Il grande serpente di mare ⥀ Un racconto di Giulio Iovine
Il racconto Il grande serpente di mare di Giulio Iovine: un viaggio onirico nella profondità dell’inconscio
Il confine tra il sogno e la veglia tende a sbiadire qualora si consideri che, in uno stato come nell’altro, sono in gioco le stesse identiche energie. Nel mondo caotico del conflitto tra forze, ogni istanza mira al proprio, particolare, soddisfacimento.
Il protagonista di questa breve storia pare condurci nei profondi recessi delle acque dell’inconscio. Da questo genere di luoghi, ove l’accesso non sia esplicitamente interdetto, nondimeno promana una certa sensazione di pericolo. In essi, si agitano forze primordiali che minacciano di sopraffarci. Con quanta più potenza queste si palesano, tanto più prepotentemente scattano i meccanismi volti a reprimerle. Ma sono questi ultimi che si manifestano in lui (nel protagonista) come schiacciante senso di colpa, inconsapevole travestimento di necessità fisiologiche sotto il mantello dell’obiettività che, nella placida superficie dell’apparenza, dissimula, col gesto di metterlo al riparo da esse, le ctonie e magmatiche correnti che ribollono nell’uomo. Deve dar da pensare che, nell’istante in cui viene meno, insieme al terrore dilegui anche il senso di colpa. La strada in salita di cui non si vedeva la cima d’un tratto è piana. Ma è solo un sollievo momentaneo.
Chissà se, all’inizio della fine, il protagonista non si sarebbe semplicemente risvegliato in un bagno di sudore, o se dietro quella porta non si nascondesse, in fondo, invece che un mostro terrificante, un’alterità sì assoluta ma fin troppo familiare. Anche l’affanno di dover a tutti i costi comunicare una terribile verità, nonché l’oggettiva difficoltà nel dirla rientrerebbero facilmente nei modi del sogno d’angoscia; e colui che, finalmente tornato a casa viene come accecato dalla luce, non è certo meno compromesso di chi, nella tenebra, cerca faticosamente di liberarsi dalle pastoie del sé.
(Gabriele Gallina)
J. Martin, A nocturnal scene with saurians and sea-creatures fighting each other in the water
Il grande serpente di mare
di Giulio Iovine
– Giuliano, dove vai?
– A prendere un po’ d’aria.
– Occhio che fra mezz’ora tiro fuori il gelato.
– Tranquilla. Emma?
– Sì?
Ero appena uscito dalla porta finestra.
– Perché è così buio qui fuori?
Non era tanto la mancanza di luce naturale a perplimermi – a notte fonda, che pretendevo – ma il fatto che tutte le luci artificiali della zona erano scomparse. Non erano accesi i lampioni, le luci delle case intorno, niente. L’intera città pareva chiusa nelle tenebre. Solo a casa di Emma si vedevano le finestre illuminate e si sentiva la musica.
– Hanno telefonato ieri, rispose Emma. – Un blackout programmato qui e in altri quartieri, fino alla scogliera. Stai attento a dove metti i piedi.
– Ok.
Una parola. Appena fuori dal cerchio di luce della casa di Emma, non vedevo a dieci centimetri da me. Meno male che avevo la torcia del cellulare. Vagai per qualche minuto, forse cinque, forse trenta, nel buio pesto, col rumore del mare in sottofondo. Ogni tanto il fascio luminoso della torcia illuminava un buco nel marciapiede, un po’ di polvere, un tombino di metallo scheggiato e sporco di sabbia, l’erba invadente in ogni crepa di cemento. Il quartiere, non so perché, in quella notte d’estate era immerso in un sereno silenzio. Sentivo solo i grilli e le onde. Finì che arrivai là dove la strada piega quasi a strapiombo sulla spiaggia. Spensi la torcia e attesi per qualche minuto che gli occhi si abituassero alla tenebra.
Tornare alla festa? Perché no. Non mi stavo annoiando ed ero tra amici. È che in qualunque evento in cui sono in mezzo a più di dieci persone arriva un momento in cui finisco le energie per gestirli – le conversazioni, gli sguardi, pensare cosa rispondere alle domande, eccetera – e ho bisogno di qualche minuto di ricarica. Ero uscito per questo, non perché non volessi essere alla festa. Si poteva tornare senza problemi, anche col buio mi sarei ritrovato – non avevo fatto che andare dritto, bastava voltare la testa al cavallo (come diciamo dalle mie parti).
Ma quella strada che piegava in basso mi attirava. A torcia spenta, cominciavo a vedere le stelle. Era luna nuova, e davanti a me c’era il cemento con la striscia bianca in mezzo, l’abisso e il vago luccichio del mare laggiù in fondo. Passo dopo passo, con prudenza, cominciai a scendere. La strada era stata fatta per far arrivare sulla spiaggia i camion – era larga e ripida. Il rumore del mare si faceva sempre più forte e ad un certo punto sentii sotto le scarpe che il cemento diventava sabbia. A tentoni, andai avanti fin là dove distinguevo le onde che si sdraiavano sulla battigia una dietro l’altra.
All’orizzonte alcune stelle cominciavano a sparire. Si avvicinava una nuvola, forse temporalesca. Sentivo un brontolio sullo sfondo. Arrivò il primo lampo, e poi il tuono. Per una frazione di secondo potei vedere la riva dell’oceano fino all’orizzonte, un’unica massa di muta acqua nera. Stavo per voltarmi e risalire la strada, quando un secondo lampo – con un secondo tuono – mi avvertì che qualcosa nel mare davanti a me era diverso.
Dove avevo visto solo aria e nuvole improvvisamente incandescenti per il fulmine (caduto chissà dove), ora c’era una struttura ciclopica che sorgeva dalle acque. Era emersa in pochi secondi, senza nessun rumore se non quello dello scroscio dell’acqua sulle sue pareti. Al lampo successivo intuii che non era una struttura, ma qualcosa di vivente.
Frugando nella memoria, l’unico paragone che mi veniva in mente era quello con il serpente. Una specie di serpente marino, con la testa a quindici o sedici metri d’altezza rispetto al suolo, reclinata dolcemente come se dormisse, il collo dritto come un fuso sulle onde, e il corpo a mollo appena sotto il pelo dell’acqua. Era liscio e nero, con riflessi verdastri – dal muso oblungo e senza labbra mi era parso che spuntassero denti da ambo le fauci. Al terzo, al quarto e al quinto lampo l’oceano davanti a me si popolò lentamente di queste torri di squame, una dietro l’altra emerse dalle acque con la testa reclinata, tante che non riuscivo a contarle. Continuavo a pensare ossessivamente alle illustrazioni che avevo trovato in quel libro francese, Le Grand Serpent-De-Mer. Il fatto che creature del genere notoriamente non esistano urtava un po’ la mia consapevolezza che ne avevo non so quante centinaia nel braccio di mare davanti a me.
Il primo che avevo visto, quello a pochi metri dalla riva, respirava nel sonno con un sibilo tenero, sommesso. L’ennesimo fulmine cadde a pochi chilometri da noi, e fu visibile come un’arteria bianca sullo sfondo della tenebra; il tuono che ne seguì fu secco ed assordante, e il serpente di mare aprì gli occhi e mi guardò.
Non solo, ma aprì anche – di poco – la bocca, con un brontolio che mi parve interminabile.
Ci fu qualcosa in quegli occhi tondi e spalancati, o in quella doppia chiostra di denti uno diverso dall’altro, o in quelle narici carnose che per un attimo si aprirono e si contrassero – qualcosa che mi mandò il cervello in corto circuito. Mi voltai e cominciai rapidamente a camminare nel buio, risalendo a tentoni la strada ripida. Non c’è nessun serpente, mi dicevo con irritazione. Nessuno. Niente. Ho sbagliato a scendere fin qua. Non c’era nulla da vedere. Infatti non ho visto niente. Peggio per me, me ne torno da Emma. A grandi falcate risalivo la strada, col cuore che martellava nel torace e il respiro affannoso, senza vedere – nel buio pesto – quanto mancava alla cima. E intanto pestavo i piedi con rabbia, e continuavo a sussurrare, col fiato corto per la salita, che laggiù non c’era proprio niente. Anche quando sentii qualcosa strisciare dietro di me, mi dissi con stizza che non era nessuno.
La salita non finiva più. Mi voltai, continuando a camminare. Alla luce tenue delle stelle qualcosa di grosso e scuro avanzava dietro di me, a meno di cinquanta metri, strisciando e respirando con affanno. Mi pareva di vedere nel buio, lassù in alto, i due occhi tondi e grandi, senza pupilla, lucidi come fari. Mi guardava in faccia. Mi voltai di nuovo, insistendo che non era niente. Accelerai. Ad un certo punto smisi di sentire la strisciata dietro di me, e voltandomi un’ultima volta ebbi la conferma che il serpente non mi stava seguendo. In quel preciso istante il terreno sotto di me tornò piatto. Ero in cima.
Non mi fermai. Continuai anzi sul marciapiede, dritto per la strada da cui ero venuto. Ricominciavano a sentirsi i grilli. D’improvviso scoppiai a piangere. Cristo santo, pensai, cristo santo che disastro. I mostri che vengono su dal mare, così dal nulla, senza motivo apparente, e poi in una notte così che non si vede niente. (In un attimo di lucidità accesi la torcia del cellulare per non inciampare sul marciapiede). Ma come diavolo gli salta in mente a quelle bestiacce di salire adesso…? Perché? Ma che vogliono? E mentre mi torturavo con queste domande piangevo ancora più forte, pensando che ero un coglione ed eravamo tutti condannati. Perché prima o poi i serpenti sarebbero risaliti a terra, e allora veramente sarebbe stata la fine.
Dovetti fermarmi e calmarmi un po’. Ero ormai in vista della casa di Emma, la festa durava ancora, le finestre erano illuminate di arancione cupo, quasi vermiglio, e si sentiva Vinicio Capossela a tutto volume. Mi asciugai la faccia, andai davanti alla porta ed entrai. La luce mi accecò per un attimo.
– Emma, c’è Giuliano.
– Giuliano! Sei tornato!
– Ma dov’eri finito? C’è ancora un po’ di gelato, vieni.
– Occhio Cecilia, ricordati che è allergico alle nocciole.
– Ah giusto. Non devo mischiare.
Fui accompagnato dagli amici in cucina, dove i piatti sporchi si accumulavano nel lavello. Il ripiano era pieno di bottiglie vuote o mezze piene, vasche di sushi, bacchette usate, cartoni della pizza impilati, un trancio di margherita con le salsicce che Cecilia mi porse e che senza capire che stessi facendo, presi e addentai.
– …ma c’è il gelato.
– Lo mangio lo stesso, mormorai.
– Sai che lui non si fa problemi a mischiare, spiegò Cecilia.
– Stai bene? – chiese Alessandro. – Mi sembri un po’ rincoglionito.
– Mi sento strano in effetti, mormorai.
– Ma dove sei andato? Fuori è tutto buio.
– Sul mare.
– Come…?
– Sul mare, ripetei con la voce rotta.
Passò un attimo di silenzio. Presi un respiro, mi sforzai di proseguire: ‘E ho visto…’. Niente. Emma se ne uscì col fatto che domani se ci fossimo svegliati per tempo saremmo potuti andare al mare, conosceva una spiaggia dove non andava mai nessuno. Mi sforzai di non piangere. Domani saremmo stati tutti morti. Emma mi porse la coppa di gelato col cucchiaino e andammo insieme in salotto, dove ballavano. Salutai Germano e Leonetta e Marina (che doveva essere arrivata poco prima) e mi sedetti sul divano assieme a loro, fissando il vuoto, con la mano sul cucchiaino, portandomi meccanicamente alla bocca il gelato.
– Glielo devo dire, sussurrai con voce inudibile.
– Non è che Torino non mi piaccia, è che forse mi aspettavo di meglio.
– Il problema con voi romani è che non riuscite mai a disintossicarvi da Roma.
– Aspetta, dipende dal quartiere in cui uno vive, a Monteverde stai bene, a Rebibbia forse ti viene più voglia di vedere il mondo…?
– Ecco, per me è l’esatto contrario, Leonetta.
Glielo devo dire, pensavo ossessivamente, catatonico. Glielo devo dire, glielo devo dire. Li devo avvertire. I serpenti di mare si stanno radunando sulla riva, forse non solo qui, forse ovunque nel mondo. O forse è da qui che vogliono cominciare. Dio mi aiuti, quegli occhi vuoti e gialli, quei denti, quella forza vuota e insensata. Sono qui. Sono alla porta della civiltà umana, la sfonderanno, raderanno tutto al suolo.
– Emma, ma per i tuoi vicini è ok che facciamo questo casino alle due di notte?
– Non so nemmeno se ci sia qualcuno in giro, Marina. Per via del blackout molti non sono venuti al mare questo fine settimana.
– Meglio, no?
– Ma infatti. Coi vicini in questo quartiere non mi trovo proprio. Figurati che l’anno scorso hanno piantato una grana con mia madre per
Ci distruggeranno, pensavo fissando un punto a caso. Siamo finiti, noi come umanità siamo al capolinea. Sono troppo forti. Quegli occhi enormi e vuoti. Devo agire. Adesso la pianto di stare col cucchiaio a mezz’aria e mi metto a urlare. Lo urlo a tutti, gli dico che dobbiamo scappare, abbiamo la macchina, faremo in tempo a prendere l’autostrada, non possono essere già dovunque, almeno ci salveremo la pelle per oggi. Devo dirlo a tutti. Adesso lo dico.
E poi mi misi le mani sulla faccia. Attorno a me nessuno parlava più, si erano spostati da un’altra parte, erano rimaste Leonetta e Marina che, complice il gin, cominciarono a flirtare e poi a baciarsi. Sentii alle mie spalle Gianrico che – forse un po’ arrapato – commentava: Ma non vi eravate lasciate il mese scorso…? Ed Emma lì accanto gli rispose: Sì, figurati, per la decima volta. Ma Giuliano che ha, sta male…? sentii chiedere ad Alessandro.
Che poi mi gridò:
– Giuliaaaanoooo.
– Sì? Sussultai.
– Stai bene?
Deglutii.
– Perché?
– Eh, perché ti vedo sconvolto.
– Sto pensando a una cosa, risposi, e mi lasciò in pace. Li conoscevo tutti da anni, lo sapevano che spesso cadevo nel gorgo dei miei pensieri. Il problema è che stavolta non ero impegnato a tirar fuori dalla memoria non so che passaggio di un brano musicale, o il nome di un attore, o la data di un romanzo – no, questa volta ero lì che stavo per dire (ce l’avevo lì tra i denti) no anzi, stavo per urlare che dovevamo scappare tutti, che eravamo condannati e si salvi chi può; e continuavo a non aprire bocca. Non avevo il coraggio. Ero annientato.
Passò il tempo. Non so più quanto. Leonetta e Marina cominciarono a dirsi dolcezze, e come mai ci siamo lasciate, è che tu sei scema, no tu, no tu, no tu, baciami stupida (e via con il limone), e poi si raccontavano cosa avevano fatto in quei giorni: e mi sei mancata, e sono stata a sentire la nostra canzone al concerto a Perugia, no dai davvero, sì ti ho pure scritto ma non mi hai risposto, vabbè ma non si poteva rispondere, come non si poteva, scema, no tu sei scema (eccetera). Conoscevo Leonetta da quando avevamo tre anni e le volevo bene come ad una sorella. La ricordai col grembiule bianco il primo giorno di elementari. Poi sempre nella mia testa la vidi morta, sbranata dal serpente di mare. Qualcosa si sbloccò e cominciai a piangere.
Preoccupatissime, Marina e Leonetta mi si fecero accanto, e dopo di loro Gianrico che era lì vicino.
– Giuliano! Cos’hai?
– Giuliano, tu hai bevuto qualcosa, sei troppo strano.
– Non ho quasi bevuto, singhiozzai.
– Non è che hai fumato?
– Ma quando mai questo fuma, Gianrico, lo rimproverò Leonetta dandogli uno scappellotto.
– C’è qualcosa che devi dirci, Giulianino?
– Dicci cosa ti fa star male, implorò Marina mettendomi una mano sulla guancia e portando via le lacrime.
– Vi voglio bene, gridai, con la musica di Pino Daniele in sottofondo. – Vi voglio bene. Siete come la mia famiglia. Mi dispiace tanto.
– Oddio, Giuliano, di cosa?
– Di essere andato giù per la strada della scogliera, continuai a gridare a singhiozzo – di avere visto quelle cose che risalivano dal mare. Non dovevo, non dovevo nemmeno uscire di qui, con quel buio pesto, ma che mi è venuto in mente?
Abbracciai Leonetta, che incredula mi accarezzò la testa.
– Giuliano, questa è una sbronza triste.
– Ma non puzza di alcool, protestò Gianrico.
– Emma? disse Ludovico alla finestra.
– No, dissi piangendo sul suo maglione – sono lucido, è che quello che ho visto era troppo grande, troppo orribile e vi vedevo felici e sereni e non ho avuto il coraggio di dirvi nulla, e ora è troppo tardi. È tutto finito. Ma non posso accettare che siamo condannati. Non posso.
– Che c’è, Ludovico?
– Emma, guarda, sta passando una specie di camion per strada.
– Scusa…?
– Guarda tu stessa. È tutto buio, ma un po’ si vede.
– Aiuto, urlai scuotendo Leonetta per le spalle – aiuto, sono loro, sono qui. Chiamate qualcuno. Oh, ma che senso ha. Tutto finisce qui! Ho aspettato troppo. È colpa mia. Forse potevamo salvarci.
– Giuliano, mi fai paura, che sta succedendo…?
Emma intanto, alla finestra:
– Carla, leva un po’ la musica. Ragazzi, silenzio un attimo. Non vorrei che qualche rompicazzo dei vicini avesse chiamato la polizia.
– Mettete via l’erba, intimò Alessandro, e dette il buon esempio lui stesso.
– Ma quanto è grande…? Non sembra un camion della polizia o che so io.
– Non ha ruote sicuramente, annunciò Emma, sforzandosi di distinguere i particolari nella tenebra male illuminata dalle luci del salotto. – Senti che puzzo di pesce…?
– Lo sento. Non capisco, ammise Ludovico.
– È colpa mia, urlai – è colpa mia. È tutto finito. Mi dispiace, mi dispiace tanto.
Mi sciolsi dall’abbraccio di Leonetta e mi raggomitolai sul divano, pensando: Sono qui. Cinque secondi e comincia la fine.
Cinque…
– Ragazzi, io mi comincio a spaventare. Che è quella roba?
Quattro…
– Emma, ma non sarà una specie di animale? Un elefante magari?
Tre…
– C’è un circo qui vicino, no?
Due…
– Sì ma che senso ha? Ale, piantala di fare casino. Sta venendo nel vialetto d’ingresso.
Uno…
– …ma sta strisciando?
Si sentì un tonfo, come di qualcosa che si appoggiava alla porta e tentava di sfondarla.
Giulio Iovine, nato a Bologna il 10/07/1987. Di lavoro studia manoscritti antichi e insegna all’università. Laureato in lettere a Bologna, dottorato a Urbino, assegno di ricerca a Napoli, da febbraio ricercatore a tempo determinato a Bologna. Ha da sempre il sogno di scrivere (romanzi, racconti, teatro). Ha un blog (Il monte Analogo), pubblica prose, meme e video su Facebook e Instagram (Dinosauri futuri) e racconti e romanzi su Wattpad (‘Francesco Storbini’).

Gabriele Gallina
Gabriele Gallina è laureato magistrale presso l'Università degli studi di Bologna, con una tesi in estetica contemporanea la cui ricerca ha analizzato quel nodo cruciale del Novecento che ha al suo centro la complessa figura di Paul Valéry, muovendo da una prospettiva che si è rivelata feconda e tuttora in grado di rivelare risultati inattesi, ossia la diagnosi sulla modernità estetica. I suoi interessi oscillano tra filosofia e letteratura di otto e Novecento.