Graziano Gala racconta il dipinto di Paola Coppi | Mixis #2
Dalla tela alla pagina, un dipinto che si fa racconto nel nuovo appuntamento con Mixis.
È con un dipinto di Paola Coppi e un racconto di Graziano Gala che prosegue il lavoro di magnetizzazione e traduzione bio-artistica che la rubrica interdisciplinare Mixis ha voluto e vuole mettere in campo. Il colore, percezione visiva del sensibile, fissato sulla tela si apre e si con-fonde col fluido inchiostro della narrazione.
OBBLIGHI DI SERVIZIO
Mi chiamo Ludovica Paramatti, arrivo qui in metropolitana, ho trent’anni abbondanti quasi trentadue, adoro il giallo, sarò la vostra docente di matematica.
Nel tacchettare nervoso sé movente ad aula vicina a firma acquisita a emozione crescente a primo giorno ufficiale d’incarico lavorativo in scuola del regime alla Nostra, asfittica, le parole pensate da dirsi rimbalzavano nelle orecchie pulsando come chicchi di grano su ardere di brace.
Tranquilla, si diceva, tranquilla, e tranquilla avrebbe voluto essere, ma l’emozione era tanta, il corridoio sfilava meglio delle collezioni autunno invernali e ogni passo d’acquisizione maturato era una sottrazione di metratura a quella trincea che aspettava da tutta una vita: paura, fauci asciutte e palpitazioni più che comprensibili.
Li sentiva, passando, GLI ALTRI.
Aula per aula, un concistoro di voci operanti alla pubblica utilità, un unisono di intenti paideutici, uno stuolo inarrestabile di montessoriani collodiani piagettiani convinti ed educanti, con porte chiuse alle loro spalle, toni perentori e squillanti e silenzio ecclesiastico studentiano ad assistere alla scolastica celebrazione.
Non vedeva l’ora, voce bianca, corda vocale debole ma entusiasta, di prendere il suo posto nella navata, di penetrare la porta numero 34, di affiancare la sua disciplina a tutte quelle altre di una nazione che chissà come chissà quando chissà soprattutto perché sembrava curare meticolosamente la fruizione delle discipline stesse.
Nulla si sapeva più del comparto scuola, da anni, se non che i tassi di alfabetizzazione erano tornati altissimi e il numero dei diplomati sorprendente, se non che al personale del comparto scuola stesso era imposto un silenzio e una segretezza da confessionale eucaristico, tanto per restare nel clima sopra citato. La preparazione culturale italica era elevata a tal punto, si diceva in radio, da doverla rendere impenetrabile alla curiosità oltremontana che avrebbe voluto ghermire ogni singolo segreto, ogni singolo particolare di metodo, ogni intimo fruscio sibilato dall’inestimabile corpo docente prima risorsa di questa nazione – così, avevano detto perentoriamente a trasmissioni unificate.
E l’essere corpo e l’essere sangue e l’essere metodo inumidiva non poco le ascelle della semovente Paramatti che, in questa sua particolarissima cabala corridoiale, nel pescare il bussolotto col 34, ‘a capa, per la smorfia, sperava tanto di mantenerlo, questo livello, senza cadute che segnassero il punto primo del precipitare futuro nel baratro di una nazione sprovvista di futura classe dirigente a causa di una qualche non voluta mancanza da parte della docente Paramatti suddetta.
Eccola, la porta, intonsa, neppure violata da qualche impronta sudata visibile in controluce: all’ordine e alla pulizia il ministero teneva non poco.
Eccolo, il silenzio alle spalle della porta, di classe misticamente pronta all’acquisizione delle più profonde dottrine aritmetiche.
Eccola, la mano fazzolettata sul pomello, a non essere da meno nel non maculare l’ingresso del sapere.
Eccola la classe, bancata di noce, indorata di formalina come un vestito appena sconfezionato, proporzionata sistemata progettata utilmente in ogni centimetro di sua metratura, SPROVVISTA al momento di corpo studente in agognata attesa della professoressa di matematica che, pensandosi in anticipo sulla sua personalissima ora di lezione, guadagnava la cattedra con il rispetto e l’ascesi di sacro ministro in procinto di celebrar messa sperando che i tre minuti che separavano le e 57 dalle 00, tondo principio d’ora incipiente, scorressero in una grande e risoluta rapidità lasciando entrare nel tempio tutti gli affamati della cultura numerica principiata con l’araba invenzione del numerico conteggio.
E 58. Ancora due minuti. Sbattere nervoso di tacchetto docente su ferro cattedratico.
E 59, un minuto al capodanno, allo scoccare della campanella annunziante lo sciame alunnico ingrediente sé disponente nei banchi appositamente costruiti coi legni della nostra bella e ricca nazione – questa, in realtà, non l’aveva sentita alla radio, ma al corso di preparazione alla docenza.
E 00, 01, e 08, e 12 e aggiungeteci pure ogni orario che vi pare, al quadrante dell’orologio, giacché a Paramatti sudante, a vociare grondante altrove due e sei muri più in là, a canovaccio pronto sul tavolo a fotocopie adagiate sui banchi a formule impilate in mente nessuno vi dico nessuno sembrava destinarsi alla classe 34 lasciando Ludovica alle sue metropolitane, al suo maglione giallo, ai suoi trent’anni abbondanti quasi trentadue a sfibrare pazienze ed attesa nello sperare che qualcuno anche uno solo varcasse la soglia.
Le domande si accatastavano nella testa, l’incertezza imperava nella maglietta d’ordinanza guadagnando le cuciture della giacca, lo sconforto lentamente occupava le sedie della stanza.
Che il giorno fosse sbagliato? Che non fossero state effettuate le giuste comunicazioni? Che la classe fosse impegnata in una qualche visita guidata?
Tutto impossibile per un ministero che faceva dell’efficienza comunicativa il suo punto cardine.
Alle 11 e 07, quando tutto crollava e nulla aveva senso e l’impazienza era diventata sgomento e i bottoni progressivamente si erano allentati e là fuori chissà quante metropolitane avevano traghettato chissà quanti alunni negli adibiti appositi edifici, qualcuno bussava alla porta.
Sì, qualcuno bussava alla porta, e la Paramatti soffocava quasi nel riguadagnare un briciolo d’autorevolezza, nell’impettirsi, nello spingere via dalla finestra tutto quello sconforto precedentemente sprigionatosi.
Prego.
Al suo prego, alcun saluto di risposta.
Un trotterellare d’anziana signora curata per i banchi. Un constatare, da agrimensore. Uno scrutare decifrare razionalizzare il contesto tramite spesse lenti bifocali inforcate in punta di naso.
Perdoni, chi è lei? Si qualifichi. La Paramatti avrebbe certamente appaltato buona parte della richiesta autorevolezza in cambio di un dialogo rivelatorio. O forse di un qualsiasi dialogo, giacché la solitudine, in quelle tre ore aveva spolverato a sufficienza lei, i suoi appunti e ogni singola superficie del noce bancale.
Ah, lei è Paramatti, la nuova – il metro quadrato dirigenziale diceva tutto questo senza smettere di svolgere quell’incomprensibile attività. Io sono Conticini, riprendeva, la sua preside. O quello che le pare, faccia lei.
O quello che le pare, faccia lei. La giacca, la maglia, i bottoni della docente iniziavano a non capire.
Non si aspetti alcun alunno, né oggi né mai. Siete tutti così il primo giorno, disperati, poi subentra l’abitudine, e un buon grado di disciplina che aiuta sempre in situazioni come queste.
Lo smarrirsi di Ludovica era perimetrabile.
Niente capiva, niente. Il contratto la firma l’attesa le ore il corso post laurea la laurea il diploma le medie le elementari l’asilo la mamma che raccomandava di studiare che sarebbero arrivati tempi bui e solo un pezzo di carta solo un pezzo avrebbe salvato, diceva la mamma, qualche muro dal crollo. Il trottolare impazzito di quest’essere buffonesco tra i banchi nel fare qualcosa di razionalmente incomprensibile e il suo parlare, così candidamente, di qualcosa ai limiti del reale.
Venga, le faccio vedere – gli occhi dirigenziali percepivano docenti interrogazioni.
Il corridoio, al contrario. Un riavvolgersi di numeri e classi. 32, 30, 28, 26.
Entri qui.
La mano, non più fazzolettata, solcava le barriere di una classe in ora di scienze tecniche: questo, almeno, il percepirsi da fuori.
Buongiorno dirigente.
Paolo Fresi interrompeva il suo soliloquio a spalti vuoti per salutare le ingredienti.
Le presento Ludovica Paramatti, collega d’aritmetica. È il suo primo giorno qui: il tempo di abituarsi.
Sorrideva triste e comprensivo il Fresi, suggerendo che il primo anno sarebbe stato il più duro.
Uguale identico meccanismo per il Fioroni, disegno, stipato nella 26, per Maribel, fondamenti, nella 24, Sacchetti, italiano, nella 22, e per tutto il resto del corpo docente minuziosamente collocato a due aule di intervallante distanza.
È per non farvi impazzire, e per non farvi socializzare eccessivamente. Gli ispettori del ministero potrebbero arrivare in qualsiasi momento a verificare l’adempimento del programma. Eventuali mancanze sarebbero punite in modi che non le voglio raccontare. Gli studenti non si presenteranno mai: l’obbligo di frequenza è stato sospeso da anni. Anche l’obbligo d’esame, di firma, di voto. Siamo gli ultimi ad aver effettuato un corso di studi normalizzato, in tempi di democrazia. Si tenga forte. È tutto cambiato molto velocemente. Vada nella sua aula di pertinenza, cominci. Continui ogni giorno, non si fermi. Lo dico per lei, mi creda, è l’unica soluzione possibile.
Il braccio stretto forte, nel parlare sottovoce tra i denti, nella paura ascoltasse chissà chi da chissà dove, nel timore arrivasse qualcuno da un momento all’altro a cogliere in fallo la compagnia organizzante. Delle rughe, sul viso, d’amarezza, di anni passati così, a cercare normalità nell’anormale, ad assumere competenti mazzieri per trasformarli inesorabilmente in solitari. Dei canini, serrati sul labbro, di impotenza, di rabbia e dispiacere.
Un trotterellare ripreso più in là, chissà dove per chissà quale mansione da svolgere nelle ore lavorative di competenza.
Un risolcare il corridoio, fino alla 34.
Un tacchettare triste sudato di maglia gialla in bottoni di giacca.
Un riprendere posto, un riprendere fiato.
Un incattedrarsi.
La mamma, gli studi passati, ogni benedetta domenica sacrificata saecula saeculorum amen nella pura speranza di essere degna di occuparla, quella cattedra. I tempi bui, arrivati così, senza raccomandata. La bocca sprofondare all’ingiù, gli occhi abbassarsi, desertificarsi la classe. Lo sconforto, a posto ripreso, insieme alla tristezza e al dispiacere ai primi banchi. L’umiliazione, qualche posto più in là. Il dovere, sempre immancabilmente di fianco.
Un respiro, coraggioso.
Un alzare lo sguardo.
Un fermo e costante tono di voce.
Mi chiamo Ludovica Paramatti, arrivo qui in metropolitana, ho trent’anni abbondanti quasi trentadue, adoro il giallo, sarò la vostra docente di matematica.