Da grandi poteri derivano grandi responsabilità ⥀ Su “Freaks Out” di Gabriele Mainetti

Una lettura critica di Freaks out, l’ultimo sforzo registico di Gabriele Mainetti, autore di Lo chiamavano Jeeg Robot

 

Il cinema di Gabriele Mainetti, sin dai suoi esordi come regista di cortometraggi, è incentrato su storie di emarginazione raccontate con il linguaggio dell’epica fantastica, supereroica. Se nel 2016, però, Lo chiamavano Jeeg Robot irrompeva nell’immaginario italiano come un ufo, oggi, dopo quattro anni di serie Netflix, come Ombrella Academy, e di cinecomic Marvel a profusione, su Disney Plus, l’effetto non è più lo stesso. Mainetti lo sa e ha dovuto forzare la mano. A una prima visione Freaks Out appare una maionese impazzita, in cui il cinema western si sovrappone al cinema di guerra che irrompe su un impianto scenografico che rinvia a Freaks di Tod Browning. Non si è così sicuri di avere a che fare con una maionese impazzita, però. Resta il dubbio. Viene voglia di rivedere il film. E rivisto, ogni stilema di genere si dispone alla perfezione nella timeline del plot.

 

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Il film fila via, liscio come l’olio. Il punto forte di Freaks Out è proprio questo, in effetti: fa venire voglia di rivederlo per capire cosa si è visto davvero. I freak con i superpoteri a Roma nella seconda guerra mondiale. Il pitch, che ha convinto Mainetti a girare e coprodurre proprio questo film, è in linea con la tendenza all’ibridazione dei generi dell’industria culturale contemporanea. Da questa idea di partenza Mainetti e lo sceneggiatore Nicola Guaglianone, duo che lavora insieme dal 2004, hanno costruito una storia che avrebbe dovuto parlare di diversità, nelle intenzioni del regista, interessato addirittura a intervenire, con la leggerezza del fantastico, sull’attuale ondata di xenofobia. In realtà, a ben guardare, dall’inizio alla fine al centro della scena non c’è la diversità ma l’amicizia, nell’emarginazione. I diversi, la ragazza elettrica Matilde (Aurora Giovinazzo), l’uomo lupo Fulvio (Claudio Santamaria), l’uomo insetto Cencio (Pietro Castellitto) e il nano Mario (Giancarlo Martini), sono tali solo a parole, in effetti. Nei fatti quasi tutti i personaggi del film sono freak, dai nazisti balordi ai partigiani poveri diavoli, quindi sono tutti uguali nella loro diversità. A essere messa a fuoco non è la diversità dell’uomo lupo, per esempio. A parole Fulvio dice di non avere speranza all’infuori del circo ma in realtà è perfettamente a suo agio nel suo mantello di peli e nei suoi muscoli. La sua mancanza di disagio è evidente negli atteggiamenti da narcisista (si pettina e si riavvia il ciuffo, costantemente), nello sfoggio della sua forza e nella conquista di una bellissima donna lupo.

Nel profondo un’altra storia invece si impone: il film racconta la difficile costruzione dell’amicizia, che è una forma di micro alleanza, una prefigurazione di ciò che è necessario per combattere e vincere. La banda di circensi protagonista del film è affratellata dalla comune emarginazione. Sopravvive perché si ricompatta. Le scene di gruppo (nel tendone, attorno al fuoco del bivacco, nel campo di battaglia, sullo sfondo di Roma) aprono e chiudono l’opera. È una storia alla Spielberg, ma con il pulp, la cinefilia e la voglia di riscrivere la storia di Tarantino. Mainetti appartiene alla generazione senza padri, colpita da quello che Massimo Recanati ha definito il «complesso di Telemaco». Infatti in Freaks Out la protagonista Matilde non ha un padre e va alla ricerca del padre adottivo, Israel, direttore del circolo Mezzapiotta. I padri ormai sono scomparsi, però, e possono solo essere presi in prestito. Ecco allora che Israel, quando non potrà più fare da padre adottivo a Matilde, farà da padre provvisorio a un altro bambino. E lo confesserà a Matilde quando la incontrerà di nuovo.

 

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La mancanza del padre, del resto, induce in Matilde il bisogno di riallacciare i legami con i pari, di ricostruire la comunità. E quelle che sfilano in Freaks Out sono comunità provvisorie, che si rafforzano nella lotta. Questo non emerge con chiarezza, purtroppo. Il film perciò rischia di perdersi nelle sottotrame, a partire dalla vita del villain, il freak nazista Franz (Franz Rogowski), fino alla guerriglia dei partigiani contro i nazisti, condotta dal Gobbo (Max Mazzotta). In realtà, se si presta la dovuta attenzione, anche il freak nazista è alla ricerca di una comunità alternativa, perché dalle sue profezie sa che quella di appartenenza è condannata alla sconfitta, e vorrebbe diventare il leader dei quattro circensi, da lui soprannominati «fantastici quattro». E i partigiani sono la comunità provvisoria in cui trova riparo Matilde quando si allontana dai compagni.

Avere scelto come ambientazione la seconda guerra mondiale e la persecuzione degli Ebrei, tuttavia, ha messo Mainetti di fronte a fatti storici su cui almeno un paio di leggerezze non sono perdonabili. La scena del rastrellamento dipinge i nazisti come balordi che si lasciano fregare da una donna italiana, andata in soccorso di una madre e in grado di salvare il suo neonato, fingendo di esserne la vera madre – scena di eroismo dal basso, sganciata dal resto del film, gratuita nella sua inverosimiglianza. Tutta la questione degli Ebrei sembra più un pretesto per sfoggiare i superpoteri dei protagonisti che un dramma storico da trattare con le dovute maniere. Non sarebbe stato meglio rinunciare all’ambientazione storica e trasportare tutto nel fantastico, con un gruppo di cattivi paranazisti? No, sarebbe stato meglio dare più profondità e usare più rigore nella messa in scena dei nazisti. Infine, nella risoluzione finale non può non balzare agli occhi l’analogia con le immagini di Hiroshima. Anche la liberazione quindi coincide con la devastazione. Solo che la storia la scrivono i vincitori. La contraddizione doveva essere messa in evidenza.

 

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In generale la cifra stilistica dell’autore si era contraddistinta finora per l’uso dell’immaginario supereroistico in chiave umanistica, quasi pasoliniana. Ora le esigenze di budget potrebbero spingere il regista a conformarsi alle leggi del mercato, inducendolo a piallare le asperità dell’animo umano e digitalizzare la grana della pellicola, puntando diretto verso prodotti di intrattenimento che non inducano a porsi domande ma a riconoscerne solo la volontà di potenza. Un’altra strada, più feconda, che appare all’orizzonte, non solo di Mainetti ma anche di Matteo Rovere, altro esponente di spicco di questo nuovo cinema (trans)gender italiano, è quella di costruire film che sappiano raccontare l’umanità contemporanea, o ancora meglio la creatura che amava chiamarsi umana, con le armi del genere. La maestria di Mainetti è indubbia. La sua ambizione da affrescatore michelangiolesco anche. Ora aspettiamo la terza prova. Da grandi poteri derivano grandi responsabilità.