Fotografia, quest’arte sottile ⥀ Conversazione con l’artista iraniano Khosrow Hassanzadeh
Ricorre oggi, 16 settembre 2023, l’anniversario della morte di Mahsa Amini, episodio che ha scatenato la violenta serie di proteste che infiamma tuttora l’Iran. Pubblichiamo in questa occasione un’intervista inedita in Italia, tratta dalla rivista di fotografia «Aks», all’artista iraniano Khosrow Hassanzadeh (qui), spentosi il 2 luglio scorso in circostanze tuttora non chiarite e per le quali in molti hanno incolpato il regime di Teheran a causa del divieto vigente sulla produzione e la vendita di alcolici (qui). Allievo dell’artista Aydin Aghdashloo, Hassanzadeh era un veterano della guerra Iran-Iraq del 1980-88, alla quale aveva partecipato in veste di basij, e parte del suo lavoro deriva proprio da questa esperienza. Le sue opere sono state esposte nei musei di tutto il mondo, tra questi il British Museum, il Los Angeles Country Museum of Art e il Museum of Contemporary Art di Teheran
– Indicazione biografica –
Khosrow Hassanzadeh, nato nel 1342 (1963) a Teheran, ha studiato pittura nelle classi di Aydin Aghdashloo a partire dal 1362 (1983). Successivamente ha frequentato l’Università di arte, che ha lasciato dopo un anno per la Facoltà di lettere. Dal 1367 (1988) si è dedicato a varie attività artistiche e ha esposto le sue opere in diverse prestigiose mostre personali e collettive in patria e all’estero. Questa intervista è stata fatta in occasione di una mostra tenuta alla galleria Roh-e-Abrisham («Via della Seta») dal 25 Bahman al 5 Esfand del 1383 (dal 14 al 24 febbraio del 2004).
Intervista a Khosrow Hassanzadeh in occasione della mostra personale allestita nei mesi di Bahman ed Esfand del 1383 (febbraio del 2004)
Due anni fa hai esposto una serie di grandi dimensioni intitolata Pahlavan, per la quale hai lavorato su vecchie fotografie. Quest’anno invece hai usato fotografie che hai scattato tu stesso. Raccontaci di come hai realizzato il tuo ultimo lavoro.
Naturalmente, prima di Pahlavan ho lavorato a un’altra serie che però non poteva essere mostrata qui.
Che tipo di serie era?
I ritratti delle donne vittime degli omicidi del «Ragno di Mašhad»1 provengono dalle foto segnaletiche del dipartimento di polizia pubblicate sui giornali. Stampavo le fotografie in grandi formati, poi ci dipingevo sopra. Dopo di che ho voluto lavorare su vecchie fotografie fatte nelle case del caffè e del tè (ghahvekhaneh)2 e nelle palestre (zurkhaneh)3.
Ti riconosci come fotografo?
No, non sono un fotografo, sono sicuramente un pittore. Ma volevo fare un esperimento unendo fotografia e pittura per ottenere un risultato che avesse un significato.
Che ruolo ha la fotografia nelle tue composizioni?
Oggi c’è un dibattito aperto sull’arte concettuale. La fotografia include tutte le arti, e secondo me possiamo chiamarla l’ottava arte. Nel cinema inteso come arte concettuale possono esserci la musica e i suoni, si può fare ogni cosa con le luci, le scenografie, ecc. Anche per me, in questa serie di lavori, la fotografia è stata uno strumento. Questi lavori non sono nemmeno pittura.
Quando vuoi iniziare un nuovo lavoro, che cosa fai in concreto?
Ad esempio, voglio lavorare al tema dei lottatori (Pahlavan)4 e penso ai lottatori che non ci sono più. Penso che la figura stessa del lottatore è scomparsa, che i lottatori che un tempo propugnavano nella società la giustizia e aiutavano le persone, e avevano molto potere perché erano i garanti della popolazione locale, non esistono più. Io con questo pensiero in mente ho lavorato alla serie intitolata Pahlavan. Cercavo fotografie di settanta o ottanta anni fa stampate su riviste, libri, ecc. e la loro qualità era molto scarsa. Ho provato a ricavarne degli stampi di due metri e poi a lavorarci sopra con il colore rendendo la loro atmosfera più vivace e più bella.
Nella serie sulle donne assassinate, cosa volevi esprimere?
Lavorando a questa serie pensavo: «Perché la gente non parla di queste donne assassinate?» Molte persone erano arrabbiate. Ho voluto realizzare questi ritratti di grandi dimensioni affinché quelle donne non venissero dimenticate.
Parlaci delle opere esposte in questa mostra.
Dopo questi lavori, siamo arrivati a Terrorist. Questa era un’idea che mi frullava in testa da tempo, a partire dal mio viaggio in Cambogia, ed è anche l’argomento del giorno. La mia domanda era: «Beh, qual è la definizione di “terrorista”?» George Bush, ad esempio, dà una definizione di «terrorista», l’Europa, l’intero Occidente, l’Oriente, i governanti del nostro paese, tutti hanno un’idea su questo problema. Noi consideriamo gli occidentali terroristi e loro considerano terroristi noi. Non esiste un’unica posizione. La mia idea in questo lavoro era di domandare che cos’è un terrorista. «Chi è un terrorista? Che differenza c’è tra Oriente e Occidente nel definire un terrorista?» Nell’ultimo anno, ho iniziato a pensare a questo argomento, e poi a lavorare su una serie di ritratti. Ho pensato che anche io vivo in questo paese, come anche mia sorella e mia madre. Ci considerano in qualche modo terroristi perché siamo musulmani, ma non siamo terroristi. Ho iniziato a ritrarre la mia famiglia e me stesso. Ho realizzato diversi ritratti nello stile dei vecchi studi fotografici, usando uno sfondo simile a quello usato nelle vecchie fotografie5. Ho pensato che quello di terrorista è un concetto astratto. Il terrorista ha in mente una fantasia, crede di voler cambiare il mondo, proprio come quegli studi fotografici che usano sfondi pieni di bei sogni. Puoi vedere per esempio che nei miei lavori questo tipo di sfondo è associato all’idea di terrorista. Io volevo che lo stile delle opere che stavo facendo fosse vicino allo stile delle fotografie dei vecchi studi fotografici.
Perché hai scelto i tuoi famigliari come soggetto?
Perché le persone migliori e più sane che conoscevo erano mia madre e mia sorella, allora ho detto loro che volevo raffigurare i terroristi in questo progetto. La tecnica che ho usato era molto difficile e faticosa. Avevo iniziato a lavorare e volevo vedere che cosa sarebbe successo. Penso che fosse la prima volta che lavoravo su queste dimensioni, anche per me era la prima volta che realizzavo opere di 3.20 cm x 2 m.
Dove hai realizzato queste opere?
In uno studio affittato a Varāmīn6.
Hai portato avanti il lavoro da solo?
Avevo un assistente che si chiamava Reza Ghahremani, era veramente bravo. Per ogni opera ho realizzato 24 stampi. È stato veramente difficile, ma avevo iniziato e dovevo finire, avevo anche speso molti soldi. Era faticoso, ma non volevo fermarmi a metà del lavoro: ora che era iniziato dovevo finirlo.
Quali sono stati i passaggi per ottenere lo stampo desiderato?
La base di questo lavoro è la fotografia. Per cominciare un giorno sono andato a casa di mia madre e l’ho ritratta così com’era, con gli stessi abiti di sempre. In questa raccolta le persone sono se stesse e, poiché volevo avvicinarmi all’idea di terrorista, ne ho fotografate molte di sorpresa.
Perché di sorpresa?
Perché un terrorista fa la stessa cosa. Anche se volesse scattare una fotografia, farebbe lo stesso. Comunque, ho fatto queste fotografie. Un giorno sono andato a casa di una sorella, un secondo giorno a casa dell’altra.
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Ti sei mai fatto degli autoscatti?
Farmi gli autoscatti era divertente perché avevo solo dieci secondi per mettermi in posa, impostavo l’autoscatto e correvo. (Ride). Alla fine ce l’ho fatta. E adesso che cosa dovevo fare con queste fotografie? Ho iniziato regolando le dimensioni con il computer, perché non avevo altro modo, ho scansionato le fotografie e le ho rese molto grandi. Gli stampi dovevano essere di 2m x 3m e di quattro colori diversi, così ho separato i colori e con ciascun colore ho realizzato uno stampo diverso. Poi li ho fotografati nel mio atelier qui in via Manouchehri7, li ho trasferiti nella camera oscura del mio laboratorio e li ho esposti alla luce fino a ottenere 24 stampi, quindi è iniziata la terza fase. La cosa più difficile era creare il colore della stampa e abbinare gli stampi. Se uno di questi 24 stampi fosse stato storto, si sarebbero tutti confusi. In questa fase, il mio assistente Reza Garhamani è stato di grande aiuto, perché gli stampi erano così grandi che abbiamo dovuto lavorare in due; nella fase di stesura del colore, è stata importantissima la mia esperienza con la pittura. Davvero un bel lavoro. Non sai cosa succederà, hai un’idea in mente, hai creato dei colori, li stendi sullo stampo con la spatola e il pennello e quando ritrai la mano dici: «Wow!»
Quanto tempo ci è voluto per completare questa serie?
Per questa serie, davvero difficile, ho impiegato quattro mesi lavorando giorno e notte. Senza considerare il tempo che ho speso a pensare al modo in cui realizzare questo lavoro.
Parlaci della tua esperienza con la tecnica silkscreen.
Usare la silkscreen sembra facile, ma in realtà è un’operazione molto complicata. In questo lavoro, infatti, tutto dipende dall’esperienza. Se non hai esperienza, potresti non ottenere alcun risultato… I colori che ho usato sono i colori della pittura acrilica. Hanno un’ottima stabilità e sono persino lavabili, più invecchiano e prendono luce, più diventano accesi, e durano molto di più del vecchio bianco e nero delle fotografie, che nei musei infatti sono conservate in stanze buie e protette per evitare che sbiadiscano.
Per quanto riguarda i colori, era importante per te restare fedele a quelli originali della fotografia o li sceglievi secondo la tua sensibilità?
Questo richiede davvero esperienza. Io, ad esempio, ero solito scegliere quali colori combinare tra loro immaginando il colore che, una volta accostati, essi avrebbero creato. Come facevano i puntinisti, che dipingendo accostavano punti colorati che l’occhio dell’osservatore avrebbe poi mescolato.
Ebbene, cosa c’entra questo discorso con il tuo lavoro?
Bene, qui c’è un’opera di 3m x 2m piena di punti colorati, che insieme creano una straordinaria combinazione di colori… Il risultato che vedi è stato ottenuto attraverso l’utilizzo della tecnica silkscreen.
Hai detto che questa idea è nata dopo un viaggio in Cambogia, perché?
In Cambogia mi sono sentito come a casa, una sensazione che non avevo mai provato in nessuno dei miei viaggi. Anche in India raramente mi sono sentito così. In Cambogia la gente era come è la mia famiglia, pulita e semplice, ma vittima di una distorsione. D’altra parte, il paese è pieno di organizzazioni non governative americane ed europee che da quando sono arrivate lì lo stanno sfruttando e colonizzando. In un paese così grande e bello non ci sono che due giornali, uno in francese e uno in inglese, ed è pur sempre una colonia. Prima era gestito direttamente dal governo di altri paesi e ora viene colonizzato dalle organizzazioni non governative. Mi sono arrabbiato vedendo che, nonostante le organizzazioni non governative, questa gente viene ancora sfruttata e colonizzata. Poi accusano noi di essere terroristi (l’Europa e l’America). Avevo questa idea in mente, ma in Cambogia è diventata più forte.
Quindi questo viaggio in Cambogia ti ha dato la possibilità di vedere le cose da due punti di vista differenti?
Quando sono tornato, mi sono detto che dovevo lavorare a questo progetto e porre anche agli altri la stessa domanda che era sorta in me. Io pongo la domanda, non racconto; chiedo: «Chi decide che cosa significa essere terrorista? E quale differenza c’è tra la nostra definizione di “terrorista” e la loro? Quale differenza c’è tra la definizione di “terrorista” che diamo qui e quella data in Occidente?» Anche oggi, quando vado in viaggio all’estero, mi trattengono all’aeroporto per accertarsi che io non sia un terrorista, perché vengo dall’Iran. Beh, siamo in qualche modo coinvolti nel terrorismo, ho letto la storia del terrorismo. In Iran c’erano Mirza Reza Kermani o Navvab Safavi8, i quali appartenevano a gruppi terroristici con idee religiose che volevano davvero migliorare la condizione del paese, quindi non possiamo chiamarli terroristi anche se la loro azione era terroristica.
Perché le dimensioni delle tue opere sono così grandi?
Ho insistito affinché la dimensione delle opere fosse la stessa dei murales che vediamo nelle nostre strade.
Come spieghi la tua scelta di includere le fotografie nelle tue opere o, in altre parole, perché usi le fotografie nelle tue opere, sia nei dipinti sia in altri lavori artistici, e anche se affermi di non essere un fotografo in alcuni luoghi continui a esporre solo fotografie?
Beh, forse perché sono una persona che va di fretta e per me la fotografia è uno strumento; uso la fotografia come strumento per esprimere ciò che ho in mente. Un altro aspetto importante è che la fotografia sta superando le altri arti visive contemporanee dal punto di vista espressivo. Questo è dovuto forse alla velocità e all’immediatezza con cui la fotografia sa trasmettere in modo oggettivo l’idea dell’artista e, d’altra parte, alla sottigliezza di quest’arte.
Fino ad ora hai mai fotografato in presa diretta?
Sì, molte volte. Ad esempio, una volta al City Lizard di Parigi ho fotografato tutti gli artisti che stavano in quel palazzo. Quando sono entrato in quel corridoio, in quei corridoi solitari, nella mia mente è sorta la domanda: «Chi vive dietro queste porte?» Accanto al portone principale del palazzo, ho appeso un cartello con su scritto: «Chi vive dietro queste porte? Voglio ritrarvi in una fotografia»: erano molto riluttanti a farlo e lasciarsi fotografare per loro era difficile, ma a poco a poco ci sono riuscito e ho realizzato cinquanta ritratti. Ho fotografato in presa diretta il loro volto, il numero sulla porta e il campanello (lo studio era la loro abitazione).
Hai detto che usi la fotografia come uno strumento. Quanto è importante per te questo strumento?
Come ho già detto, per me la fotografia è appunto uno strumento per trasmettere più facilmente l’idea che ho in mente. Domani potrei sentire di dover fare un video, forse avrò bisogno di realizzare una scultura o forse sentirò la necessità di creare un ambiente con dei suoni. Quello che voglio fare dipende da ciò che ha importanza in quel momento nell’arte contemporanea, da ciò che ho da dire e che voglio dire, e da quali strumenti posso usare per esprimere l’idea che ho in mente.
Quindi non ti importa di non avere scattato tu stesso le fotografie originali?
Esatto, ogni volta che trovo una fotografia adatta al mio progetto su libri, riviste, giornali e altrove, la uso; ma quando sento di dover dire qualcosa di nuovo faccio direttamente io le fotografie. Molte volte per realizzare progetti personali ho fatto io le fotografie. Ad esempio è stato così in un workshop in India, poi in quello al City Lizard di Parigi insieme ad altri artisti di diversi paesi e adesso è esposta nella galleria Roh-e-Abrisham9 un’altra mia serie dal titolo Orientalist, che ho lasciato a metà.
Come sei entrato nel campo dell’arte contemporanea?
Non sarei dovuto diventare un pittore o un artista. Vivevo in un quartiere chiamato Moft Abadeh, dove c’erano i migliori contrabbandieri e criminali10, e io avrei potuto essere uno di loro. È per un caso che sono diventato un pittore. È successo che ho incontrato Aydin Aghdashloo e con lui ho iniziato a imparare a dipingere con molta precisione. Poi ho imparato ad allontanarmi da quello che mi era stato insegnato e a trovare il mio stile11.
Che cosa hai fatto nel campo dell’arte concettuale prima di questo?
Questo risale al 1363-64 (1984-86), all’epoca alcune persone si sono occupate per la prima volta di arte concettuale e io ho collaborato con loro. Dopo due o tre anni abbiamo lavorato alla mostra collettiva intitolata Art of Destruction (Honar-e-takhrib) e poi abbiamo demolito l’edificio che la ospitava. Successivamente, ho esposto con Sadegh Tirafkan12 la serie Ashura alla Mostra biennale di arte a Teheran e con Bita Fayyazi13 la serie Abortion.
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Come sei entrato nel campo dell’arte concettuale?
Ho iniziato a frequentare l’Università di arte, ma più tardi l’ho abbandonata. In seguito ho iniziato a studiare, era un periodo molto difficile e limitato, leggevo soltanto. Poi ho potuto iniziare a fare delle mostre, sono andato in Europa e sono stato a Londra, dove ho visitato la Tate Modern, che ospita gli ultimi lavori di arte da tutto il mondo, e la Saatchi Gallery, e a Parigi, dove ho imparato a osservare le opere e a frequentare il mondo dell’arte contemporanea. Ed è così che ho conosciuto anche l’arte concettuale.
Dove hai conosciuto la tecnica silkscreen?
Avevo sedici o diciassette anni, ero disoccupato e ho iniziato a lavorare in una stamperia di tessuti. Stampavo sulle magliette fotografie di attori e cantanti, tra cui Michael Jackson, che in quel periodo era appena diventato famoso. La mia esperienza risale a quel periodo, ho imparato lì la tecnica silkscreen. È stato molto difficile, nessuno me l’ha insegnata per davvero, ma non era così importante che mi rimanesse in mente. Sono andato a cercare altre cose, altre storie, e sono diventato pittore, finché qualche anno fa ho sentito che dovevo usare quella tecnica e ci sono ritornato con un’altra consapevolezza. Così ho potuto portarla nelle mie opere.
Hai imparato qualcos’altro, oltre la pittura, da Aydin Aghdashloo?
Aydin aveva una buona energia ed era un insegnante davvero unico. Mi ha insegnato, certo non solo a me, ma a tutti i ragazzi che erano lì, a essere un bravo pittore. Poi però mi sono detto che io non volevo essere questo e ho cercato un’altra strada. Se guardi la mia tecnica e le mie opere, noterai che non hanno niente a che fare con quelle di Aydin Aghdashloo e deve essere così. Ho letto libri, ho fatto ricerche e sono andato all’università.
Come ti sei trovato all’università e perché l’hai lasciata?
L’università era un po’ dispersiva, l’ho lasciata e dopo un anno ho ripreso gli studi da solo.
Di solito quali argomenti ti interessano di più?
Sono interessato alle cose che mi circondano, non potrei mai parlare di un argomento che non conosco. Prima ho iniziato con me stesso, ho circa 40-50 ritratti di me stesso, poi gradualmente mi sono concentrato su mia madre e sulle persone intorno a me. Credo che la cosa più vicina a un artista sia ciò che lo circonda. Se riesce a riprodurlo bene, può creare qualcosa di compiuto.
(intervista realizzata da Arash Yadollahi,
traduzione di Leila Rahimian e Sara Noori)
Note
1 Saeed Hanaei, soprannominato «il Ragno», è stato un serial killer iraniano che tra il 2000 e il 2001 ha compiuto una serie di omicidi nella città di Mašhad dei quali sono rimaste vittime sedici prostitute. La vicenda ha ispirato il film Holy Spider di Ali Abbasi, realizzato nel 2022.
2 Ghahvekhaneh, «case del caffè e del tè», sono luoghi di ritrovo tradizionali che ospitano un tipo particolare di pittura iraniana a olio dalle tematiche religiose e patriottiche.
3 Le zurkhaneh, letteralmente «case di forza», sono le tradizionali palestre iraniane, nelle quali si riuniscono quotidianamente i Pahlavan (vedi infra, n. 4).
4 I Pahlavan sono gli atleti che praticano il Varzesh-e pahlavānī (lett. «antico combattimento a mani nude degli eroi»), una disciplina di ginnastica e lotta tradizionale iraniana originariamente utilizzata per l’addestramento dei guerrieri.
5 È uso comune nell’area mediorientale ritrarre i soggetti delle fotografie su sfondi naturali, floreali o comunque immaginifici.
6 Città vicina a Teheran.
7 Strada nel centro storico di Teheran.
8 Si tratta di due figure piuttosto lontane tra loro. Mirza Reza Kermani (1854-96), seguace del riformatore al-Afghani, è noto per aver assassinato, il 1° maggio 1896, lo scià di Persia Naser al-Din Shah Qajar; Navvab Safavi (1924-56) è ritenuto il fondatore della Fada’ian-e Eslam, un’organizzazione islamica militante e fondamentalista autrice di una serie di omicidi e tentativi di omicidio contro alcuni dei principali esponenti politici del Paese.
9 A Teheran.
10 Proprio dalle periferie povere delle città vengono reclutati i basiji (da basij, «mobilitazione»), una forza paramilitare iraniana formata nel 1979 dall’ayatollah Khomeini e subordinata ai pasdaran (il Corpo delle guardie della rivoluzione islamica). Originariamente formata da uomini troppo giovani o troppo anziani per il servizio militare regolare, oltre che da donne, i basiji, per la maggioranza estremisti, sono particolarmente noti appunto per aver fornito volontari negli attacchi a ondate condotti contro gli iracheni durante la guerra Iran-Iraq, alla quale anche Hassanzadeh, appunto in veste di basij, prese parte.
11 Aydin Aghdashloo (1940) è un pittore, grafico e curatore d’arte, la cui pittura si distingue per il suo forte iperrealismo.
12 Sadegh Tirafkan (1965-2013) è un artista di fama internazionale autore di fotografie, installazioni video e collage. Le sue opere fanno parte delle collezioni di diversi musei, tra cui il Teheran Museum of Contemporary Art, il British Museum, il Brooklyn Museum e il Los Angeles County Museum of Art.
13 Bita Fayyazi (1962) è un’artista esperta di scultura e installazioni, conosciuta in particolare per i suoi neonati dorati sospesi a mezz’aria di Kismet («Destino»), l’installazione esposta in modo permanente a Fabrica (Treviso).
Claudia Valsania
Claudia Valsania (Alba, 1992) è laureata in Lettere Medievali e
Italianistica presso l’Università di Torino. Attualmente sta
lavorando a un’edizione commentata dei Dialoghi con Leucò di
Cesare Pavese, un cui estratto è recentemente apparso nel volume
Cesare Pavese. Dialoghi con i classici. Atti del convegno (3-4
novembre 2020), a cura di Valter Boggione e Mariarosa Masoero
(Edizioni dell’Orso, 2021). Suoi contributi sono apparsi su Argo
e sul blog di Carie Letterarie.