Frantz | di Françoise Ozon | recensione di Enrico Carli
Genere: Drammatico
Durata: 113 min.
Cast: Pierre Niney, Paula Beer, Ernst Stötzner, Marie Gruber, Johann von Bülow
Paese: Francia
Anno: 2016
Françoise Ozon (Gocce d’acqua su pietre roventi, 8 donne e un mistero, Giovane e bella, Nella casa, solo alcuni) torna in parte ad affrontare un tema più volte indagato nella sua vasta filmografia, la proliferazione naturale del racconto fatto di omissioni e invenzioni. Strumenti, questi, che non appartengono al solo narratore di professione, all’onirico o alla rimozione, ma a chiunque provi a raccontare qualcosa di terribile e non ci riesca, e a ciò sostituisca una versione più morbida e rassicurante aprendo scenari plausibili di ciò che sarebbe potuto essere.
Siamo al termine del secondo decennio del novecento, il primo conflitto mondiale è appena terminato: Anna si reca ogni giorno sulla tomba del fidanzato Frantz caduto al fronte. In realtà la bara è vuota, le spoglie del soldato non pervenute. Anna e i genitori di Frantz vivono il lutto nella stessa casa. Quand’ecco che nella loro piccola cittadina tedesca arriva Adrien, un francese che dice di aver conosciuto Frantz a Parigi prima dell’arruolamento. Dopo la diffidenza iniziale del padre del defunto, che reputa l’intera Francia responsabile della morte del figlio, Adrien racconta ad Anna e ai genitori di Frantz i momenti che loro due hanno passato insieme prima che la guerra li separasse. Ma Adrien è tormentato e scostante; è un uomo che nasconde un segreto.
Come in Nella casa gli specchi si interfacciano, e il racconto che ne risulta è la rifrazione dei desideri di chi ascolta insieme al sogno vivido del relatore: luci e ombre che non si sa più da dove provengano originariamente, come certi abat-jour acquistati a un mercatino dell’usato. Se in Nella casa si aveva a che fare con un giovane scrittore e il suo insegnante di lettere che lo esortava ad approfondire i propri argomenti (l’invenzione come gioco e come mestiere), in Frantz s’inventa perché la confessione richiede i suoi tempi, si prende i propri spazi di alterità per venire infine, con sollievo, a poter esser detta.
Gli inserti colorati nel film in bianco e nero tendono appunto alla separazione dei piani del racconto, e insieme riconciliano il ricordo e la sua falsificazione: la verità, per quanto terribile, è luminosa. Fa niente se per pervenire ad essa si è traccheggiato un po’, in quell’esitazione è accaduto qualcosa che può dirsi amore.
Ed è proprio qui che Ozon sviluppa in maniera personale il romanzo di Maurice Rostand (già trasposto sullo schermo da Ernst Lubitsch in Broken Lullaby), adattando l’esemplare linearità della trama – che non perde affatto di immediatezza – a quelle che sono le sue esigenze d’autore. Un po’ come il professore di lettere del già citato Nella casa, a sua volta scrittore, che riteneva di raffinare l’opera in farsi del suo talentuoso allievo. E se la rivelazione di Adrien, quando arriva, può apparire “scontata”, ci sono al proposito due e tre cose da precisare. Facciamo un passo indietro, poi ci torneremo.
A giudicare dal titolo del romanzo di Rostand – che ometto per non svelare un importante snodo di Frantz – il film di Lubitsch è fedele all’originale storia letteraria, e qui la “rivelazione” (tra virgolette perché, privata dei suoi connotati di sorpresa, rivelava dunque ben poco ed era piuttosto solo il motore iniziale della vicenda) si dava allo spettatore in apertura mentre l’ex soldato francese si confessava a un prete, per rimanere celata fino alla fine agli altri personaggi. Un po’ la regola aurea teorizzata da Hitchcock, secondo il quale la suspense è maggiore laddove il pubblico è a conoscenza di fatti che i personaggi direttamente interessati ancora ignorano.
Quasi a voler confutare la più volte ribadita (da parte della critica) affezione a certi modelli del maestro del brivido, Ozon lascia lo spettatore, al pari di alcuni personaggi, allo scuro del fatto centrale della vicenda, e sceglie di rivelarlo agli altri anziché in conclusione a metà spettacolo, cosicché anche lo sviluppo della storia, nel libero adattamento del regista, è considerevolmente diverso dall’originale. Ed ecco perché la rivelazione può sembrare “scontata”: col senso del mistero che gli è proprio, Ozon riesce nell’intento di nascondere ciò che una volta rivelato appare, ai fini drammaturgici del racconto, del tutto ovvio e naturale.
Allo stesso modo, con altrettanta abilità, Ozon gestisce efficacemente le ormai logore tematiche del novecento bellico, tuttavia rilanciate all’attualità dall’assurdo contemporaneo: il nazionalismo (gli inni cantati con orgoglio sui caduti; la ritenuta supremazia del proprio stato che porterà la Germania al nazismo); il discorso sulle colpe dei padri (i figli che vengono mandati a uccidere ed essere uccisi da altri figli); le implicite considerazioni sulla stupidità di una guerra (tra le più sanguinose della storia) che sarà poi introduttiva alla conseguente.
Solo chi mette in discussione il proprio operato, chi rinuncia all’odio cieco a favore della comprensione ed è disposto ad attribuirsi delle colpe, riesce infine, come il padre di Frantz, a vedere in se stesso il nemico e assolvere chi riteneva l’unico avversario. Come dicevamo, gli specchi si interfacciano.
Che tratti di bambini angelici (Ricky), di adolescenti omicida a loro volta in balia di un orco assassino (Amanti criminali), o di mogli da piedistallo che si rivelano capaci dirigenti d’azienda (il divertente Potiche – La bella statuina), Ozon è un abile manipolatore di generi (come lo era anche il suo omonimo Truffaut) che tiene sempre ben salda l’attenzione dello spettatore sul mistero che ci portiamo appresso, sulle svolte non sempre imprevedibili delle situazioni, sulla capacità che ha l’arte di unire e fare da monito universale: dalla poesia di Paul Verlaine che Anna recita ad Adrien in ricordo di Frantz, al quadro di Manet, Le Suicidé, che infonde alla donna una strana, curiosa voglia di vivere.
Accurato e coinvolgente, con momenti di intensa poesia visiva, in Frantz permane un’ambiguità di fondo che rende la vicenda sentimentale, prima ancora di quella umana, già votata al fallimento, all’impossibilità di essere, eppure (o proprio per questo) Ozon ci concede uno spasimato e casto bacio di rara emozione. Vada come vada, che ci sia di mezzo una stazione, l’orientamento sessuale, qualche impedimento contingente o la morte, ogni storia d’amore è un più o meno lungo addio.

Enrico Carli
Enrico Carli vive a Senigallia (AN). Ha pubblicato un romanzo breve, "L’uomo in mare" (Ventura Edizioni). Suoi racconti sono apparsi nelle raccolte "3x9 - Tre scrittori per nove racconti" (Grinzing); "Taccuino di viaggio nelle terre del duca" (Weekend&Viaggi); "Pagine Nuove" (Cattedrale); "Tremaggio" (Ventura Edizioni); "Tutti i gusti" (Ventura Edizioni). A gennaio 2020 uscirà il suo romanzo "Tupilak o come si diventa sciamani". Scrive di cinema su Argonline.it