I computer non sono umani. L’intelligenza artificiale è una pseudo-intelligenza
Alcune riflessioni di Valerio Cuccaroni sui computer e l’intelligenza artificiale, a partire da Nuova Era Oscura di James Bridle
I computer non sono umani. L’intelligenza artificiale è una pseudo-intelligenza. Non crediamo alle favole: le macchine potranno imitare l’intelligenza, come un pappagallo può imitare la voce umana ma, così come il verso di un pappagallo non sarà mai una parola umana, perché un pappagallo non sarà mai umano, una macchina non sarà mai intelligente, perché una macchina non sarà mai umana.
Mentre proiettiamo sulle macchine le nostre facoltà umane non capiamo che sono le macchine a proiettare su di noi le loro facoltà meccaniche. Umanizzando le macchine meccanizziamo l’umanità.
Non c’è nulla di strano né di nuovo in questo. È una conseguenza estrema del sistema economico in cui viviamo, caratterizzato dal processo di mercificazione totale dell’esistente. L’epoca in cui viviamo, pertanto, non è una «nuova era oscura», perché il Medioevo, che fu chiamato “età oscura” dagli Umanisti e poi dagli Illuministi, non fu davvero un’età “oscura”, se non dal punto di vista di chi veniva dopo e leggeva la storia in modo anacronistico. Il Medioevo, in sé, fu una età di grandi trasformazioni, proprio come la nostra.
Forse, allora, viviamo in un nuovo Medioevo, ma non nell’accezione, ancora una volta spregiativa, usata da Pier Paolo Pasolini per indicare l’era consumistica del secondo Novecento. Forse viviamo in un nuovo Medioevo perché siamo in una nuova epoca di mezzo, in cui, mentre si fronteggiano imperi al tramonto, dalla loro decomposizione stanno emergendo nuove entità economiche, culturali e politiche. Forse, ma se si parla di Medioevo occorre fare luce.
«Nuova era oscura» è il titolo di un libro di James Bridle, un artista e scrittore anglosassone, esperto di tecnologie, che scrive per grandi media internazionali ed è stato tradotto in italiano per i tipi di Not.
In questo libro si sostiene, come reclamizza l’editore italiano, che «Internet, la rete e le tecnologie digitali avrebbero dovuto illuminare il mondo: l’hanno invece precipitato in un pozzo oscuro in cui a proliferare sono teorie del complotto, sorveglianza di massa, crisi del pensiero e catastrofe ambientale. Ma com’è stato possibile che strumenti dal così grande potenziale ci abbiano infine condotti alla soglia di una nuova era oscura, un vero e proprio medioevo digitale dominato da disuguaglianze sempre più laceranti e scarsa comprensione del mondo che ci circonda?».
Questo linguaggio apocalittico ci proietta in un’affascinante dimensione new-romantic (neo-romantica) che però si limita a rafforzare il mito che vorrebbe combattere. Non c’è nessun medioevo digitale, innanzitutto perché non c’è stata nessuna antichità digitale. Semmai viviamo in un’infanzia digitale, nella quale ci dibattiamo, confondendo il mondo esterno con noi stessi, come i bambini che lallano. Le diseguaglianze sono le stesse del secondo dopoguerra e potremmo continuare a lungo per dimostrare che, se si volesse parlare di oscurità, bisognerebbe considerare tutta la Storia una grande era oscura, come fece Elsa Morante, romanzando Walter Benjamin.
Contrapporre a un’ipotetica missione illuminante delle tecnologie digitali una realtà rovesciata, ma speculare, in cui le tecnologie digitali ci avrebbero precipitato nell’oscurità, significa cedere alla propaganda che si vorrebbe smascherare. Non c’è missione salvifica nel mondo delle merci. Animare gli oggetti equivale a mercificare il vivente: il pozzo oscuro dove ci avrebbe precipitato il sistema è lo stesso in cui siamo da secoli, lo stesso del colonialismo, in cui i missionari accompagnavano i conquistadores sterminatori, lo stesso dell’imperialismo, in cui il razzismo giustificava la schiavizzazione dei popoli primitivi, lo stesso dei grandi industriali che finanziarono i fasci di Mussolini per contrastare la rivoluzione socialista, lo stesso del genocidio di contadini prodotto dall’industrializzazione forzata stalinista, lo stesso degli ingegneristici campi di sterminio nazisti, lo stesso della bomba atomica, lo stesso del napalm in Vietnam, ecc.
Bridle lo chiama per nome, questo sistema, che è il Capitalismo, ma non ci aiuta a comprenderlo perché lo proietta in una dimensione romanzesca, nebulosa e pseudo-oscura.
È tutto chiaro, invece. Nel linguaggio dell’informatica si chiama “intelligenza artificiale” la riproduzione parziale di attività proprie dell’intelligenza umana, realizzata attraverso un insieme di studi e tecniche per la produzione di macchine, specialmente calcolatori elettronici, in grado di risolvere problemi e di riprodurre attività proprie dell’intelligenza umana. Perciò tali elaboratori elettronici vengono anche detti “cervelli elettronici”. Descrivere le macchine e i loro prodotti con termini che appartengono alla sfera umana, come “intelligenza” e “cervelli”, accompagnandoli con qualifiche più propriamente meccaniche come “artificiale” ed “elettronici”, serve a rendere le merci stranamente familiari, a fornire di una patina familiare la loro essenza inquietante, che è inquietante proprio perché il meccanico sembra pulsare come l’umano. I prodotti meccanici che hanno sembianze umane ci inquietano perché i nostri corpi hanno in sé automatismi simili, anch’essi sono codificati per l’assemblaggio, la riproduzione, il macero e la sostituzione. Finché siamo vivi e pensanti, però, non siamo meccanici, così come finché i prodotti resteranno meccanici non saranno vivi.
Un’intelligenza può essere artificiale come può esserlo un pezzo di ferro che usiamo come protesi, chiamandolo braccio o gamba. Quel pezzo di ferro, però, non sarà mai né un braccio, né una gamba, resteranno protesi, così come una macchina non sarà mai intelligente. Semmai sarà pseudo-intelligente. Che effetto farebbe ascoltare la pubblicità di una macchina “pseudo-intelligente”? Affidarci a lei, rinunciando alla nostra vera intelligenza, forse ci farebbe sentire stupidi. Allora, sì, sarebbe illuminante.



Valerio Cuccaroni
Dottore di ricerca in Italianistica all’Università di Bologna e Paris IV Sorbonne, Valerio Cuccaroni è docente di lettere e giornalista. Collabora con «Le Monde Diplomatique - il manifesto», «Poesia», «Il Resto del Carlino» e «Prisma. Economia società lavoro». È tra i fondatori di «Argo». Ha curato i volumi “La parola che cura. Laboratori di scrittura in contesti di disagio” (ed. Mediateca delle Marche, 2007), “L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e altre lingue minoritarie tra Novecento e Duemila” (con M. Cohen, G. Nava, R. Renzi, C. Sinicco, ed. Gwynplaine, coll. Argo, 2014) e Guido Guglielmi, “Critica del nonostante” (ed. Pendragon, 2016). Ha pubblicato il libro “L’arcatana. Viaggio nelle Marche creative under 35” e tradotto “Che cos’è il Terzo Stato?” di Emmanuel Joseph Sieyès, entrambi per le edizioni Gwynplaine. Dopo anni di esperimenti e collaborazioni a volumi collettivi, ha pubblicato il suo primo libro di poesie, “Lucida tela” (ed. Transeuropa, 2022). È direttore artistico del poesia festival “La Punta della Lingua”, organizzato da Nie Wiem aps, casa editrice di Argo e impresa creativa senza scopo di lucro, di cui è tra i fondatori, insieme a Natalia Paci e Flavio Raccichini.
(Foto di Dino Ignani)