigato a mano come certi tenui marmi, ciò che dopo La terra desolata può passare per sonorità verbale di buona lega. Consummatum est: la poesia non vale niente» – fino a quanto scrive Luca Frazzi, redattore della rivista musicale “Rumore”, nella Presentazione di Waves: «Le parole di Vincenzo Bagnoli sono antiche, scritte oggi ma pensate 40 anni fa, così desuete da suonare nuove, le note minime di Nicola Bagnoli e Marzio Manni sono il richiamo a quell’ossessiva ricerca del ‘nuovo’ che nascondeva una paura di cambiare» (pp. 8-9, corsivo aggiunto).

Fine della poesia, nuovismo e, allo stesso tempo, paura di cambiare – su un altro livello, la cantabilità che sta all’intersezione tra poesia e musica, contaminandole reciprocamente e senza farsi né orizzonte unico né soluzione definitiva, è compimento della profezia dell’estinzione della poesia, ma anche motivo per un suo potenziale rinnovamento.

C’è dunque, si potrebbe dire, un continuo “crederci” e “non crederci”, in sintonia anche con l’affresco più generale degli anni Ottanta, da tenere con sé e insieme lasciar andare: una valutazione che percorre tutto il libro, e non è né generazionale né intimista, ma nell’understatement continuo (amplificato, poi, dagli apparati paratestuali, la cui citazione si è qui privilegiata rispetto ai testi, esemplificati, invece, in calce) coglie l’importanza di una «zona mediana tra la macchina fotografica e il diario del viaggiatore» (p. 119) – andando oltre la lirica, si potrebbe dire, e oltre il lirico connubio tra poesia e musica, a partire da un posizionamento che, invece, più lirico di così non si può.

Se Waves riafferma e al tempo stesso scardina dall’interno le caratteristiche dell’opera “libro più cd”, Eleanor di Alessandra Cava – così come tutte le altre produzioni di Howphelia, da alcuni anni a questa parte – nasce come produzione transmediale nella quale il supporto materiale e cartaceo del libro è soltanto una fra le tante componenti. Allo stesso modo, l’animale che si agita fra le righe e le immagini dell’opera di Cava è trans-specie: se ne abbiamo una descrizione piuttosto scarna, quasi giornalistica, nella didascalia alla grafica di Ophelia Borghesan che chiude la prima sezione, “specchio riflesso! (o l’invenzione dell’acqua)” – «Avvistata nelle fogne di Parigi, una giovane femmina di coccodrillo viene catturata e trasferita in un acquario. Le viene dato un nome, Eleanor» (p. 29) – questa fa nondimeno riferimento a una delle più classiche leggende metropolitane occidentali, riferita alla presenza di alligatori nei sistemi fognari della città. (Del resto, come si legge a p. 79: «ha fatto incursione nel bosco le notti d’estate, la storia ha suscitato dicerie e leggende», e poi anche a p. 80: «se la storia ha suscitato dicerie e leggende, la finzione ha superato la realtà»).

Accertare il referente è, dunque, un’operazione ai limiti dell’impossibile, nel caso di Eleanor – opera intitolata a quella precisa femmina di coccodrillo, Eleanor (rispetto alla quale molti siti internet riportano la sua destinazione all’acquario di Vannes) ma anche a una notizia che, con ogni probabilità, oggi ricadrebbe nel calderone delle cosiddette “fake news” (per quanto, paradossalmente, sembri trattarsi di storia acclarata). Guardando a un possibile paratesto – cosa che la forma-libro non permette, in questo caso, evitando la consuetudine della nota bio-bibliografica dell’autrice, rintracciabile anche sul sito di Howphelia – si è posti davanti anche a una complicazione ulteriore: anche Alessandra Cava è nata nel 1984; in virtù della frequente oscillazione pronominale, o dell’assenza di pronomi (si veda ad esempio: «questo è un luogo dove ha trascorso diciannove, quattro, tre, trentasei anni, avrebbe potuto approfittare dei raggi del sole», p. 20), non si riesce a capire a chi o cosa si riferisca la narrazione, che non è mai compiutamente né giornalistica, né letteraria, né autobiografica; che Eleanor sia un “salto di specie”?

Eleanor forse no, Eleanor certamente sì. Lo è, innanzitutto, per la qualità transmediale dell’opera, che include anche una serie di video sul canale di Howphelia, fruibili dietro un abbonamento che include anche il libro cartaceo: la sperimentazione sulla lingua, che è già stata rapidamente presentata a campione attraverso alcuni lacerti, e sui testi (prodotti di un doppio montaggio, trattandosi di unità testuali che sono tanto objets trouvés quanto testi creati ex novo, poi montati tra loro nel susseguirsi delle pagine) viene così ad associarsi agli interventi sul flusso cinematografico delle immagini.

Da un lato frequentemente glitchate, dall’altro associate con un gusto che è ancora, pur se in minima parte, spettacolarizzante, propongono una irruzione di Eleanor/Eleanor in quello che, in background, sembra un continuum antropico e post-antropico di luoghi di confinamento, rinviando ai tempi e ai modi dell’esistenza resi manifesti dal lockdown pandemico degli ultimi anni; lo stesso periodo nel quale, non a caso, e per contrasto, sembra che Eleanor sia morta, non riuscendo a sopravvivere alla sua messa in libertà.

Il problema, in questo caso, non è soltanto il filtro oculare: «le membrane nittitanti si muovono orizzontalmente sopra al bulbo oculare: il filtro è azzurro, a volte giallo» (p. 37). La questione risiede anche nella tenuta del récit, se si passa da una didascalia come quella apposta alla creazione grafica di Ophelia Borghesan in chiusura della seconda sezione – «Una scenografia riproduce il luogo in cui è stata trovata: ai fini dell’esposizione vengono sollevate intorno a lei una stanza e un racconto» (p. 57) – a quella finale, dove il racconto si inceppa, la storia non c’è più, ma «non si può negare che sia stato praticato un intreccio» (p. 119), secondo una pratica di montaggio e ancor più, in questo caso, di un intervento di tipo eminentemente transmediale, che solleva questi problemi, senza tuttavia risolverli.

Non si tratta più, allora, come spesso si è fatto, di citare o scrivere ecfrasi di altre arti; esemplare a questo proposito un frammento: «nella fotografia è in un angolo, tutto intorno è allestimento per chilometri» (p. 45) dove viene applicata alla fotografia – come già, peraltro, in Posti a sedere (Valigie rosse, 2019) di Luciano Mazziotta – l’ironico, a tratti umoristico, e sicuramente altrettanto decostruttivo e ricostruttivo, movimento che, già negli anni Ottanta, Corrado Costa aveva applicato al cinema con The Complete Films. Inoltre, l’avvento del glitch ha esposto alla critica e all’elaborazione creativa il suo opposto speculare, il ritocco (sia esso della parola o dell’immagine): «non se n’è mai andata, è stata poi ritoccata, incredibile ma vera, durante le scene notturne per migliorare l’illusione» (p. 49). Le arti visive non sono più convocate, dunque, in qualità di “contorno” o di “approfondimento”, secondo la tradizionale concezione umanistica del rapporto inter artes (concezione cui la poesia ha spesso contribuito, nella sua storia canonica), ma sono coinvolte in una dialettica che risulta di per sé trasformativa.

Saper vedere la forma-libro entro i confini di questa dialettica, e non al di sopra o al di sotto, quale montaggio che inevitabilmente conduce verso altri luoghi e altre pratiche, è la scommessa che opere come quelle di Vincenzo Bagnoli e Alessandra Cava pongono per l’immediato futuro – pur essendo, di fatto, già qui, nel nostro recente passato e nel presente.

 

 

X LAMA (24 HOURS)

per Gilberto Centi

 

Ancora un giorno infame come gli altri di eternit, di ruggine e carbone
di polvere e fuliggine, di ghisa, di limatura di ferro e di asfalto.
Dicembre volta l’angolo in fretta e l’anno nuovo ci salta alla gola:
la quieta maestà del clima freddo è rotta dalla rabbia dell’industria.
Le nude travature del commercio, le crude verità del capitale
le trovi al tatto, in fondo alla notte, le ore più buie che durano a lungo.
E poi la morte bianca del risveglio nel grigio della cenere del tempo,
e del futuro andato già in fumo in tutte queste fabbriche del nulla,
fame meccanica che scava dentro le nostre budella l’annientamento.
E in questa nebbia gotica la storia è un incubo davvero senza fine
mentre nuotiamo nel mare di stelle della galassia perdendo nel vuoto
per sempre tutti gli atomi leggeri scomparsi in fondo agli angoli del cielo
nel vuoto del big rip, dell’entropia.

 

ALLA SIGNORINA DF (SEMISONETTO DARKEST FEELINGS)

Questo è il tempo che ameresti odiare:
day in and day out in bianco e nero,
le troppe strade chiuse del pensiero,
la buia danza del prendere e dare.

Quest’è la vita nuova, l’ora oscura
che allarga le sue braccia a tutto il giorno;
è la felicità della paura
con cura dispiegata tutt’attorno.

Questo sarà il tuo triste festino
di docile animale mansueto,
la sensazione facile usa e getta:
mangia, lavora, consuma in fretta,
vivi nascosta dentro al tuo segreto,
balla le buie danze del mattino

 

(da V. Bagnoli, Waves)

 

 

[…]

 

alzandosi da tavola ogni minuto,
correva alla finestra per scappare nel parco se la
porta era aperta

 

è possibile il ringiovanimento delle piante
invecchiate

 

se no, osservare almeno attraverso le
finestre

 

tale era l’influenza di questi boschi e
colline, di cui non poteva saziare la vista

 

[…]

 

(da A. Cava, Eleanor)

 


Forme del conflitto sono già state rintracciate in:

Noi di Alessandro Broggi

Sogni e risvegli di Fabrizio Bajec

Il divieto di accorgersi di Elisa Donzelli (documento apparso su Le Parole e Le Cose)

Movimento e stasi di Massimo Palma

Anatema di Rosaria Lo Russo

Il mare a Pietralata di Claudio Orlandi

Nella spirale (Stagioni di una catastrofe) di Gianluca D’Andrea

Pietra da taglio di Anna Franceschini e Lacrime di Babirussa di Riccardo Innocenti