Genere: Drammatico
Durata: 98
Con: Roberto Farías [I], Antonia Zegers, Alfredo Castro, Alejandro Goic, Alejandro Sieveking
Paese: Cile
Anno: 2015
Pablo Larrain è un giovane grande autore cileno; a lui appartengono film forti, duri e suggestivi come Tony Manero e Post Mortem. Sono di quei registi che prediligono il colpo d’occhio, la sfiammata all’improvviso, un po’ come Haneke, quei colpi di scena che salgono dall’abisso in un baleno per prenderti e scaraventarti giù con loro nel buio. Il Club appartiene a questa categoria, anche se nel corso degli anni, con l’esperienza acquisita, Larrain trova una formula sempre più cinematografica, più dinamica e meno iconica.
Ci sono diversi gradi di respirazione in questo film: il primo è il testo, poco limpido, che si scopre un po’ alla volta, poi c’è il sottotesto, che è la ruota che gira e infine c’è il lascito dopo la corsa, straziante. Il Club come Dogville di cui ne ricalca la freddezza, l’atrocità e le istanze è un film che parla di peccati, di uomini e donne penitenti o presunti tali, di colpe passate, di malattie presunte, di sessualità deviate, di affetti mancati, di violenze atroci e di dolore dell’anima e del corpo. In questo uggioso turbinio, ricalcato anche dalle scenografie scarne e scialbe, in cui la luce filtra di rado attraverso una spessa coltre di nebbia, affacciati ad un mare capriccioso, in un paese sperduto, semi-morto e assente, i nostri protagonisti vivono le loro vite al di fuori della grazia di Dio, in una casa, Il Club. Che li protegge e nasconde dal mondo in cerca di vendetta, fino a che un bel giorno, qualcuno li trova. Da lì si innescano meccanismi che porteranno la storia vicino alle intricate periferie infernali.
Dialoghi costruiti con perizia e forza dirompente, attori – alcuni dei quali feticci di Larrain da sempre – all’altezza del complicato compito di dare voce e corpo a personalità quantomeno ambigue se non orrende. E’ un gioco al massacro, ironicamente biblico nel proprio rincorrersi, in cui la morale cade accidentalmente da una serie di peccati inevitabili, in cui nuovo e vecchio si perdono nella nebbia confusa della Parola di Dio.
C’è molta Chiesa di mezzo, ci sono i preti pedofili e non solo, ma quello che si riscontra più di ogni altra cosa è la volontà di Larrain di trattare la materia in maniera spugnosa, assorbendone tutte le sfumature, più psicologica che spirituale, ma non per questo meno umana. Inquadrature dissonanti – Larrain utilizza le stesse lenti del Faust di Sokurov da quanto ci è dato a vedere – che creano disagio, primi piani frontali sfuocati e indagatori, l’essere umano viene rivoltato dall’interno come un calzino. E’ un film che fa tornare Larrain – dopo il deboluccio No – I Giorni dell’Arcobaleno – a tematiche aspre e controverse, sempre sul solco storiografico e politico del proprio Paese, ed è forse il suo film migliore per equilibrio delle parti e tocco stilistico. E’ un film scuro, che spaventa e appesantisce, che esplode e si richiude in se stesso come un ragno madre che accudisce i suoi piccoli appena dischiusi dall’uovo, magari mangiandosene qualcuno per saggiarne il valore. Buona visione, ma se ne esce veramente a pezzi, in oltremodo soddisfatti.