Frammenti da Trieste-Tbilisi: un diario di viaggio scritto su whatsapp e altri sistemi di messaggistica istantanea di Michela Pusterla ⥀ Passaggi
Oggi su Passaggi alcuni frammenti da Trieste-Tbilisi: un diario di viaggio scritto su whatsapp e altri sistemi di messaggistica istantanea di Michela Pusterla, con le fotografie di Giulio Zeriali. L’editoriale della rubrica può essere letto qui
Fotografie di Giulio Zeriali.
27 luglio, giorno 18
Hamzalı (Tuz Gölü)-Aksaray
La traversata dell’altopiano anatolico arriva oggi alla fine: è stata lunga, e lunghi sono questi ottanta chilometri di autostrada che abbiamo davanti fino ad Aksaray. Il panorama è stato pressoché costante, campi coltivati a frumento, barbabietole, girasoli, con poche variazioni sul tema, come la città di Mida, e il lago salato di Tuz Gölü (che infatti vuol dire lago salato). Non avevo mai visto nella vita una terra così sconfinata, apparentemente uguale a sé stessa ovunque.
Il paese dove abbiamo dormito ieri, quello semidistrutto, mi ha lasciato un’angoscia strana: le case cadute su sé stesse (di mattoni impastati con la terra e pietre e tetti di paglia e tegole, tornati alla natura), quelle tre donne sdentate delle quali una con un evidente ritardo mentale, quel senso di abbandono e desolazione. Come vive chi vive qui? Come vive chi non è emigrato? Come si vive da sole, completamente sole, in mezzo alle rovine?
Questa traversata mi ha anche fatto sentire forte, non solo fisicamente: ci vuole una certa costanza mentale per pedalare nel niente, nel piatto, senza punti di riferimento prima e dopo, a parlare con sé stesse e con una bambina non ancora nata.
Dati del giorno 18:
- chilometri percorsi: 83
- dislivello positivo: 330m
8 agosto, giorno 30
Batumi-Khobi
Esiste un confine della domesticità, un confine dell’Heimat: è, ahimè, il cristianesimo. Fernand Braudel scrive che la civiltà mediterranea arriva dove arriva l’olivo; io scrivo che ciò che sentiamo casa arriva dove arriva la carta igienica (nell’Islam, infatti, si trovano solo brocchette d’acqua all’uopo). Il cristianesimo è una religione fondata sul porco (generalmente insaccato, ma in questo caso anche vivo per strada), sul celodurismo maschile (in Turchia gli uomini sono più gentili, pare abbiano meno da show off dato che le donne non si vedono e loro non bevono) e sulla carta igienica. Forse il cristianesimo è in parte anche una religione dell’individualismo: non solo il cristianesimo nella sua variante calvinista, come è storicamente noto, ma anche nella sua ben più antica variante ortodossa: il georgiano medio, accoglientissimo secondo TripAdvisor, se ne sbatte il cazzo di te che sei viandante, se lo metti a confronto con quanto è ospitale un turco.
Chi non se ne sbatte per niente, pare, sono gli sbirri georgiani, che hanno studiato alla scuola del Kgb. Nella prima giornata di pedalata georgiana, costeggiando il Mar Nero (che – increbile dictu – è nero, cioè appoggiato su sabbia letteralmente nera), una pattuglia ci «scorta» (parole loro, via Googletranslate) per qualche decina di chilometri, nonostante le nostre richieste di mollarci, rendendo impossibile chiedere ospitalità per la tenda. Le guardie fanno infine irruzione in cinque nella casa dove stiamo chiedendo l’acqua, causandomi una crisi di pianto che avrei volentieri evitato e invitandoci a seguirli per mettere la tenda in un posto che conoscono loro. Alla vista di un parchetto di tossici (simpatici, ci chiedono se va tutto bene, vedendoci tallonati) vicino a una statale, decliniamo, ma gli sbirri non trovano quiete finché noi non troviamo un prato. Li odio.
(Dalla Turchia all’Albania, posti di blocco, posti di polizia: la guerra avanza, ragazzo mio, ci vuol pazienza.)
Dati del giorno 30:
- chilometri percorsi: 99
- dislivello positivo: 430m
10 agosto, giorno 32
Khobi-Jvari-Dizi
Siamo in Svaneti, Georgia; cominciano le montagne, umidissime ma non troppo ripide.
La prima pausa la facciamo al tavolino accanto alla lapide di un morto: un tizio nato nel 1969 e deceduto nel 2009, a quarant’anni, suppongo in un incidente stradale. In Georgia, accanto alle lapidi lungo la strada, si trovano spesso un tavolo o una panchina, dove sedersi a chiacchierare. Nei cimiteri, invece, sopra le tombe in marmo, dove spesso sono engraved le foto intere dei passed, stanno delle tettoie, quasi delle verande, che pare siano costruite per proteggere i morti dalla pioggia.
Ho sempre provato un interesse specifico per i mourning rituals, per come cambiano from place to place (tutto questo inglese mi esce perché lo sto parlando da due giorni, ma nell’uso mi legittima Fenoglio). Trovo – e questo l’ho già detto alle persone con le quali ho qualche confidenza – che uno dei portati più pericolosi della nostra società disgregata sia la progressiva deritualizzazione, che intacca addirittura quel territorio della vita che sconfina nella non vita che è il funerale. Esiste un’urgenza, nella società occidentale laica, che è quella di pensare un rito funebre civile, che valga anche per quei poveri cristi che non possiedono una comunità di appartenenza già dotata dei propri simboli. Se avessi modo di fare un altro dottorato, farei una ricerca antropologica sulla deritualizzazione della morte nella società occidentale.
In Turchia, come in Bosnia e forse negli altri Paesi musulmani che non ho mai visitato, in memoriam di chi non c’è più si costruiscono fontane. Mi pare un’idea di grande bellezza, per onorare una morte (una vita), nonché un’idea piuttosto utile per le cicloviaggiatrici.
Non so se ti avevo già detto che il prossimo dottorato lo faccio su questo.
Dati del giorno 32:
- chilometri percorsi: 65
- dislivello positivo: 1800m
Chi volesse proporre prose brevi e illustrazioni per la rubrica, può inviarle a questo indirizzo email: RubricaPassaggi@argonline.it

Michela Pusterla
Michela Pusterla, nata alla frontiera italo-svizzera, vive su quella italo-slovena. Ha studiato letteratura a Bologna, Berkeley e Parigi. Insegna in un istituto professionale di Trieste.