Forme del conflitto ⥀ Michele Zaffarano
Analisi e commento critico delle ultime tre raccolte poetiche di Michele Zaffarano: Istruzioni politico-morali, Tre movimenti e una stasi, Poesie per giovani adulti
Nel contesto di questa rubrica, dedicare una breve nota di lettura agli ultimi libri di Michele Zaffarano – Istruzioni politico-morali (Diaforia, 2021) e Tre movimenti e una stasi (Tic, 2024), in particolare, senza dimenticare l’intermedio Poesie per giovani adulti (Scalpendi, 2022) – non significa soltanto rimarcare la qualità “politico-morale” citata esplicitamente in uno dei titoli. Tale qualità, del resto, è spesso ironicamente affrontata e destrutturata, se non anche ribaltata, nei libri di Zaffarano, specie nella sua componente retorica o ideologica – pur restando sempre entro il perimetro di un’operazione interpretabile, in termini generali, in chiave politica. Si tratta, allo stesso tempo, di provare a rintracciarne la correlazione con l’importante affondo critico di Gian Luca Picconi, contenuto nel suo ricordo di Alessandro Broggi, pubblicato a inizio anno su formavera, e già citato qui.
In quel frangente, Picconi ha affermato che «[i]n Sì […], come già nei libri precedenti, [Broggi] sceglie di problematizzare la questione dell’enunciazione in relazione a quella dell’autorialità [e ciò] è funzionale alla proiezione di simulacri di soggettività all’interno del testo»; riflessioni analoghe si possono rintracciare nell’importante volume di Picconi La cornice e il testo. Pragmatica della non assertività (Tic, 2020) rispetto a power pose (uscito per le edizioni del Verri nel 2017 e riproposto nel 2024 da déclic) di Zaffarano:
Trasformare la poesia in prassi, agire sulla sua forza illocutiva, significa intervenire sulle modalità con cui l’enunciazione veicola l’ideologia. Significa produrre ideologia attraverso le modalità di articolazione della soggettività all’interno del testo. Non c’è forza illocutiva senza una certa quantità di ideologia su cui far presa. L’ideologia allora non è il retroterra teorico del discorso, ma il modo in cui il contesto mette in relazione, attraverso rapporti di forza determinati, le singole differenti soggettività implicate nella comunicazione tramite l’enunciazione (Picconi 2020, p. 111).
Ora, negli ultimi libri di Zaffarano, pare che le operazioni sul piano della pragmatica dell’enunciazione abbiano a che fare, più che altro, con la proiezione di un simulacro di poetica, anziché di soggettività; in realtà, articolandosi, sul piano dell’enunciazione, hanno a che fare con la proiezione di un qualsiasi simulacro di discorsività. Ed è forse tale articolazione – con tutte le aporie che derivano, in primo luogo, dalla parallela perpetuazione del gesto di scrittura – a spiegare l’impasse in cui si è trovato Samuele Capanna, in un arguto saggio pubblicato sul numero 25 dell’Ulisse (2022), nel tentativo di descrivere le Istruzioni rispetto alla possibilità di uno stile, per arrivare infine a sostenere che le Istruzioni sono «contro lo stile, ma necessariamente dentro i suoi anelli». D’altronde, «l’ipotesi del gleiziano “contro-uso”», come chiosa Capanna, prevede «l‘affinamento di un idioletto energicamente sovversivo in base all’idea per cui la “sovversione per mezzo della lingua” passa dalla “sovversione della lingua”», ed è sempre così, in termini più chiaramente legati alla poetica, o alle poetiche, che può avere luogo una critica delle scritture cosiddette “assertive”, da condursi con le sue stesse armi.
In tutto il volumetto – dall’abitualmente preziosa confezione editoriale in capo a Diaforia, capace di trasformarlo, anche nel formato, in uno pseudo-livre de chevet – si gioca infatti con la struttura iper-assertiva delle «istruzioni», cariche di valenze non solo «politico-morali», appunto, ma anche metapoetiche, almeno in apparenza – trattandosi di un libro, come recita il sottotitolo, all’indirizzo dei nostri giovani poeti sul reperimento e sulla assimilazione dei concetti nuovi. Lo scritto di Zaffarano, tuttavia, si discosta radicalmente dal genere delle “lettere ai giovani poeti” che hanno imperversato, fino a oggi, travisando l’impronta rilkiana – a sua volta «“inutile” e perciò divertente», come ha sottolineato Giacomo Cerrai – perché si rifiuta nettamente di cedere alla pedanteria di un “discorso sulla poesia”. Anzi, al centro del libro sembra esserci una riflessione, e più nello specifico un lavorio linguistico continuo, sulla possibilità stessa di un qualsiasi discorso – preoccupazione in primo luogo epistemologica, evidenziata ad esempio dai titoli delle due sezioni del libro (a loro volta divise in 15 parti): «I fatti sono stupidi» (pp. 7-36) e «I fatti sono ostinati» (pp. 37-75). Oltre ai «fatti», le Istruzioni si concentrano sui «concetti» – in particolar modo se «nuovi» – sulle «idee», sulle «riflessioni», sulle «tecniche» e quindi, in generale, su tutta quella strumentazione, che in superficie si potrebbe definire di tipo teorico-pratico, che potrebbe servire per scrivere una “poesia nuova” (sebbene questa espressione non sia mai presente in quanto tale, in Zaffarano). Ora, è vero che da un lato, la «ricerca» – spesso associata alle “scritture di ricerca”, nei territori poetici, o post-poetici, battuti da Zaffarano – è indirettamente associata a una «caccia alle idee nuove» (p. 36); d’altra parte, come si ricorda già nell’importante colophon, «[s]e per agire bisogna scrivere, come livello della lotta siamo parecchio indietro» (p. 6).
Ci si inserisce, in altre parole, in seno a una contraddizione viva e produttiva dove, certamente, «[l]e parole, comunque le scegli, ti sembrano sempre cose dei borghesi», e «[l]e armi per le rivolte proletarie sono sempre state prese dagli arsenali dei padroni» (p. 6), ma il loro uso all’interno delle Istruzioni finisce per aderire mimeticamente a un manuale di «coaching mentale» – così l‘autrice francese Nathalie Quintane, nella breve ma esaustiva bandella – adatto anche alle esigenze di ultraperformatività del capitalismo contemporaneo («Devi essere ultraperformante», «Devi essere flessibile», p. 68; «Devi essere efficace», p. 70; «Tu sei la performance», p. 72, etc.). Contraddizione che, peraltro, risulta supportata da frammenti più espliciti – «Tranquillizzati sapendo che è tutto già dimostrato dalle recenti ricerche in ambito di organizzazione del lavoro» (p. 17) – ma anche da appigli filosofici più complessi, come quello in cui la stessa conoscenza, definita anche «conoscenza integrale» (p. 46) non è più e soltanto la capacità di «riflett[ere] sulla totalità» (p. 47), ma anche quella di «riflett[ere] sull’organizzazione della costruzione del senso» (p. 46), mettendo dunque a confronto, secondo un’antitesi insanabile, un approccio tradizionalmente marxista alla totalità e un approccio ultra-costruttivista più chiaramente postmoderno.
Non può fornire sintesi nemmeno la struttura del libro, dove il procedimento superficialmente iterativo, o agglutinante, dei singoli frammenti include slittamenti spesso minimi, o anche incrinature sintattiche impercepibili (salvo sporadiche eccezioni, come ad esempio: «I progetti però dipende», p. 50), dall’effetto più ipnotico che catechetico. Effetto umoristico – più occasionalmente, che non sulla misura dell’intero libro, come sostiene invece Quintane nella bandella – accresciuto dalla parte 15 della seconda sezione, ovvero dal testo finale, dove una concatenazione libera di sostantivi – «Alluminio. // Alluminio. // Acciaio. // Metallo» (p. 73), e così via – prepara l’esplosione finale.
Non è tuttavia l’apice di «Frastuono» (p. 75) raggiunto nell’ultima pagina a stabilire definitivamente i contorni dell’operazione concettuale di Zaffarano – benché sia per certi versi inevitabile che un manuale dell’ultraperformatività tardoliberista si sciolga nel white noise. Altrettanto, e probabilmente più rilevante, è il colophon, qui già citato in alcune sue parti, poiché già sulla soglia del testo si propongono alcune chiavi per il suo ribaltamento. Prima di sancire, come si è visto, l’incommensurabilità della pratica artistica e della pratica politica, e pur restando in vigore l’imperativo di sottrarre «le armi» della parola «alla borghesia», il breve paragrafo posto nel colophon rovescia anche ogni possibile interpretazione etica delle Istruzioni: «Un libro oggi può contenere qualcosa di vero a una sola condizione: se viene tutto scritto con la coscienza di compiere una cattiva azione» (p. 6). Ancora prima, l’epigrafe rimanda a La chinoise di Jean-Luc Godard (1967): «Il faut confronter les idées vagues avec les idées claires», evocando – per il legame implicito che si andrà a stabilire tra le «idee chiare» e le Istruzioni, ad esempio rispetto ai «concetti nuovi» – la possibilità che le Istruzioni, pur nella loro adesione completa allo status quo tardoliberista, vengano impartite da un nuovo «camarade X», il “compagno X” Omar Blondin Diop che, nel film di Godard, compulsava con fare pedante il Libretto rosso di Mao.
Non è dato sapere se le “idee vaghe” possano rappresentare un’alternativa in qualche modo fruibile e operabile anche a livello politico, non rientrando, peraltro, nella poetica autoriale di Zaffarano che, a tratti, sembra riemergere – quasi inevitabilmente, come si diceva, e en travesti – nella destrutturazione della forma della “lettera a un giovane poeta”. Ciò che sembra avere maggior peso, nell’ironia costitutiva del testo rispetto al piano dell’enunciazione, è la continua messa in scena dell’allocuzione: se si tratta di una “forma d’azione” – al netto dell’aggettivo che la vorrebbe come «forma d’azione estrema» (così Quintane, citando Jean-Marie Gleize, nella bandella) – essa si risolve in un dispositivo di messa in scena, che può dunque essere utilmente accostato a un’altra “teatralizzazione” più chiaramente inerente a un testo di Zaffarano come Tre movimenti e una stasi.
Quest’ultimo libro, in effetti, trae origine dalla drammaturgia, firmata dallo stesso Zaffarano, di Through the Night Softly, performance teatrale realizzata presso il Teatro Leonardo di Milano nel maggio 2023 e diretta da Antonio Syxty. Prendendo spunto da un’analisi contenente elementi simili ma esiti talora diversi, come quella di Sonia Caporossi, qui, pare di poter affermare, che pur perdendo il carattere perlocutorio di un’azione teatrale volta a esplorare gli spazi del Teatro Leonardo – come ha puntualmente osserva Claudio Elli nella sua esaustiva analisi di Through the Night Softly –, il testo di Zaffarano confluito nei Tre movimenti mantenga un forte carattere illocutorio, come mostra l’incipit: «Va bene, adesso prendiamo e cominciamo a pensare, adesso ci mettiamo a riflettere sul fatto che ci stiamo raccogliendo tutti quanti noi che siamo qui, noi che qui ci siamo incontrati e qui ci siamo raccolti, noi che cominciamo a raccoglierci qui, e allora infatti raccogliamoci, allora, visto che veniamo qui per raccoglierci…» (p. 7).
Già in questo primo lacerto si può notare uno degli stilemi ricorrenti del testo di Zaffarano, ossia una prima persona plurale che oscilla tra la funzione direttiva e la funzione dichiarativa, riproducendo così sul piano della pragmatica ciò che era tematizzato, tra assertivo e non-assertivo, in merito al genere delle “istruzioni” nel testo omonimo. Ad essere tematizzata – attraverso una simile (e costante, nel testo) spersonalizzazione per diffrazione – sembra essere la prima persona plurale, come si è già avanzato implicitamente qui, con l’inclusione di un’anticipazione del testo pubblicato da Tic in risposta al questionario sulla prima persona plurale avviato da chi scrive, insieme a Gianluca Rizzo, e ospitato su Le parole e le cose.
I tre movimenti di tali “noi” – variamente diffratti (in particolar modo per continua, e cangiante, apposizione di una proposizione relativa: nella citazione già fornita, «noi che siamo qui», «noi che qui ci siamo incontrati e qui ci siamo raccolti», «noi che cominciamo a raccoglierci», e così via per tutto il testo) –avanzano quindi contrappuntati da citazioni dell’école du regard francese, da Alain Robbe-Grillet a Michel Butor e Hélène Bessette – manifestando così, ancora una volta, il legame forte dell’autore con le tradizioni francesi di sperimentazione linguistica, dal secondo Novecento fino ad oggi – fino alla stasi finale.
È una stasi interpretarsi diversamente dalla stasi di movimento e stasi di Massimo Palma (Industria & Letteratura, 2021), ricordata ad esempio qui; Elli osserva puntualmente:
Stasi, come lo stesso verbo stare, ha come etimo, presente in quasi tutte le lingue indoeuropee, il sanscrito stha, che significa “arrestarsi” ovvero “stare al di qua”. Una suggestione esoterica che giustifica la presenza muta di Gaetano Callegaro che per tutto il percorso, abbigliato come un cavaliere dell’epopea americana, forse emulo di un rider, ha anticipato e si è mosso tra i diversi spazi quasi a suggerire il tragitto, inclusa l’uscita in strada. Volendo trovare un riferimento cinematografico alla sua presenza, il richiamo è quello della guida nel film Stalker di Tarkovskij, nella conduzione verso una “stanza d’oro” entro cui non si osa accedere, ma che persiste in una sorta di cherche percettiva individuale.
Tuttavia, il successivo richiamo di Elli alla «Sfilata fittizia e familiare di Tristan Tzara, poema concepito dall’estrapolazione “accidentale” di frammenti di parole e che rimane un capolavoro dada di destrutturazione del linguaggio e di percezione emozionale della scrittura» porta forse lontano dai territori battuti da Zaffarano.
La stasi è forse il momento che interviene nel fallimento della dialettica dei tre movimenti, mancanti di una sintesi in senso tradizionalmente e rigidamente hegeliano, ma ancora fermamente collocata nell’orizzonte di possibilità di quello che si anticipa nel primo movimento – con poliptoto, più che con paronomasia, qui marcato in corsivo aggiunto – come «punto di sutura comune e comunista e dipendente, ma poi anche autonomo e indipendente, sempre comune e comunizzato nello spazio-tempo che per adesso è comune accomunato di tutti noi e di tutti gli altri» (p. 15).
Sutura che, ricordando l’originale formulazione lacaniana, è sì la congiunzione di immaginario e simbolico, ma anche ciò che stabilisce il soggetto nella catena della significazione, e che si può dunque proporre come operazione «comune e comunista» proprio laddove, per tornare alle parole di Picconi, si cerca costantemente di «agire sulla […] forza illocutiva della poesia» e quindi di «trasformare la poesia in prassi», o almeno di fornire una teatralizzazione di tale trasformazione.
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(da Istruzioni politico-morali)
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Usa al massimo il tuo tempo che è limitato.
Non divagare.
Favorisci la concentrazione.
Per portare a termine il lavoro hai tutto il tempo che serve.
Il tempo che hai a disposizione per portare a termine il tuo lavoro tende ad allungarsi.
Devi agire nei limiti del tempo che hai a disposizione.
I limiti del tempo che hai a disposizione sono dei limiti ragionevoli.
I limiti del tempo che hai a disposizione sono dei limiti realistici.
Nei tuoi esperimenti ottieni dei risultati se favorisci la tua attività di concentrazione.
Nei tuoi esperimenti ottieni dei risultati se pratichi la tua attività di concentrazione per tutto il tempo.
Nei tuoi esperimenti non ottieni risultati se non pratichi attività di concentrazione.
Nei tuoi esperimenti non ottieni risultati se non eviti le divagazioni.
Sono le statistiche che ti informano sul tasso di riuscita e di fallimento.
Se favorisci la tua concentrazione contribuisci al tasso di riuscita.
Se ti lasci andare alle divagazioni contribuisci al tasso di fallimento.
O rientri nelle statistiche positive o rientri nelle statistiche negative.
Devi essere contento di sapere che le statistiche ti informano sul tasso di riuscita e di fallimento.
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(da Tre movimenti e una stasi)
Estratto dal Terzo movimento
E alla fine lo vediamo, è evidente e chiaro a tutti quanti noi che stiamo qui, che non facciamo altro che passare, che passiamo e basta, solo questo, passiamo e basta, e poi passiamo tutti quanti assieme quelli che siamo, e quando passiamo vuole dire che passiamo nel mezzo di grandi spazi, e questi spazi che ci passiamo dentro noi prima non ci siamo, perché prima stiamo nel mezzo di altri spazi, spazi che sono tutti diversi e staccati, magari sono anche spazi alleati e non succubi, però sono sempre spazi e ambienti e configurazioni e assetti ambientali diversi, orchestrati diversi, organizzati diversi da adesso, da questo spazio che stiamo attraversando adesso, e ci rende consapevoli dello spazio di adesso che attraversiamo, e infatti ci muoviamo bene dentro questo spazio diverso da prima, e nel mezzo di questo spazio ci spostiamo, e quando ci spostiamo dallo spazio all’altro spazio ci mettiamo ad attraversare quest’altro spazio, che è uno spazio più in grande, è uno spazio che dentro ci stanno un sacco di cose tutte diverse però anche un po’ tutte uguali, noi non ci sentiamo bene, siamo occupati ad attraversare, a passare, a completare questo passaggio tra spazi per opera nostra, di noi che siamo e ci sentiamo protagonisti, e ci pensiamo però, a noi nello stato di attraversanti, di passanti, e ci dicono infatti che possiamo solo passare, che dobbiamo solo passare, che dobbiamo muoverci solo nello spostamento, ce lo dicono che possiamo soltanto passare senza fermarci, senza approfittare delle sedie che ci guardano che le attraversiamo senza sfruttarle, e passiamo oltre le sedie […]
Forme del conflitto sono già state rintracciate in:
Sogni e risvegli di Fabrizio Bajec
Il divieto di accorgersi di Elisa Donzelli (documento apparso su Le Parole e Le Cose)
Movimento e stasi di Massimo Palma
Il mare a Pietralata di Claudio Orlandi
Nella spirale (Stagioni di una catastrofe) di Gianluca D’Andrea
Pietra da taglio di Anna Franceschini e Lacrime di Babirussa di Riccardo Innocenti
Waves di Vincenzo Bagnoli e Eleanor di Alessandra Cava
Per far vivere altro cadiamo di Marco Carretta (scritto di Matteo Cristiano)
Lottare per le idee di Giuseppe Muraca
Togliattə di Mariano Correnti e Liricologismo di Marzia D’Amico
Non sappiamo come continuare di Demetrio Marra
Ipotesi sul mio disfacimento di Bernardo Pacini e Fracking di Alessio Verdone

Lorenzo Mari
Lorenzo Mari vive e lavora a Bologna. Ha pubblicato alcuni libri di poesia, tra i quali gli ultimi sono Querencia (Oèdipus, 2019) e la plaquette Tarsia/Coro (Zacinto, 2021). In prosa, ha pubblicato il racconto Via Mascarella alta e bassa (autoproduzioni Modo Infoshop, 2019) e ha ottenuto il XXXV Premio Teramo Giovani - Giacomo Debenedetti per il racconto Un percorso sicuro.
Traduce dallo spagnolo (Agustín García Calvo, Sonetti teologici, L'Arcolaio, 2019; César Vallejo, Trilce, Argolibri 2021) e dall'inglese (David Keenan, Memorial Device, Double Nickels, 2020, insieme a Matteo Camporesi).
Ha curato l'edizione italiana di ZURITA. Quattro poemi del poeta cileno Raúl Zurita (Valigie Rosse, 2020), nella traduzione di Alberto Masala.
Collabora con varie riviste online (Pulp Libri, Fata Morgana Web e Jacobin Italia).