Gilgamesh ⥀ L’epopea di colui che tutto vide

Pubblichiamo, per gentile concessione degli autori, un estratto del copione di Gilgamesh. L’epopea di colui che tutto vide, e della nota introduttiva. Lo spettacolo, che sarà recitato da Luigi Lo Cascio, Vincenzo Pirrotta, Giovanni Calcagno e prodotto da Emilia Romagna Teatro ERT, per la regia dello stesso Calcagno, andrà in scena, al Teatro Storchi di Modena, dal 2 al 5 febbraio 2023. Maggiori informazioni qui

 

E mentre io guardo la tua pace, dorme
Quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.
(Ugo Foscolo, Alla sera)

Note di introduzione alla lettura

Circa due secoli fa, negli scavi della biblioteca di Assurbanipal a Ninive, gli archeologi portarono alla luce una serie di tavolette. Quando fu decifrata la scrittura cuneiforme, si scoprì che si trattava di un poema il cui titolo coincideva con il primo verso: Di colui che vide le profondità e le fondamenta della terra.

Gilgamesh si presentò così, a noi occidentali. Quando ne lesse una prima traduzione, Rilke ne rimase devastato, affermando di non aver letto mai niente di così potente, e lo stesso tipo di reazione ebbe pure Elias Canetti, che dopo averne ascoltato alcuni brani recitati da un suo amico attore, affermò di aver sentito la necessità di confrontarsi con questo testo per tutta la vita.

Anch’io, nel mio piccolo, sono rimasto folgorato quando ho potuto contemplare, al Museo delle civiltà anatoliche di Ankara, i bassorilievi ittiti che rappresentavano gli episodi salienti dell’epopea. Era il 2006, e da allora questa meravigliosa storia continua a procurarmi uno strano senso di necessaria inquietudine. Per questo, così come hanno fatto chissà quanti contastorie prima di me, cerco di tramandarla, raccontandola a chi non la conosce. Dopo due esperimenti di messa in scena – il primo nel 2009, il secondo nel 2020 – questo testo va in stampa in prossimità del debutto, nel febbraio 2023 al teatro Storchi di Modena, della narrazione integrale del poema, spettacolo prodotto da Ert – Emilia Romagna Teatro – e voluto dal suo direttore Valter Malosti, grazie alla proposta di Luigi Lo Cascio, che insieme a Vincenzo Pirrotta e a me compone il trio di narratori che affronterà il lungo viaggio di Gilgamesh e di Enkidu. […]

Gilgamesh è la storia di un uomo che, dopo aver sperimentato sulla propria pelle il dolore per la morte del suo migliore amico, lascia il suo trono e gli agi di corte per andare alla ricerca della vita eterna e della verità sulla caducità dell’esistenza.

La versione classica di quest’epopea, quella che ci è pervenuta nel miglior stato di conservazione, fu elaborata a Babilonia tra l’ottavo e il settimo secolo a.C. da un sacerdote esorcista di nome Sileqiunninni, che probabilmente ricucì il lavoro fatto da scribi e aedi per due o più millenni. Gilgamesh, attraverso le testimonianze che ci derivano dagli Assiro-Babilonesi, dagli Ittiti e dagli Hurriti ci apre così una vista sui misteri della conoscenza e della sapienza di una delle civiltà più evolute a noi conosciute, quella dei Sumeri.

Molti sono stati gli studiosi che hanno cercato di dare un senso alle avventure di Gilgamesh insieme al suo amico Enkidu e al successivo viaggio del re di Uruk ai confini del mondo. C’è chi ha associato Gilgamesh al sole ed Enkidu alla luna, chi ha visto nelle 12 tavolette la narrazione dell’avvicendarsi delle influenze degli astri sul nostro pianeta nel ciclo di un anno, chi ha interpretato con il metro della psicologia moderna questa saga e l’ha ritenuta un romanzo di formazione. C’è ancora chi ha considerato Gilgamesh solo un eroe, chi lo ha visto come un dio o come un semi-dio, chi se l’è immaginato come un personaggio storico, chi pensa invece sia stato storicizzato, chi crede infine che Gilgamesh sia solo un mito.

In cuor mio, ho sentito da subito qualcos’altro che ho ritrovato perfettamente espresso nelle parole di Giorgio Buccellati nel suo saggio del 1971, Gilgamesh in chiave sapienziale – l’umiltà dell’anti-eroe:

«La ricerca della vita (eterna) non deve essere più considerata, se la mia lettura è corretta, come il tema centrale del poema. Certo, Gilgamesh è pur sempre presentato come l’eroe che è in cerca di fama e poi, dopo l’esperienza dell’amicizia e della morte di Enkidu, in cerca della vita (eterna): ma ciò diventa, in effetti un pretesto narrativo per mostrare ben altra tesi. L’enfasi è spostata dall’oggetto della ricerca in quanto tale ai presupposti su cui è basata e alle conseguenze cui conduce: queste conseguenze non sono esterne, come lo sarebbe il perseguimento di un bene, foss’anche la vita fisica, ma sono interne, profondamente psicologiche e si accentrano sul mutamento spirituale del soggetto che la ricerca ha intrapreso. Perciò la conclusione è compiuta e perfetta: Gilgamesh non è un campione temporaneamente sconfitto e a cui resta solo da ritentare, ma un uomo per cui la sconfitta diventa un nuovo punto di comprensione delle vere dimensioni umane della vita. È una conclusione malinconica e inconcludente da un punto di vista eroico; da un punto di vista sapienziale, invece, è una conclusione piena che non ammette ulteriori sviluppi».

(Giovanni Calcagno)

 

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Capitolo 12 – Il Lontano

Sulla battigia
li accolse Utanapisti
e chiese al suo barcaiolo
che ne era stato
degli ‘“uomini di pietra”.
Osservò Gilgamesh
che sfinito
si prostrava
in ginocchio
davanti a lui,
e realizzò
che il suo viaggio
doveva essere stato
lungo
e pieno di ostacoli,
e che il suo cuore
era afflitto
da angosce profonde.
Lo prese
per un braccio
e lo aiutò a tirarsi su.
Insieme cominciarono
a risalire la spiaggia
addentrandosi nella terra ferma.
Gilgamesh gli parlò
della morte di Enkidu,
e del suo terribile dolore:

Dunque anch’io
un giorno
mi adagerò
al suolo
senza potermi
più rialzare.
Anch’io,
come il mio amato Enkidu,
ritornerò argilla.
Per questo sono qui.
Mi sono detto:
“Andrò a cercare
Utanapisti il Lontano,
per chiedergli
del destino dell’uomo
e della Vita eterna
che solo a lui
gli dei hanno donato”.
Ho viaggiato
nelle tenebre,
superando varchi inaccessibili.
Ho scalato
le altezze più vertiginose
e certamente non può dirsi
che io mi sia saziato
di buon sonno.
Che cosa ne ho avuto in cambio?
Mi sono sfinito.
I miei muscoli
sono lacerati
come le mie vesti.
Prima di arrivare
alla taverna di Siduri
ho dovuto affrontare
leoni e pantere,
orsi e iene.
Ho dovuto
mangiarne la carne
e indossarne le pelli.
Ah, se solo questa angoscia
che porto
dentro al petto
si potesse otturare
come si tappa
la falla di un muro.
O me misero
e disperato!
È il destino
a non volere
ch’io gioisca.

Urshanabi, il barcaiolo,
che fin lì li aveva accompagnati,
a una occhiata di Utanapisti
si fermò,
e li lasciò proseguire da soli.
Dopo un bel pezzo di camminata
consumata nel silenzio,
Utanapisti rispose
al re di Uruk:

Quando gli Dei ti hanno creato,
Gilgamesh,
ti hanno donato una carne
e una sostanza

al tempo stesso
umana e divina.
Ti hanno inoltre
assegnato un trono.
Solo uno stolto
scambia il grano
con la crusca
o il burro
con la feccia.
Rifletti bene.

Perché ti strazi tanto
nella disperazione?
Che cosa ci guadagni?
Stai solamente
consumando il tuo corpo
avvicinandoti più in fretta
alla tua fine,
che per tua fortuna
è ancora lontana.

L’esistenza dell’uomo
è come una canna
sul letto di un fiume:
deve essere tagliata.
Se guardi un bambino,
o una giovane donna,
puoi scorgerne già
sul viso
i segni impietosi
dell’ombra della Morte.
La Morte che nessuno ha mai visto,
la Morte spietata,
che come una falce
imperversa
sui mortali.

Nulla permane,
Gilgamesh.
Nulla.
Costruiamo forse case
che durano per sempre?
I nostri giuramenti,
le nostre promesse
sono valevoli
per sempre?
La piena di un fiume
non dura per sempre.
Persino l’odio
sulla Terra
non sopravvive
per sempre.
Come sciami di mosche
stecchite per terra,
di colpo,
non resta più nulla
di intere moltitudini
di esseri umani.

Dormienti e morti,
come sono simili.

Gli Annunaki,
i Grandi Dei,
ci hanno imposto la vita.
Ci è dato di viverla
e non possiamo sapere
quando la lasceremo.
Ricordati però
che la ninfa della farfalla
solo spogliandosi
della sua larva
può vedere il Sole
e la sua gloria.

Utanapisti
viveva con sua moglie,
che benignamente
accolse Gilgamesh,
e lo ristorò
con un buon pasto.

Mentre mangiava,
il sovrano di Uruk,
sembrava
riordinare i suoi pensieri.

Ti ho osservato,
Utanapisti,
ricominciò d’improvviso.
Non c’è niente
di diverso
nel tuo corpo
rispetto al mio.
Se si eccettua
solo il fatto
che dentro al tuo petto
non batte più un cuore,
siamo uguali.
Ti vedo qui,
davanti a me,
sdraiato in terra
comodamente,
senza far niente.
Eppure sei l’uomo
che ha cercato
e trovato
la Vita eterna.
Come hai fatto?
Chi ti ha ammesso
al Consiglio degli Dei?

Utanapisti
diede uno sguardo
a sua moglie.
Da sdraiato che era,
si tirò su,
senza fretta,
e incrociate le gambe,
si mise comodo
come per cominciare
un lungo racconto.

Sei pronto
ad ascoltarmi
attentamente?
Così cominciò il Lontano,
perché voglio rivelarti
un grande segreto.