Interpretare Zanzotto: Haiku for a Season ⥀ Presentazione di Stefano Dal Bianco

Il 25 novembre 2022 va in scena al Teatro Careni di Pieve di Soligo lo spettacolo Haiku for a Season, nell’ambito del progetto Interpretare Zanzotto. Pubblichiamo di seguito il testo di presentazione degli Haiku scritto in questa occasione da Stefano Dal Bianco

 

Gli Haiku for a Season sono l’ultima opera licenziata in vita da Andrea Zanzotto. Il libro fu pubblicato postumo nel 2012, in edizione americana, e ripreso da Mondadori solo nel 2019. La prima stesura però è relativamente antica, e risale alla primavera-estate del 1984. Siamo nel mezzo di un giro d’anni particolarmente cupo per Zanzotto, che ha da poco dato alle stampe la seconda anta della trilogia, Fosfeni (1983) – forse il suo libro più combattuto e più ‘mentalistico’ –, e sta faticosamente assemblando la terza anta, Idioma, che uscirà nel 1986: due libri tra loro diversissimi. Questi Haiku hanno poco a che fare sia con Fosfeni che con Idioma, e sembrano invece condividere e anticipare alcuni tratti di Meteo, che uscirà più di un decennio dopo, nel 1996.

Tanto per cominciare, Zanzotto li scrive in inglese, una lingua che non padroneggia più di tanto, e soprattutto una lingua che, quando compare come inserto alloglotto nella sua poesia precedente, e anche successiva, fino agli ultimi anni, ha sempre delle forti connotazioni negative, veicolando di volta in volta disprezzo, alienazione, sarcasmo, violenza. Nella poesia di Zanzotto in generale, l’inglese è la lingua bastarda della pubblicità, della contaminazione, della plastica, del trash, del fumetto, dei prodotti commerciali, è una «buccinazione americanoide», è la lingua della guerra fredda, del potere e dell’imperialismo americano, dell’economia, dell’usura, del denaro simbolico, della sofisticazione. E poi è la lingua dell’irrealtà virtuale, di internet. L’inglese è una poltiglia linguistica, un gel, una lingua-detrito massificata.

Incredibilmente, l’inglese di questi Haiku è invece del tutto pacifico, del tutto innocente e anzi un po’ childish, un po’ bambinesco. Nelle varie interviste Zanzotto lo definisce “neoinglese petèl”, una lingua prelogica, oppure un “ipoinglese” o addirittura un “fantainglese”, che emergeva per barlumi dal fondo cupo della depressione di quel periodo – in un modo quasi automatico, non richiesto e non cercato – e permetteva di attingere misteriosamente a qualche fonte di salvezza psichica. Una specie di salutare vacanza dall’italiano, un esercizio di auto-terapia che si poteva condurre proprio in grazia della scarsa competenza della lingua, e dunque in una disposizione rilassata e aperta a quello che arrivava, al di fuori di qualunque agonismo linguistico. In ogni caso, una certa ambigua e sotterraneamente inquietante fascinazione per la lingua inglese esiste in Zanzotto.

Per capire di che natura sia questa fascinazione sono rivelatrici le parole di un’intervista video: «Sono stato in Inghilterra, ma non mi sono fermato perché l’inglese è una lingua che impegna troppe sezioni del cervello: due». Indovinare quale sia la sezione del cervello “di troppo” occupata dall’inglese non è difficile: è quella che presiede al puro aspetto fonico della lingua, che in Zanzotto non può che divenire fonosimbolico. Questi haiku nascono soggiogati dalle straordinarie potenzialità fonico timbriche dell’inglese, a cominciare dalla disponibilità alle allitterazioni: «fragments / of far future events» (frammenti / di remoti futuri eventi), oppure, con prevalenza di tutte le varietà di sibilanti: «shshining tics» (balbettii lucenti), «Maybe bees of ice in subtle» (Forse api di ghiaccio in sottili), e dei suoni taglienti delle dentali: «dirty tricks» (sporchi trucchi). E c’è il caratteristico monosillabismo dell’inglese, che si presta a effetti perentori, come in «little thick cuts» (piccoli fitti tagli), capace di comunicare una violenza pur nella minimità dell’evento da cogliere. Questi e tanti altri fatti sonori rendono davvero intraducibili parecchi di questi haiku. Ed è perciò che le auto-traduzioni che Zanzotto compilò tanti anni dopo, e in più fasi, sono in realtà dei testi autonomi sulla falsariga di questo inglese minimale ma ricco di invenzioni, invenzioni spesso non del tutto consone alla sensibilità linguistica di un anglosassone.

Come in «Maybe bees», Zanzotto è catturato dalle possibilità di allungamento delle vocali in inglese, un allungamento impossibile da rendere in italiano. Ecco la traduzione d’autore di un haiku:

                                  Per favore: questo iris rosa
                                  Per favore: queste gocce calde
                                  “Per favore,” che tutto armonizza

Un testo quasi incomprensibile in italiano, perché si basa sul suono di un Please originario: è il prolungamento della vocale in Pleease ad essere il fulcro del senso, ed è il suono di please che agisce e che davvero «tutto armonizza» fino a commuoverci:

                                  Please: this pink iris
                                  Please: these hot drops
                                  “Please,” that harmonizes all

 

 

La tradizione secolare dello haiku giapponese vuole che sia una forma di tre versi, di 5+7+5 sillabe, che fotografi un evento naturale in un preciso momento stagionale, e che sia «libero dalle costrizioni di un soggetto» che parla e svincolato dalla necessità di nessi connettivi. In un saggio famoso, Roland Barthes lo definisce come «una forma breve e vuota», che «non rivela nulla, è come un flash» che «non permette che il significato si sedimenti sulla pagina». Lo haiku non è «un pensiero ricco ridotto a una forma breve, ma […] un evento breve che trova tutt’a un tratto la sua forma esatta». In un saggio ormai altrettanto famoso, Zanzotto da par suo aggiunge che

la grazia mai tracotante, la tenuità di germoglio dello haiku presenta come suo clou piuttosto un non-luogo, un vago
mancamento, un sussulto dolcemente ritualizzato, il non-rumore del senso che si affaccia dentro il nonsenso della natura quasi a volerlo preservare, perché la natura deve «abitare» in esso per restare madre di tutti i sensi.

E anche, in un altro passo della stessa sua prefazione a una raccolta di haiku giapponesi (1982):

Gli haiku hanno quasi l’aria di «scusarsi» dell’esserci, se
l’esserci comporti una qualche violenza sull’essere-puro e sul
lettore-puro, se comporti una seduzione troppo viscosa per darsi
come eleganza, o un giro logico che voglia catturare, vincolare,
piuttosto che aprirsi appena in sollecitante enunciato, in
ammiccante moto di palpebra.

Ecco, questi suoi, che Zanzotto stesso ha chiamato pseudo-haiku, o falsi haiku, non rispettano il rigido schema sillabico dello haiku tradizionale giapponese, ma rispondono senza sforzo apparente a tutte le altre caratteristiche classiche: la brevità, la fedeltà alla natura e al dato stagionale, l’assenza di un soggetto e l’accostamento asindetico di verso a verso, con una punteggiatura ridotta al minimo. Potremmo definirli come una serie di mini-avventure nel non rappresentabile. Acquisizioni fulminee del non detto che sta nella natura. Tentativi di distillare in lingua umana questo non detto. Siamo di fronte a una miniera di approvvigionamenti percettivi, di punti sensibili del paesaggio primaverile-estivo, punti fermi pur nella loro evanescenza. L’effetto generale sta tra il momentaneo, l’effimero, il fuori-tempo, il distratto, l’occasionale, lo sbriciolato, il dimesso, e anche, se vogliamo, il gettato via. Qualità che – proprio in virtù di una certa esibita disinibizione formale – paradossalmente puntano e convivono con un senso di necessità estrema, con una supremazia del contenuto sulle forme, dell’impellenza della cosa-da-dire che esclude ogni soverchia attenzione sul modo di dirla. Questo effetto di essenzialità un po’ rustica, che è già nel testo inglese, si accentua ulteriormente nelle traduzioni italiane.

 

 

In una cosa non siamo sicuri che Zanzotto sia aderente ai tratti caratteristici dell’haiku: la vuotezza, la rappresentazione del vuoto. L’effetto di vuoto, se c’è, è un tratto per lo più superficiale o apparente, perché, in realtà, questi brevi componimenti traboccano di figurazioni tipiche della poesia di Zanzotto nel suo complesso, anche quando sembrano parlare di nulla. È impossibile delineare una storia interna del libro, che vada al di là di un avvicendarsi stagionale da aprile a luglio.

Vi si possono isolare però svariati cicli tematici: ce n’è uno sugli agenti atmosferici, un altro dedicato ai momenti del giorno, uno sugli animali, sui colori e sui fiori, sulla nebbia, sul vento e sui soffioni. E qualche volta fa la sua comparsa un personaggio, uno solo, che è la pallida fanciulla – o la sorella segreta della fanciulla – che è ancora quella che era stata la Beltà, o ciò che ne resta dopo la plastificazione del paesaggio: quell’ente femminile che abitava il paesaggio e da lì ancora emana messaggi, messaggi sempre più distratti e sempre più lontani, messaggi tanto offuscati da sembrare dementi.

 

 

Gli Haiku for a Season di Zanzotto sono 91. Per la nostra interpretazione ne abbiamo scelti una trentina, senza neanche provare a costruire una storia. Diciamo però che, tra tutti i cicli tematici possibili, abbiamo deciso di privilegiare in parte quello più numeroso e più ricorrente, che è focalizzato sui papaveri. Il papavero, assieme alle vitalbe, ai topinambur e a tante altre, è una delle piante simbolo della poesia di Zanzotto. Simbolo di che cosa? Simbolo di resistenza. Una resistenza tenue, labile, aleatoria quanto si vuole, ma comunque rossa, accesa, e in qualche modo determinata e quasi rabbiosa, belligerante. Una resistenza comunque residuale, come quella della poesia stessa. Residuale perché i papaveri non sono più quelli che un tempo punteggiavano “furtivamente” i campi di frumento, ma quelli che, per l’azione dei diserbanti selettivi, si affollano senza ragione ai margini dei terreni coltivati.

Nel libro di Zanzotto c’è una guerra sotterranea in corso, e sembra proprio che i papaveri alla fine l’abbiano vinta; e siano ancora lì, in qualche loro modo delicato e persistente. Ed è giunto il momento – per me, per noi – di chiedere perdono, perdono alla memoria di Andrea e allo spirito dei suoi haiku, così innocenti, così arresi. Perdono per avere forse enfatizzato, in questa nostra interpretazione, i momenti più cupi, che nel testo ci sono, ma sono come contemplati da lontano. Perdono, insomma, per avere declinato il sublime in forme drammatiche.

Forse non si poteva fare altrimenti. Forse i tempi sono quelli che sono, e le battaglie aleatorie dei papaveri di Zanzotto ci ricordavano troppo la guerra, molto poco metaforica, che su tutti noi incombe.

(Stefano Dal Bianco)