Gli strati del visibile: vita latente e patente dell’occhio ⥀ Fly mode di Bernardo Pacini

Pasquale Pietro del Giudice presenta ed esplora la nuova raccolta di Bernardo Pacini, Fly mode, Amos edizioni, 2020

 

Gli uomini, bisogna vederli dall’alto.
J. P. Sartre, Erostrato, Il muro

 

I libri di poesia non andrebbero letti, tutt’al più fiutati, sniffati, in un’alterazione dei sensi, accresciuti o diminuiti, attraverso occhi ulteriori, radar immediatamente sensibili all’esperienza delle forme. La percezione della forma sfugge al calcolo, alla mera somma delle parti. La forma rende il testo se stesso, qualcosa di più e di meno di se stesso, memoria del gusto, sintesi intuitiva e olfattiva degli ingredienti della totalità di un libro; tuttavia, nemmeno la forma sopravvive a se stessa e alla sua caducità, nella presunta linearità della storia, nei presunti superamenti e ripescaggi di stile. L’atletismo dei poeti è sempre utopico e l’illusione dell’ex novo è il miele che più li seduce. Ogni poeta, dunque, porta in sé una divinità e una natura orsina; così, nel suo quarto libro di versi, Fly mode, edito da Amos edizioni, Bernardo Pacini, poeta fiorentino, classe ’87, nelle prime pagine, immedesimandosi in un grande orso blu, cerca di prendere la palla al balzo, compiendo un salto formale e antropologico:

«All’esterno si vede bene/ l’orso blu al finestrone:/ guarda dentro/ la bazza/ a millimetri dal vetro./ Per quanto ancora non ci creda/ sono io, sono solo un/ grosso orso blu/ che guarda dentro» (pp. 15-16).

Tecnica e prospettivismo

Fly mode, pianta bulbosa, cipolla di 90 fogli, che come l’occhio comprende sfere del visibile, altezze, visuali e intrecci di visioni, irradia campi patenti e latenti, attivi e passivi della percezione, sub ed extra coscienziali, nella sincronia della frase. A partire dalla prima sezione del libro, distorcendo il falco montaliano, Alto levato drone, nella registrazione di un anacronismo, che è l’uomo stesso conosciuto nel suo umanesimo, nei suoi scaduti paradigmi, nel contesto di un mondo tecnicizzato, Pacini accetta la sfida di rintracciare l’immagine del suddetto essere attraverso la cancellazione del suo centro lirico, facendone emergere la mancanza o la nuca attraverso un uso particolare del prospettivismo. In questo modo viene a galla il tema dell’uomo di sempre, la domanda sull’identità, il vissuto, l’amore e la memoria affettiva e collettiva, non frontalmente, in modo scoperto ma in negativo, lateralmente, come differenza dal sistema geometrico della tecnica, contestualmente senza giudizio, senza il rimpianto dell’uomo perduto ma aprendosi alle possibilità inedite di un suo ripensamento. La tecnica, non più nemica, diventa strumento creativo, liberata dai residui reazionari che contrapponevano la presunta autenticità resistente di un io all’inautentico del tecnologico. L’oggettistica della contemporaneità, in questo contesto, risulta inserita in un progetto e una visione del mondo partecipativa, aperta a una diversa declinazione della propria cifra nel mondo; oltre la terza persona e la dissimulazione meccanica dell’io, guardandosi vivere da un impensato, dal punto di vista aereo e da quello degli oggetti, da un non tempo che ci restituisce – paradossalmente – alla ricalibratura della nostra contingenza mortale.

«Abissato in questo sogno meridiano / immobile / nella tratta dei venti / io vedo tutto» (p. 15).

«E se di notte devo ricostruirti, prezioso mio panorama / se devo ricomporti byte per byte nella memoria / della mia videocamera» (p. 24).

«Io, drone alto levato / sono un prototipo-campione / di umanità / il mio status corrente di innocuo bombo radiocomandato» (p. 25).

«Inebetito dal tepore delle luci soffuse della docking station / percepisco la corrente elettrica in tutto il corpo / questo accade: un’alluvione, lo sento chiaramente / avvolge le mie celle litio-polimero quando sono in modalità riposo / una sorta di meditazione vicina al sonno ristoratore / eppure un’infusione di potenza / fino a un massimo misurabile» (p. 58).

L’autore, regista o joystick divino, attraverso immedesimazioni, furti di sguardo, slittamenti di coscienza, lavora con i depistaggi e le inquadrature di un drone immaginario, in cui il vedere e l’essere visto si confondono, in una continua umanizzazione del linguaggio della macchina e divenire macchina della prospettiva umana, in cui l’irriconoscibilità e la mescolanza dei due mondi dà vita a un parlante ibrido e dunque, destabilizzante, perché sottoposto al dubbio distanziante sull’identità di chi dice io.

«Sono io, pezzo di modellismo spento / aggeggio di livello amatoriale / imbussolato in gimbal / io che aspetto nella gorgia della mente / che si carichi del tutto il mio Li-Po / (se poi mi schianto il mio cuore viene sostituito con un pezzo al top della gamma)» (p. 24).

«Credo sia tutta una questione / di bassa autonomia / la batteria che cala troppo presto / il falso peso di una pietà virtuale dello sguardo / che quanto più registra tanto meno guarda / eppure ammetterai / che tale elevazione / è pura trascendenza» (p. 25).

Questa ambiguità è il thermos che tiene caldo il libro e non lo risolve. In questa prospettiva l’uomo è e non è qualcosa di soggettivo, è e non è il proprio io, è io essendo, prima e durante il suo farsi e legarsi agli altri, altro e se stesso, ovvero essere, network dormiente, organismo, rete di visioni possibili, satellitari, carnali ed elettroniche, paesaggio, mondo, ubiquità di segnali e sguardi relati. Potremmo, a tal riguardo, scomodando e distorcendo, come già fatto in precedenza, termini heideggeriani, parlare di una caduta dell’esserci nello smemorarsi dell’essere, in un ping pong di intercettazioni e nascondimenti. Si legga, a tal proposito, la poesia Underwater drone:

«Avrei potuto essere quel drone di New Orleans / attraversare indenne la Hot Tub of Despair… / Sul fondo di mari silenziosi / fissare malinconico / a ritmo di crociera la sterminata vasca di gas e salamoia / miasmatico acquitrino di metano / nel braccio messicano dell’oceano / filmando carcami e filacci di pesci impazziti» (p. 60).

oppure, Pilota remoto:

«Intanto Google Street View: tu che spiri come bora per le strade / assorbito da un grottesco punta e clicca / – in Cappadocia / c’è un festival di mongolfiere, il disegno stampato / sulla pelle tirata dei teloni ti ricorda / l’etichetta concentrica dell’aranciata / alla festa del tuo ottavo compleanno…» (p. 60).

I precedenti

Le strategie elencate, per chi la conosca, non sono nuove alla poesia paciniana, infatti, nonostante la menzionata utopia, di un perfetto primo giorno o primo parto creativo ex nihilo, è più sensato riconoscere che non si nasce compiuti e la caccia ai precedenti è un gioco interno ed esterno al proprio bosco di influenze. Si è precedenti di se stessi, di qualcun altro e di qualcun altro si subisce la precedenza. Fly mode, in quest’ottica, rappresenta la sintesi imperfetta, dunque mobile, futuribile, delle pubblicazioni antecedenti dell’autore, ne testimonia lo sviluppo e la direzione. Tracce di Cos’è il rosso (Edizioni della meridiana) del 2013, esordio di Pacini, libro scultoreo, boccioniano, anti-lirico che non esce dalla lirica, che vive la crisi del soggetto senza uscirne, sono rintracciabili in Fly mode nelle intersezioni di sguardo, nella narrazione del quotidiano e nel gusto del preziosismo linguistico. Nel primo libro il tutto declinato secondo stilemi novecenteschi, ora riletti alla luce di un progetto che rende quei residui qualcosa di diverso, grazie alla giustificazione inedita del loro contesto. In Fly mode, in una rivoluzione copernicana, al soggetto al centro del mondo si sostituisce l’oggetto.

Dove prima il rosso invitava a soffermarsi orizzontalmente sul linguaggio, come di fronte a degli incroci o a dei pericoli che proponevano un loro superamento attraverso inferenze creative, ora il linguaggio sembra, grazie agli itinerari dronici, intraprendere un gioco di altezze, passando così da una prospettiva automobilistica a una diversa, aerea. Del secondo volumetto dell’autore, diafano e distillato, Perfavore rimanete nell’ombra del 2015 (Origini edizioni), libro ellittico, di trattenimenti formali e percezioni capovolte, ricerca dello spezzato che apre il verso al possibile, il libro del 2020 conserva la coincidenza di molte visioni, di percezioni fulminee sovrapposte in una stessa frase, l’incedere per immagini e la fenomenologia della vista, passando dalla densità del microfotogramma alle esplorazioni nomadi e mobili del drone. La drammatica evoluzione (Oèdipus), infine, plaquette illustrata del 2016, attraversamento di forme tradizionali e insieme dell’infanzia, utilizzava lo stratagemma dei pokémon per concentrare l’attenzione, come nell’ultimo libro, su un immaginario, una memoria e un’oggettistica contemporanea ma a differenza del suo predecessore l’ultimo libro è più attento a non inciampare nella possibilità del manierismo.

Morte e paternità

Da quanto detto, Fly mode risulta essere un campo di forze dove le pulsioni messe in gioco nei libri precedenti dall’autore trovano una loro riuscita ricollocazione, momento sintetico aperto però al lavoro a venire, attraverso le pieghe e le fessure, volontariamente o meno, ancora aperte. Una faglia, ad esempio, spacca in due il libro: nelle prime quattro sezioni (Alto levato drone, DCIM, Vite in 4K e FAQ), sembra realizzata una rimozione della morte e dell’io, nel tentativo di coincidenza con l’eternità volatile ed effimera delle visioni del drone. L’impersonalità e l’interscambiabilità della tecnica, in cui, quantitativamente, uno vale un altro, nell’assicurazione e nella signoria funzionale della grande macchina mondana, assumono i connotati di un cyberparadiso desiderato, riconquistato nel sogno del planare, antitetico all’ultima sezione (Memoria interna, diario del dronista), in cui la finitezza e la morte si schiantano sul lettore nella loro vicinanza traumatica, nell’esperienza non eludibile del lutto e della propria biografia, che pur allucinatoria e contingente, assume ancora di più il carattere di una paradossale necessità del singolo nella testimonianza, proprio in virtù dell’eternità fittizia, immaginata, registrata nelle prime.

Leibniziano ed escheriano, Pacini è il virus, la spia e l’hacker delle vite degli altri e della propria stessa esistenza – in particolare nella sezione Vite in 4K -, dei propri affetti guardati dall’esterno, nella loro oggettività spaesante, attraverso lo sguardo traslato del drone che ne rivela il peso irrisorio nell’economia del tutto; a tal riguardo si legga il testo Walkera, dedicato alla moglie:

«Ogni giorno che passa sono obbligato a vederti / mentre vai nella direzione opposta / sulla mia stessa linea / lanciata da chi, guidata da cosa, venuta da dove. / Non mi somigli, c’è una strana affinità. Mi piace immaginare / che gli impercettibili scarti nella rotazione dell’elica / le sfumature del tuo amabile ronzio siano messaggi per me […] / Sei sempre dentro di me, letteralmente: / salvata in DCIM, in ordine per data» (p. 54).

Non è cifra solo umana la riflessione ma anche la macchina, con se stessa, è in un rapporto autoriflettente, in una serie di prospettive rovesciate, in un’umana mimesi, in cui è sia l’oggetto a interrogarsi sul creatore che l’uomo sulla sua creatura, il drone. In Docking Station si legge:

«Prima di iniziare una nuova sessione di volo / lo vedo progettare viaggi che non sarà lui a fare / con la stessa rassegnazione di un’ostetrica che / durante un turno di lavoro fa nascere due vite / senza più la sua per lei» (p. 58).

Il manovratore è a sua volta manovrato da una serie di manovre a se stesso inconsapevoli, da cui scaturisce una particolare parentela macchinica tra la servitù del cervello umano e quello del drone, cervello umano a sua volta sottoposto al suo meccanicismo e alla sua programmazione prenatale.

Collodi 2.0. Il poeta fiorentino fa emergere altresì, in filigrana, il tema sfaccettato della paternità, di quanto ogni padre è stato ed è a sua volta figlio e quanto verso il proprio figlio possa provare l’insensata pena e amore che nutre per se stesso. Nella poesia Irreversible return to land (p. 65) il drone nel suo desiderio di essere lasciato acceso per errore, di vedere la stanza in un fotogramma statico, “schermata dal contenitore di polistirolo” che gli “ottunde la vista” sembra assumere lo sguardo di un mansueto animale o di un bambino nella sua culla che osserva gli spazi nel segreto del suo linguaggio. Non a caso, considerando alcune dediche (Aerofotogrammetria, p. 20, per Riccardo Pacini, Gabbia Azzurrina, p. 29, in memoria di Ignazio Pacini) la mappa nascosta del libro potrebbe richiamare la forma di un albero genealogico, con al cuore il diario del dronista, dopo un immaginario diario dronico, in cui è l’uomo Bernardo, attraverso la prosa, a intessere il proprio registro creaturale, di nipote, di figlio di altri figli, in cui la dimensione della cura reciproca è lo specchio in cui riconoscere la narrazione di sé attraverso il racconto degli altri. Gli oggetti, uno su tutti «il telefono con le rotelle che era a casa dei nonni» (p. 77), in queste prose finali, sono i proustiani grimaldelli che aprono le porte del ricordo e della ricostruzione della propria infanzia attraverso il graduale avvicinamento ai rudimenti delle cose.

Esserci ed essere, poesia e prosa

Da quanto evidenziato, si evince dunque nel libro di Pacini una spaccatura che separa due continenti, due placche di forza e due altezze della vita che compiono la stessa esistenza, in qualche modo, conviventi. Una – spossessata – del mondo, visto per se stesso, dagli occhi di nessuno, che contiene la molteplicità degli io, come stesse parti mondane e funzioni necessarie al compimento della totalità e l’altra in cui il soggetto fa esperienza irripetibile della propria carne parziale, dall’orizzonte della propria circostanza. Queste due prospettive, verticale e orizzontale, disgiunte da un diaframma che nel libro porta il nome di Appendice, vengono mostrate nella loro antitetica e paradossale coabitazione che non ammette sintesi ma implicazione di un lavoro ininterrotto. La biografia si mostra come sacca – necessaria – della vita del mondo che scorre, carsicamente, sotto la pelle dell’individuo, falsificato e inverato dall’emersione quotidiana, dal dovere di dire io.

In questo modo si mostra il dolore e l’obbligo dell’esserci, di compiere l’essere nel suo nascondimento, essere ingranaggio, essere parte, creatura del tutto senza poterlo essere, dovendo ricadere nei propri occhi e nello spaesamento delle proprie mani. Non si tenta, a mio avviso, un superamento o un annullamento di una visione nell’altra o di una attraverso l’altra ma la tentazione o il tentativo del libro mi sembra quello di metterci sotto gli occhi la vicinanza dell’io nell’indifferenza tragica del compiersi dell’intero. Coesistono nella corteccia cerebrale un’eredità di specie e la cifra privata della propria storia; così Fly mode tenta l’azzardo di configurare una geologia della visione, la stratificazione della vita patente e latente, toccando in questo modo il conscio e l’inconscio del vedere e del vivere.

Sono gli occhi stessi del lettore a essere invitati a farsi a loro volta droni, sfere prensili lanciate sulle mappature della lingua, che esibisce il suo artificio, confessando la sua stessa menzogna costruttiva, come in un disco progressive è tangibile il filtro e la matematica dell’impianto compositivo. È il drone a fare letteratura, è il diario dronico delle prime sezioni a confessare e interporre tra sé e il lettore la distanza letteraria, la macchina fa poesia artificiosa, lei stessa frutto d’artificio; dove invece più il linguaggio si abbassa fino farsi prosa, più si mostra la frontalità dell’esperienza umana. Agli ostacoli microtestuali si oppone un’intelligibilità macrotestuale e di progetto, gli inceppi sono da rintracciare in alcuni preziosismi o nell’utilizzo del linguaggio tecnico e di fronte a ognuna di queste microstrozzature si è chiamati ad alzare lo sguardo e a interrogarsi sulla totalità del libro. In questo contesto, di residui dizionaristici, citazioni rivificate (da Montale, Valery, Eliot, Buzzati…), anacronismi e linguaggi informatici (flocking, Li-Po, DCIM, 4k ecc…) il messaggio è impedito ma l’elettricità, alterando il suo percorso consueto di senso, continua a passare, diversamente, salvando il testo e il libro dalla morte della lettura lineare.

La difficoltà della parola mette a nudo la sua menzogna e più si innalza il volo del drone, più si innalza la tempra della lingua. L’Italiano alto levato, staccandosi dal suolo del parlato, contempla le sue possibilità, vive e morte, presenti, passate e future. Per queste ragioni, nonostante tracce di ermetismo che tradiscono le origini dell’autore, lo stile, più che al passato o a una regressione a un classicismo fine a se stesso, sembra proiettato verso una iper-contemporaneo, né classico né sperimentale, dunque classico e sperimentale, un arredamento freddo che contempla al suo interno delle chicche linguistiche come oggetti piovuti da un altro tempo o recuperati, tirati a lucido dall’universo arrugginito delle parole in disuso. Paradosso di questa poesia è da un lato la sua radice, il sue legame profondo con l’Italiano, dall’altro la sua estraneità alla tradizione poetica nazionale (anche recente), sembra invece che questa scrittura si nutra e assorba qualcosa sia di altre forme d’arte (il cinema, la fotografia, la musica) sia dalla poesia d’oltreoceano; in questo confermando la nota capacità della poesia di depredare i suoi oggetti dai contesti più impensabili.

 

(Pasquale Pietro Del Giudice)

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