Forme del conflitto ⥀ “Anatema” di Rosaria Lo Russo
Riparte la rubrica Forme del conflitto, a cura di Lorenzo Mari, che oggi si occupa di approfondire i temi portanti della raccolta poetica Anatema di Rosaria Lo Russo (Effigie edizioni, 2021)
Recentemente ricordata per la pubblicazione di Rosso epistassi (2008), unico titolo non Einaudi della maturità di Ivano Ferrari (1948-2022) – qui un ricordo dell’autore mantovano scritto da Jonny Costantino –, la casa editrice Effigie pubblica poesia da molti anni, come attività che rimane forse in sordina ma dalla qualità certamente resistente. Annovera, infatti, titoli molto importanti per chi scrive, e non solo, sia di poesia italiana, come Lettere nere (2013) di Andrea Raos, sia di poesia straniera, come Le nature indivisibili di Claude Royet-Journod (2016, traduzione di Domenico Brancale, libro cui è intitolata la rivista online ideata e coordinata da Mauro Leone) o anche le Poesie di Christine Lavant, recentemente riedite dalla casa editrice Ibis, nella collana Finis Terrae, sempre per mano di Anna Ruchat. Il raccordo sembra opportuno per arrivare ai titoli più recenti di poesia italiana, in una rosa ristretta che, insieme a Massimo Rizzante, Andrea Gibellini, Paolo Cosci o Paola Turroni, annovera sin dall’esordio Rosaria Lo Russo. Dopo Lo dittatore amore. Melologhi (2004) e Nel nosocomio (2016), Lo Russo ha pubblicato con Effigie un terzo titolo, Anatema (2021), un testo che, a dodici mesi di distanza, sembra essere in molti casi passato in sordina – o almeno, non allo stesso livello di riconoscimento di recentissime pubblicazioni dell’autrice, come rina (Battello stampatore, 2021) e Unamedea (Premio Ciampi per la poesia 2021; Valigie Rosse, 2022) – ma che non per questo, come l’attività dell’intera casa editrice, perde in resistenza.
Del resto, è lanciato dal margine (più precisamente: «dall’isolamento / dall’emarginazione», p. 9) l’anatema di Lo Russo, e non può essere, quindi, accolto tiepidamente al centro di un dibattito letterario che sembra essere sempre più rassicurato e rassicurante, consolato e consolante, nel suo operare. Per tutta risposta, l’anatema parte dal polo opposto del “non fare” e dal “non potere” – espressione, quest’ultima, che ricorre più volte nel libro, diventandone una sorta di emblema e ricordando, mutatis mutandis, lo stesso titolo scelto da Davide Nota per la sua auto-antologia 2002-2013 – e si pone innanzitutto l’obiettivo, senza alcuna volontà prettamente offensiva, di cambiare di segno alla poesia, riconsegnandola ad una forma che le sia peculiare: «non faccio // non officio / non offendo / non sottolineo» (p. 8). Ancora più significativa, in questo senso, è una parte della storia culturale dell’anatema, così com’è recuperata a p. 81: «(Nelle formule di giuramento designa la maledizione che si rivolge a sé stessi nel caso si fosse spergiuri)».
In primo luogo, dunque, si tratta di un monito per sé, e soltanto in seconda battuta invettiva contro gli altri e le altre che spergiurano, come ad esempio la poeta della sezione omonima, “Poeta, s.m.f.”: «Ave, poeta, piena di gioia / avvocata nostra di impegno civile e umana empatia / ammantata di vacua eloquenza e umana semplicità» (p. 88), etc. Di conseguenza, la ricerca di un’autenticità e coerenza del dire si esplica su un piano che è più formale che morale, grazie a una scrittura spesso asciugata in una direzione più classicheggiante che non performativa, eppure compiutamente funzionale al melologo: qui, la poesia di Lo Russo procede spesso per versicoli per poi protrarsi, o esplodere, in versi più lunghi (comunque altrettanto misurati, sul piano metrico-ritmico), creando dodici sezioni che sono altrettanti momenti dell’Anatema del titolo, oltre a quello già citato.
Ancora nella decima sezione (“Affàcciati qui”), infatti, si danno altre definizioni e descrizioni dell’anatema: «A. / per i greci: offerta votiva al dio / A. / per i cristiani: maledizione, eresia contro dio / scomunica contro gli eretici». Non si tratta, dunque, di una semplice polisemia, ma della scoperta, ogni volta nuova (e intimamente affine alla poiesis, al suo stravolgimento del linguaggio ordinario), che, in fondo, «ogni cosa è due cose» (p. 95) e ancora che «ogni cosa si rovescia nel suo contrario» (p. 96), come evidenzia la successiva contrapposizione tra l’anatema come ex voto e l’anatema come bottino di guerra, da distruggere e sacrificare, nel Vecchio Testamento.
Del resto, si potrebbe dire: l’anatema non è tema, e non se ne possono quindi squadernare semplicemente le varie possibilità semantiche per giungere a una qualche costruzione allegorica di fondo, intrinsecamente consolante. La scrittura per la voce di Lo Russo rifugge dalle costrizioni e dai paletti di una sola costruzione discorsiva, rincorrendo, invece, «parvenze acusmatiche» e, di più, fantasmatiche, come si legge nella quarta di copertina firmata da Vito Bonito. In questo modo, i versi ridiventano versi già dal rigo successivo al già citato «ogni cosa è due cose»: «raglio ma non sbaglio!» (p. 95) è l’intromissione non solo della dimensione animale, ma anche dell’asino che la tradizione del disciplinamento scolastico, vetero-umanistico e logocentrico, contrappone erroneamente al maestro, o alla maestra.
Anche alle cattive, ai cattivi maestri: a questo proposito, Anatema si configura anche come il resoconto di un’educazione sentimentale, tanto politica quanto amorosa, dentro e oltre gli anni Settanta: «Noi eravamo femministe / noi eravamo i fricchettoni / erano gli anni settanta / e stavano per finire / anzitempo» (p. 51). A questo proposito, si potrebbe aprire una lunga parentesi sulla qualità politica di un testo che, in superficie autobiografico, non è mai ombelicale ed è anzi una sorta di “autobiografia collettiva”, lunga almeno tre decenni, segnalando un’ampiezza di sguardo che fa impallidire certi accenni alla poesia recente come priva di appigli alla storia e alla memoria, già raccontati qui.
Per dirne una, nella nota al testo appaiono due pilastri della storia femminista rapidamente evocata anche qui sopra. Si tratta di Teresa di Lisieux – Storia di un’anima (1898) è stata portata in scena da Rosaria Lo Russo nel 2012, in uno spettacolo dal quale sono tratte anche le fotografie che fungono da intermezzo tra sezione e sezione – e Valerie Solanas – autrice, settant’anni più tardi, di un testo fondamentale del femminismo del secondo Novecento, recentemente ripreso e ripubblicato, come il Manifesto SCUM (1968). Non sono, però, alfa e omega di alcunché: la riflessione di Lo Russo, sempre laica, su Teresa di Lisieux si sostanzia del continuo riferimento a «Valerie» – personaggio fondamentale dell’opera, insieme a «Francesca» e altri personaggi che si intuiscono, pur se non in modo definitivo né univoco, basati sulla vicenda autobiografica in senso stretto – e arriva comunque a una progressione finale (della quale si dà un assaggio con il testo riportato in calce, la sezione Non c’è amore che non sia tradito) che ha di nuovo, indiscutibilmente, la potenza, almeno acusmatica, della mistica.
I versi di Lo Russo, infatti, arrivano progressivamente alla consapevolezza che «il linguaggio poetico è il linguaggio degli uccelli» (p. 114) e, più precisamente, attraverso Sound and Sentiment (opera fondamentale di Steven Feld la cui prima edizione risale al 1982, ma che è stata pubblicata in traduzione italiana, grazie alla preziosa mediazione di Carlo Serra, soltanto nel 2009): «per il popolo kaluli / richiamo / non parola / non potere parola / non potere articolare / non potere poeta / sa yelema / cascata di suoni» (pp. 114-115).
Oltre a ritornare alle funzioni primarie del verso/verso – «Questi non sono versi / ma voci nella foresta» (p. 112) –, le qualità acusmatiche dell’anatema di Lo Russo si rivelano fin da subito come creazione di eco, ad esempio qui: «Non impettire / non indispettire / ire ire ire» (p. 10). L’eco diventa anche eco culturale, in un’ampia gamma che va dalle tracce di cultura popolare – «Poi gulp! è arrivato nick carter!» (p. 25) – ai Fiumi di Ungaretti: «unadocilefibradelluniverso / una_docile_fibra_dell_universo» (p. 35). Quella di Rosaria Lo Russo, del resto, è una poesia che – dai riferimenti al Vecchio Testamento fino all’onnipresente e all’onni-assente Lucio Battisti di Non è Francesca – tutto tritura e sconvolge, nel suo andamento poematico. Scrittura infine enciclopedica senza poter essere tacciata di enciclopedismo, perché distruttiva e ricostruttiva del mondo.
Come ogni anatema. Leggasi: poesia.
⥀
Non c’è amore che non sia tradito
nessun amore ha per sfondo il vuoto
abbracci il vuoto, tradisci l’amore
Lo sai chiaramente quando ti abbracci da sola
che abbracci per un vuoto
lo sai chiaramente ogni volta che abbracci
che stai tradendo l’amore per un vuoto
Il nostro cervello divide, è fatto così
divide tutto, tutto è due
è una divisione in due parti uguali
una dice sì l’altra dice no
una dice amore l’altra dice vuoto
Quella che dice piccolissimi amori reali
dice grandissimi tradimenti reali
quella che dice grandissimi vuoti reali
dice piccolissimi amori traditi
Io ho tradito l’amore molte volte
io sono stata tradita dall’amore molte volte
Una parte del cervello dice tuttoamore
una parte del cervello dice nullavuoto
una tutto lega una tutto scioglie
una tutta si scioglie una tutta si lega
Unointuttituttiinuno
dice san paolo
ai corinzi
Solo un cervello che pensa duetutto
può dire essere o nulla
ma se eviti di usare il cervello
tu sai con chiarezza che
tuttoamore
tuttovuoto
è diomadrepadre
che annulla il nulla
Tabù, ciò che non bisogna toccare
direfarebaciareletteratestamento
nel nostro meraviglioso spaziotempo
a fine secolo
per ragioni esclusivamente olfattive
questo e non altro è stata la mia
passione erotica
per *
E: l’incendio del giardino
incendio appiccato agli olivi
l’incubo olfattivo
E: abusi
violenze
stupri
senza tempo
senza fine
Un tempo tombale
non cantabile
Tuttavia la mia desinenza in -a
la mia persistenza
remissiva
al cantabile
rimise me in postura di
-a, ancora
allora
ma
Forme del conflitto sono già state rintracciate in:
Sogni e risvegli di Fabrizio Bajec
Il divieto di accorgersi di Elisa Donzelli (documento apparso su Le Parole e Le Cose)
Lorenzo Mari
Lorenzo Mari vive e lavora a Bologna. Ha pubblicato alcuni libri di poesia, tra i quali gli ultimi sono Querencia (Oèdipus, 2019) e la plaquette Tarsia/Coro (Zacinto, 2021). In prosa, ha pubblicato il racconto Via Mascarella alta e bassa (autoproduzioni Modo Infoshop, 2019) e ha ottenuto il XXXV Premio Teramo Giovani - Giacomo Debenedetti per il racconto Un percorso sicuro.
Traduce dallo spagnolo (Agustín García Calvo, Sonetti teologici, L'Arcolaio, 2019; César Vallejo, Trilce, Argolibri 2021) e dall'inglese (David Keenan, Memorial Device, Double Nickels, 2020, insieme a Matteo Camporesi).
Ha curato l'edizione italiana di ZURITA. Quattro poemi del poeta cileno Raúl Zurita (Valigie Rosse, 2020), nella traduzione di Alberto Masala.
Collabora con varie riviste online (Pulp Libri, Fata Morgana Web e Jacobin Italia).