I due cuori della provincia americana | intorno a “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” | di Enrico Carli
Regia: Martin McDonagh
Genere: drammatico/commedia nera
Durata: 115 min.
Cast: Frances McDormand, Woody Harrelson, Sam Rockwell, Abbie Cornish
Paese: USA, Gran Bretagna
Anno: 2017
Questo articolo contiene spoiler.
L’ultimo film di Martin McDonagh, come il suo esordio In Bruges, ha messo d’accordo un po’ tutti. L’entusiasmo traspare in chiunque ne parli e ne scriva e ha appena fatto incetta di premi ai Golden Globe (miglior film drammatico, miglior sceneggiatura, miglior attrice protagonista in un film drammatico e miglior attore non protagonista a Sam Rockwell), ora si fanno scommesse sul pieno agli Oscar ed è molto probabile che Frances McDormand si porterà a casa la statuetta come miglior interprete femminile (sempre che questa asserzione non le porti sfortuna). La sua Mildred Hayes – una donna forte che si trova ad affrontare un grave lutto – è un personaggio complesso e complicato, e l’attrice riesce a mettere in questo ruolo tutto il suo comprovato talento nonché la sua enorme simpatia. A quanto pare, la risoluta Mildred è un bell’esempio del tipo di donna che ci vuole in questo momento negli Stati Uniti e più in generale nel mondo.
Sei mesi prima di quando facciamo la conoscenza di Mildred, sua figlia Angela è stata stuprata e uccisa; nessun colpevole è stato condannato nella piccola provincia americana di Ebbing, Missouri, nessuno è stato nemmeno interrogato. Mildred affitta tre vecchi cartelloni pubblicitari in disuso, e tramite delle affissioni chiede a gran voce giustizia, alludendo che il capo della polizia locale Chief Willoughby (Woody Harrelson) non abbia fatto ciò che poteva. Quest’ultimo, molto amato a Ebbing, sta per morire di cancro, e l’alzata d’ingegno di Mildred le procura alcuni nemici, tra cui il folle agente Dixon (Sam Rockwell, attore che ha collezionando una bella carrellata di pazzi/psicopatici: Il miglio verde, Confessioni di una mente pericolosa, Moon). Ebbing, città inventata, similmente all’universo dei Coen – e di molti altri ritratti di provincia americana – è un luogo dove il razzismo fa parte della cultura locale. Se non te l’ha tramandato il padre, ci pensa la madre (è il caso dell’agente Dixon).
Ma nonostante i nervosismi che si vengono a creare dopo le affissioni, i rapporti che intercorrono nella comunità che si conosce da sempre, compresi quelli tra Mildred e lo sceriffo Willoughby, rivelano ben più delle normali tensioni per l’invasione di campo della donna. Perché, al di là dei contrasti, c’è affetto e comprensione. Dentro il cuore di quella che sembra una commedia nera alla maniera dei fratelli Coen, c’è il cuore di una commedia sentimentale alla Lasse Hallström (Il vento del perdono). I personaggi, con le loro rigidità e debolezze, sono il risultato di una scrittura sfaccettata, che vuole uscire dal cliché in cui gli stessi personaggi si sono rinchiusi. L’atroce stupro e omicidio di Angela Hayes è l’inizio della vicenda che precede i manifesti e quindi l’inizio del film: qualcuno deve pagare, perché in assenza di un colpevole non c’è giustizia e non c’è catarsi.
Le lettere d’addio che lo sceriffo lascia alla moglie, a Mildred e all’agente Dixon, rivelano la sensibilità di uomo che si è dimostrato diverso da ciò che poteva sembrare (e non sarà il solo), nient’affatto uno sceriffo improduttivo che non ha saputo trovare il colpevole, ma un investigatore che non aveva alcun indizio per poter procedere alle indagini. Una di queste lettere è in grado di incidere così profondamente in chi legge da cambiarlo. Da questo momento in poi i buoni sentimenti prevalgono su ogni altro aspetto: le persone fanno quel che fanno perché sono arrabbiate, perché vengono da genitori razzisti o sono state abbandonate, e, come vuole il mito americano, possono cambiare. Il commediografo britannico Martin McDonagh, che aveva caratterizzato con tocco sottile e autentico i suoi personaggi nella prima parte del film, nella seconda si fa prendere dalla lacrima facile e sugli abitanti di Ebbing cala la pietas dell’autore-macchinista. Cerca forse la profonda umanità dei ritratti del suo connazionale Mike Leigh (Tutto o niente, Segreti e bugie, Another Years), ma è troppo impegnato a depistare le aspettative dello spettatore per rendere conto del potenziale drammatico fin qui accumulato e disperso. E insieme a questo purtroppo se ne va anche la coerenza interna.
Le premesse iniziali prendono fuoco insieme alla stazione di polizia, e nemmeno per l’implausibilità del fatto che una caserma chiuda per la notte come un’attività commerciale qualsiasi (su ciò si può soprassedere come sul fatto che Mildred, di punto in bianco, fabbrichi delle molotov – che certo è l’ordigno incendiario più semplice da realizzare e soprattutto in un film americano, ma che con qualche lieve premessa sarebbe stato ancora più fattibile per una donna in tuta da lavoro), ma perché ciò che innescano queste bombe sono delle concause a cui si smette di credere. Dixon esce dall’inferno trasformato. Un uomo che solo qualche scena prima abbiamo visto attraversare la strada, entrare nell’agenzia dirimpetto alla caserma, malmenare brutalmente e defenestrare l’agente pubblicitario Red Welby solo perché ha lecitamente concesso a Mildred di appendere i suoi manifesti (una scena molto potente, tra l’altro).
E se quest’ultima confutazione può sembrare debole poiché Dixon era molto affezionato all’appena deceduto sceriffo Willoughby, e dunque sopraffatto dal dolore e in seguito disvelato, compreso e incoraggiato dallo sceriffo nella lettera che innesca il cambiamento insieme alle bombe incendiarie, rimane comunque il fatto che fino a qui era poco più che un idiota razzista – non idiota in quanto razzista, ma idiota di per sé (e la prima parte del film s’impegna a mostrarcelo molto bene anche perché Sam Rockwell è tagliato su misura per il ruolo dell’idiota che mette tristezza e al contempo fa ridere), e dopo ciò si trasforma in un martire che si fa pestare a sangue per il caso Hayes senza nemmeno difendersi (tra parentesi, molto belli ed efficaci i siparietti tra Dixon e la madre, interpretata da una sorprendente e odiosa Sandy Martin).
Ma la seconda parte del film tutta è intenta a far compiere gentilezze a ogni personaggio per intenerire lo spettatore. L’amabile nano interpretato da Peter “Tyrion” Dinklage, l’ex marito di Mildred dapprima violento e poi delicato reo confesso (di aver appiccato il fuoco ai manifesti per risparmiare all’altro figlio il continuo ricordo della tragedia), il ragazzo nero responsabile delle affissioni, il defenestrato e ingessato agente pubblicitario Welby che gira la cannuccia dell’aranciata per far bere l’ustionato defenestratore Dixon, compresa la stessa Mildred nei confronti della giovane fidanzata del suo consorte e della di lui ammissione di dolo (che ha portato lei ad appiccare a sua volta il fuoco alla caserma e a… Dixon). Tutto ciò rende le conclusioni francamente più verosimili di quanto McDonagh abbia a cuore di veicolare il messaggio politico del film piuttosto che l’aderenza autentica al ritratto psicologico che ci aveva dato dei suoi personaggi.
La coerenza viene meno laddove l’ingerenza dell’autore diventa “fraudolenta” e manipolatoria. È per questo che Dixon e Mildred alla fine non vanno da nessuna parte. Nessuno ha mai creduto che attuassero la loro missione punitiva alla ricerca di un colpevole qualsiasi, perché non ci crede il regista e non ci credono i due personaggi (mentre i due bravissimi attori fanno professionalmente quel che dice loro la sceneggiatura), e quel “ci penseremo strada facendo” finale sembra piuttosto l’ammissione di McDonagh sulla sua maniera di procedere alla stesura dello script.
Il che, intendiamoci, non è affatto indicativo di una scorretta scrittura quando il peso della premessa e della conclusione non crea troppo divario tra i piatti della bilancia – che qui però pende decisamente verso i basamenti della prima, solida parte. Ma sono altrettanto certo che, oltre al bel personaggio di Mildred, questa eccessiva interferenza di “non è come sembra” sia l’altro motivo per cui il film abbia parlato a un così vasto pubblico. In questo momento storico abbiamo necessità di ricrederci sulla cattiva sostanza degli esseri umani, e McDonagh comincia a farlo partendo dai suoi personaggi – anche a discapito della coesione narrativa.

Enrico Carli
Enrico Carli vive a Senigallia (AN). Ha pubblicato un romanzo breve, "L’uomo in mare" (Ventura Edizioni). Suoi racconti sono apparsi nelle raccolte "3x9 - Tre scrittori per nove racconti" (Grinzing); "Taccuino di viaggio nelle terre del duca" (Weekend&Viaggi); "Pagine Nuove" (Cattedrale); "Tremaggio" (Ventura Edizioni); "Tutti i gusti" (Ventura Edizioni). A gennaio 2020 uscirà il suo romanzo "Tupilak o come si diventa sciamani". Scrive di cinema su Argonline.it