Gli spazi impazziscono ⥀ “Là fuori” di Corrado Benigni

Corrado Benigni, un «rilkiano» che «crede ancora in Dio»: recensione della raccolta di poesie Là fuori, una meditazione generale sullo spazio

 

Prima che plaquette (categoria che si attiva implacabilmente quando il numero dei testi poetici è molto contenuto) o iconotesto (altra definizione che Andrea Cortellessa, grande esperto dei rapporti tra poesia e arti visuali, ritiene impropria, in questo caso), Là fuori di Corrado Benigni (Valigie Rosse ed., 2020, premio Ciampi) sembra avere le fattezze di un cuneo. Non una zeppa, tuttavia, né un cuneo destinato a spaccare la superficie che l’accoglie: se, nella preziosa nota finale di Paolo Maccari (consuetudine delle edizioni Valigie Rosse, nelle quali il poeta e critico fiorentino è coinvolto sin dalla fondazione), si parla legittimamente di «persistenze e innovazioni» (p. 42) rispetto ai precedenti libri di Corrado Benigni – Tribunale della mente (2012) e Tempo riflesso (2018), entrambi per Interlinea – Là fuori è anche un libro a sé stante, che entra nella materia dei precedenti testi, lacerandola e venendone lacerata, così come produce dissimmetrie, tensioni e finanche ferite il rapporto, all’interno di questo stesso libro, fra i testi dell’autore bergamasco e le fotografie di Olivo Barbieri.

Con queste ultime parole – «dissimmetrie», «tensioni», «lacerazioni» e «ferite» – dalla scarsa precisione critica, probabilmente, ma dalla forza evocativa se non iperbolica certamente autonoma, si intende qui estremizzare quel che già fa Paolo Maccari nella sua nota e cioè ricordare un passaggio di questo affascinante dialogo tra Corrado Benigni e Tommaso Di Dio: «La fotografia, inoppugnabile come prova ma debole di significato, riceve un significato dalle parole. Insieme esse diventano molto potenti. Tuttavia a me interessa rimanere nell’ambiguità, che può offrire alla fotografia un mezzo di espressione eccezionale. Questa ambiguità suggerisce un altro modo di “raccontare”, esattamente ciò che fa la poesia, che non è mai esplicativa, descrittiva, ma evoca, suggerisce altro, è una superficie di riflessi e prospettive multipli». Scavando in quel «tuttavia», come fa Maccari, si arriva infatti a dare una prospettiva obliqua su questo stesso discorso, rapportandolo alla poetica di Benigni, ma anche alle diramazioni impreviste del discorso stesso.

È così che l’evocazione devia dalle possibili derive misticheggianti della sua applicazione concettuale e metodologica alla scrittura poetica e ritorna, più precisamente, a un potenziale della fotografia che anche Benigni ricorda, nello stesso dialogo, rinviando alle parole di John Berger:

«Le foto non traducono dalle apparenze. Le citano».

Citazione che in questo gioco di specchi – di «riflessi» e «prospettive multiple», per usare le parole dello stesso Benigni – può essere appropriata anche alla scrittura poetica, oppure trasferita verso altri campi artistici. È quello che ha fatto lo stesso Berger nella sua opera, accostando al suo noto impegno critico in ambito fotografico un’intensa attività, tanto critica quanto autoriale, con modalità artistiche ancora diverse, almeno superficialmente, come il cinema o, d’altro canto, il disegno.

C’è qualcosa, dunque, che si incunea tra scrittura e fotografia evitando che il dialogo sia del tutto pacificato – come potrebbe esserlo, oggi, in un contesto in cui le scritture poetiche hanno intrapreso percorsi variamente divergenti rispetto al dominio delle immagini nella «società dello spettacolo» (o nelle sue successive trasformazioni post-debordiane)? – e rendendo provvisoria ogni redenzione: «Così il tempo trova in noi / la sua durata, la sua salvezza, prima che tutto torni nell’occhio della Medusa» (p. 36).

Oltre alle tematizzazioni più evidenti, ne è sintomo una scrittura densamente interrogativa, nella quale le domande non manifestano più soltanto l’«astratta incisività sapienziale» (di nuovo Maccari, p. 39) dei libri precedenti, ma iniziano un processo di lacerazione dello spazio testuale che, al di là dei punti di domanda, trova infine il proprio correlativo, ma anche la propria intensificazione, nei grafismi che emergono dalle fotografie di Olivo Barbieri.

Immagini intitolate Site Specific e scattate in diverse città italiane e del mondo – Napoli, Genova, Milano e Rio de Janeiro, nel libro – che, soprattutto per quanto riguarda le prime due foto in ordine di inclusione, fanno emergere linee e grafismi più astratti di quelli che si potrebbero immaginare pensando alle categorie convenzionali di fotografia urbana. In una interessante analogia con fotografie di altri spazi, meno urbanizzati e, in generale, antropizzati, questi grafismi ricordano anche le Storie di terra (1984) di Mario Giacomelli, un altro fotografo – fortemente influenzato, peraltro, da Alberto Burri – della cui opera Corrado Benigni è stato curatore, insieme a Mauro Zanchi, in occasione della mostra “Terre scritte”, allestita a Bergamo nel 2017, e del relativo catalogo.

Del resto, la scrittura di Benigni, in particolar modo in quest’ultima opera, si configura come una meditazione più generale sullo spazio fuori – senza concedere facili aperture retoriche riguardanti il periodo di confinamento che si è avuto con il lockdown pandemico (presumibilmente, tra l’altro, dopo l’effettiva stesura del libro) – a partire da un motto di Luigi Ghirri riportato in esergo a uno dei primi testi: «Aprire il paesaggio, dislocare lo sguardo» (p. 18).

Ancor più che Ghirri, la ricerca sullo spazio finisce per invocare il nume tutelare di Rainer Maria Rilke, con quell’ottava Elegia duinese, che invece è citata come epigrafe all’intero libro:

«Non abbiamo mai dinanzi a noi, neanche un giorno, / lo spazio puro […] sempre c’è mondo / e mai quel nessundove senza negazioni».

Niemals Nirgends ohne Nicht, nel dettato rilkiano, dove si anela ma non si può raggiungere das Reine, / Unüberwachte, das man atmet und / unendlich weiss und nicht begehrt («la purezza, / l’incustodito, che si respira e si sa infinita / e si brama», in traduzione di servizio). Più che alla purezza – destinata a una divina, o, per altri versi, estremamente terrena, follia, ossia a quell’impazzimento che è qui richiamato nel titolo (per misquotation di un noto, fondamentale libro di James Clifford) – e all’incustodito, la scrittura poetica è destinata all’esposizione in campo aperto, dove «non c’è nessun vero riparo» (p. 37), ma almeno «lo sguardo che fa entrare l’esterno / salva da ogni cancellazione» (p. 37).

Non più un «kafkiano che crede in Dio» – come da precedente definizione di Mario De Santis – ma un «rilkiano» che, tutto sommato, «crede ancora in Dio», Benigni trae provvisorie e intermittenti luci di salvezza, dove «[t]utto scompare per eccesso di realtà», ma «nel silenzio» si trova ancora «la legge di ogni durata» (p. 33). Benigni consegna queste luci ai lettori che rimangono, infine, là fuori rispetto al suo libro, in quella lacerazione conflittuale della comunità (letteraria e non), dove «[o]gni cosa è accomunata / da un disperato desiderio di persistenza, / da un identico destino di creatura» (p. 37).

 

 

Tutto scompare per eccesso di realtà.
Entriamo così, a piccoli passi,
in un mondo che ci espelle.
Digitale è l’impronta
che non lasciamo di noi,
mentre un’erosione dà forma a ciò che scorre,
come il bianco intorno alle parole
che rende udibili le voci.
Nessun tempo misura il tempo.
Nel silenzio, la legge di ogni durata.

 

 

Siamo qui. Siamo su una superficie.
Siamo la superficie. Ciò che non appare
e rimane informe all’evidenza,
l’orma del passo sulla ghiaia, suono in una pietra.

«Chi siete voi fra i muti?», domanda una voce,
in questo paesaggio che è già erosione.
Solo l’attesa coniuga il buio alla luce del giorno,
il visibile a ciò che non esiste.