«Privare la magia del suo mistero sarebbe assurdo come togliere il suono alla musica.»
Orson Welles
Il cinema è magia. Da sempre. Perché in fondo, al fondo, cioè al principio del “c’era una volta” ci fu l’idea di catturare il visibile nel suo compiersi, dunque nel suo movimento. Ovvero il tempo da cogliere di sorpresa, da catturare una volta per sempre su di un qualche supporto, su di una materialità riproducibile. Ma il visibile divenne immediatamente problema e limite, da subito ci si domandò se non fosse più sensato catturare l’invisibile, cioè le fantasticherie e i fantasmi, i mondi immaginari, quelli immaginifici, quelli sognati e quelli trasognati. Perché il cinema è magia, sorpresa e salto sulla sedia, incantesimo che cattura lo sguardo, sortilegio capace di tenerci immobili nell’impressione che qualcosa stia realmente accadendo di fronte ai nostri occhi. Fotogramma dopo fotogramma dopo fotogramma dopo fotogramma cattura i nostri sensi. E già il fotogramma è un trucco, l’inganno fondativo della malìa cinematografica, un finto movimento composto dal succedersi di immagini statiche, «il lavoro della morte ventiquattro fotogrammi al secondo» secondo Cocteau, o forse la vita, sicuramente un’illusione d’eternità, un gioco di prestigio, un trucco di magia. Non ricordo dove ho letto per la prima volta questa idea – era Deleuze o forse Bataille? –, ma la rubo, facendola mia: il cinema nasce nelle caverne, ai tempi degli uomini della pietra, nasce negli occhi dei nostri remoti antenati rapiti dai riflessi luminosi dentro alle tenebre d’un anfratto nascosto al mondo illuminato dall’ondeggiare della pira d’una qualche torcia, dall’apparire e scomparire delle bestie dipinte sulla roccia nell’intermittenza crepitante della luce. Il cinema è l’illusione del movimento nella dilatazione temporale. Il cinema è magia, è un gioco di magia. È illusionismo.
Questa natura “magica” del cinematografo si rivelò come un’epifania a Georges Méliès (1861-1938) quando, il 28 dicembre 1895, assistette alla prima proiezione pubblica del Cinématographe Lumière presso il Salon Indien, un ex sala da biliardo del Grand Cafè parigino al civico 14 dei Boulevard de Capucines. L’Arrivée d’un train en gare dischiuse davanti ai suoi occhi tutto il potenziale magico della nuova tecnologia e, probabilmente quella stessa notte, Méliès incominciò a sognare viaggi sulla luna e fantasmagorie d’ogni sorta. A quel tempo Méliès, di professione illusionista e prestigiatore, dirigeva già da sette anni il Théâtre Robert-Houdin, fondato tempo addietro dal più famoso illusionista francese del XIX secolo: Jean Eugène Robert-Houdin (da non confondere con l’ungherese naturalizzato statunitense Harry Houdini, 1874-1926). Fu forse inevitabile che questi due mondi, il cinematografo e l’illusionismo, giungessero a una sintesi nel genio visionario d’un creatore di «Infiniti Mondi», avrebbe detto Giordano Bruno, quale fu Méliès. Sintesi proficua e feconda che allargò a dismisura il campo d’azione della tecnologia affinata dai fratelli Auguste e Louis Lumière, affrancando dalla realtà l’immaginario, fornendo al cinema il primissimo lampo di «ordinario nello straordinario», secondo la geniale intuizione di Godard.
Già nel 1896 Méliès si getta a capofitto nella produzione cinematografica, dando vita alla Star-Film, con la quale dirigerà fino al 1914 oltre 500 opere. Nel cinematografo riversa trucchi e spettacoli d’illusionismo e sarà così che il cinema nascerà per davvero; mentre i Lumière si occupano di documentare scorci di mondo o di catturare frammenti di realtà, “lo straordinario nell’ordinario”, Méliès getta le basi del linguaggio cinematografico.
Pochi mesi dopo la proiezione al Salon Indien, per la prima volta nella storia del cinema, fa la sua comparsa un trucco propriamente cinematografico. Nei centoventi secondi di Escamotage d’une dame chez Robert-Houdin (noto anche con il titolo Escamotage d’une dame au théâtre Robert Houdin), settantesima produzione Star-Film, Méliès interpreta un illusionista (ovvero se stesso) che fa entrare in scena una donna facendola accomodare su di una sedia collocata al centro dell’inquadratura. Con ampi gesti, tipici degli spettacoli di illusionismo, copre la donna con un telo e, magicamente, quando l’avrà levato, la donna sarà scomparsa. In quel preciso istante nacque il montaggio. Un montaggio rudimentale – concretizzato nella sospensione della ripresa e nella sua ripartenza con elementi variati all’interno dell’inquadratura – ma un concetto davvero rivoluzionario fece la sua comparsa per la prima volta. Ben prima di Griffith, di Ejzenstejn e Pudovkin Méliès capì che il lavoro del regista consisteva nell’organizzazione del tempo ed arrivò a tale conclusione grazie alla magia, per mezzo dell’arte dell’illusionismo.
C’è però una storia poco nota tra le pieghe della biografia di Georges Méliès, antecedente all’Escamotage d’une dame chez Robert-Houdin, una vicenda avvolta da una fitta nebbia di mistero. Pare che, un paio di mesi prima della realizzazione del celebre film brevissimo, Méliès abbia diretto una pellicola assai simile senza però alcun ausilio della tecnica cinematografica. Pare sia esistito, ne fa menzione lo storico Georges Sadoul nel quarto capitolo dell’Histoire d’un art: le cinéma (Flammarion, 1949), un film all’interno del quale l’illusionista Méliès abbia realmente fatto scomparire una donna davanti alla macchina da presa. Sadoul assicura che tale film sia stato proiettato in occasione della retrospettiva che i surrealisti organizzarono in onore di Méliès nel 1931 e lì attentamente osservato dai presenti, fotogramma per fotogramma, senza che questi ravvisassero alcun intervento di montaggio o di sospensione della ripresa. Questo film, oggi perduto, non venne mai proiettato da Méliès, salvo che in quella speciale circostanza, a causa della reale sparizione dell’attrice avvenuta il giorno stesso della ripresa. Questo strano dileguamento costò a Méliès un processo penale del quale è conservata traccia sui quotidiani dell’epoca, salvo poi scivolare repentinamente nell’oblio col divampare dell’affaire Dreyfus. Il processo si risolse in un’archiviazione per insufficienza di prove, ma della donna si perse ogni traccia. Sadoul conclude il capitolo dedicato a questa strana vicenda riportando una frase pronunciata da André Breton in occasione dell’unica proiezione: «Quella donna è scomparsa realmente, Méliès non ha usato alcun trucco. Tutto è illusione. Il cinema è magia.»