Il ritorno | racconto di Marco Benedettelli

Aprile 2011

 

La pioggia non scende e non scenderà per tutta la giornata anche se il cielo è gravido come una vescica e io la attendo scrosciare improvvisa giù sulle strade. È la seconda volta che cammino per Avenue Habib Bourguiba, ero fra le strade di Tunisi non molti giorni fa, appena arrivato. Ora sto per partire, sto per voltare le spalle a tutto, il mio viaggio si concluderà all’aeroporto domani mattina. L’uroboro s’è attorcigliato, il serpente inghiotte la sua coda e mangia se stesso. Andare è eroico, tutto è tagliente e fecondo, ma il ritorno ha i ritmi della rielaborazione incoerente e curva. Già oggi le forme sono contaminate dalla memoria, la superficie della realtà è crepata da una coltre di minuscole cicatrici e strizza gli occhi come una vecchia.

Zidie è sbarcato a Lampedusa, è stato Dhaou a dirmelo, m’ha telefonato ieri mattina a Ben Garden. Io dormivo o ero già nel dormiveglia e i raggi del sole filtravano fra le persiane. Lo squillo è arrivato violento, ho preso il mio cellulare e al ricevitore è esplosa la voce del mio giovane e nuovo amico Dhaou, che da qualche marciapiede di Zarzis mi ripeteva completamente esaltato: “Zidie, Zidie. Lampedusa! Lampedusa!”. Zidie aveva telefonato a casa per dire che ce l’aveva fatta e aveva toccato terra col suo barcone e poi allora tutti i suoi amici di Zarzis si sono telefonati l’uno l’altro per ripetersi la notizia entusiasti. Cammino fra le strade signorili di Tunisi che sembrano appese a sottilissimi fili mentre Zidie è fra le palazzine cubiche e grigie del centro di Lampedusa, confuso nella massa degli sbarcati, rinchiuso nel perimetro dell’isola, nel suo paesaggio di pietre preistoriche. Verrò mai a sapere come proseguirà il suo viaggio, Zidie? Ora che è arrivato a Lampedusa, cosa farà? Proseguirà in Francia? Oppure un giorno si stuferà e prenderà anche lui la strada del ritorno, verso Zarzis, dove ha lasciato la sua adolescenza il giorno che è partito per mare?

Lungo Avenue Habib Bourguiba degli studenti distribuiscono volantini sotto i rami degli alberi. Un uomo tiene un comizio con un megafono in pugno. Sta in piedi dietro a uno striscione, sui gradini d’un palazzo dall’entrata monumentale di colonne bianche. Giovani radunati in folla sul marciapiede lo ascoltano, hanno il volto corrugato, si sentono responsabili di qualcosa e sono ancora immersi in giornate solenni. La prima volta che passavo su questo tratto di strada c’era un vasto gruppo di salafiti. Gridavano “Allah akbar” e io camminavo fra le loro innumerevoli bandiere nere e i loro corpi e il suono rauco delle loro voci che si mangiavano tutto lo spazio acustico. Oggi i salafiti non ci sono e il silenzio che nasce dalla loro assenza ha la forma d’un cratere lasciato da qualcosa di pesante e antico che è stato dissodato da terra. Tanti altri dimostranti popolano Avenue de Bourguiba, conglomerati in nicchie dentro la folla che scorre nel passeggio, la loro frenesia è dispersa e caotica.

Forse è anche la stanchezza del viaggio che mi appesantisce lo sguardo. Ho viaggiato di notte, sono tornato da Ben Garden a Tunisi in pullman attraverso Zarzis, Djerba, Sfax, tutte le città della costa. Ero circondato da bambini addormentati, vecchi taciturni e donne col velo che sembravano fissarmi incredule come Nausiche incarcerate. Fuori, oltre i finestrini, le case erano ombre e dentro il pullman fra i sedili si sentiva l’odore di biscotti e succhi di frutta. Alle tre del mattino ci siamo fermati ad una stazione di servizio, piena di giovani chiassosi e cessi otturati e cuochi che friggevano frittelle in una eterna nottata dall’odore dolciastro.

Non riesco ad orientarmi ma cerco la piazza del palazzo del Governo, ho letto che lì da giorni ormai padri e madri manifestano e chiedono notizie dei loro figli scomparsi naufraghi nel Mediterraneo. Avenue Habib Bourguiba è come se non finisse mai, lungo la sua grande nervatura è un susseguirsi continuo di strade che si diramano a spina di pesce. A un incrocio mi si attacca un uomo con la pancia coriacea e il collo pieno di grinze. Parla un po’ di italiano, mi vuole spillare dei soldi, allunga la mano, strizza l’occhio e io cammino veloce fino a sentirmi protetto dalla folla. Arrivo in fondo al viale, c’è una rotonda con nel mezzo un grande obelisco e una donna sembra fissarmi dal suo basamento. È alta, coi capelli corvini, è vestita con un giubbotto di pelle e dei jeans stretti attorno alle gambe magre, anzi secche. Le vado incontro per chiederle indicazioni, stanco e attratto dal suo sguardo innocuo che vuole dirmi qualcosa. Ma più mi avvicino, più in lei distinguo una distorsione leggera dei tratti che rende il suo aspetto quasi caricaturale. Le stanghette viola degli occhiali le calzano sulle grandi orecchie, il suo sguardo è quello d’un animale finito in un ambiente ostile, come può averlo un gatto che annaspa a filo dell’acqua. Le rivolgo parola, lei non capisce, io le mostro il mio biglietto da visita forse per mettere fra noi  qualcosa di reale, prima che il nostro incontro si sbricioli e venga spazzato dal vento. Lei tiene il biglietto fra le dita, lo legge e se lo mette in tasca, poi si ferma a pensare, è un attimo, si riassetta i capelli, sento arrivare dalla sua chioma densa e corvina un odore dolciastro, come se la donna usasse un profumo sbagliato. Poi mi fissa, stavolta le sue iridi sono del tutto indifese e io ho la netta percezione di piacerle. Torno a spiegarle con foga dove devo arrivare, che cerco il palazzo del Governo e la manifestazione delle famiglie dei naufraghi. Non mi risponde ma mi guarda come se già si stesse offrendo a me. Io allora cammino via e lei mi sta dietro di qualche metro, sembra zoppicare, ma forse è solo la sua camminata che è ondivaga. Cerco di andarmene prima di dimostrarle qualsiasi complicità, fermo il primo taxi che passa. Lei mi tiene per un attimo la manica e mi chiama per nome con voce sempre più fragile, ha le sopracciglia lunghe e gli occhi piccoli e liquidi.

In taxi andiamo per vie che salgono e scendono lungo quartieri alberati ed eleganti. Il tassista mi lascia ai bordi di una piazza circondata solo da grandi palazzi del potere che hanno curvature bombastiche. L’architettura partorita dai regimi dittatoriali sembra identica in tutto il mondo, è tesa alla dominazione dello spazio con le sue prospettive mastodontiche e inglobanti ma la naturalezza della luce che viene dal sole la schiaccia e smaschera la pesantezza dei suoi blocchi gelidi. Della manifestazione che cercavo non c’è traccia e il piazzale lastricato di pietra è semideserto, solo qualcuno lo attraversa mentre il cielo color metallo trasforma in fili vaporosi le ombre dei corpi. Cerco in ogni angolo le famiglie dei quaranta dispersi in mare, affondati a largo dell’arcipelago di Kerkennah lo scorso 14 marzo. Fratelli, padri, madri hanno pianto per giorni le tombe vuote dei loro cari, dei loro figli scomparsi in acqua, davanti al palazzo del Governo piangevano e chiedevano notizie, aiuto, almeno un incontro con le nuove autorità per avere un’informazione sullo stato delle ricerche. Avevo visto le loro immagini sui giornali, in tanti tenevano al petto, incorniciata in un medaglione, la foto del proprio figlio o fratello scomparso. “Se ne sono andati da qualche giorno”, mi spiega un militare di guardia al Palazzo del Governo, “La manifestazione si è sciolta”. Abbandono la piazza, scendo per una strada che curva fra edifici sempre più bassi e stretti, sempre più addossati e sbilenchi, nuovamente spogli di qualsiasi velleità razionale, anzi confusi, interconnessi e quasi porosi nelle loro forme incompiute. Scendendo ancora arrivo al morbido gorgo della città vecchia, nel suk policromo coi viottoli dove si susseguono botteghe di tessuti, di pelli conciate e drappeggi e commercianti seduti davanti a piccole stanze con pile di bicchieri e di piatti alte fino al soffitto che traboccano da ogni parte. Il vociare della strada rimbalza sugli oggetti smaltati o sui tessuti, sembra che fra questi vicoli e questi colori la rivoluzione non sia mai passata, nulla sia mai avvenuto. Le merci abbandonate alla loro festa chiassosa sono lontane da tutto, infilate in una risacca di mondo dove gli spasmi della storia arrivano appena. Cammino fra le donne e i ragazzi coi giubbotti di pelle che mi vengono incontro, fra qualche turista che posa gli occhi sul vortice colorato delle superfici. Mentre vedo la mia immagine riflessa in uno specchio dalla cornice rossa il telefono mi squilla in tasca, sul display c’è un numero tunisino. Rispondo, qualcuno inizia a chiamarmi, a sussurrare il mio nome. È una voce di donna, la voce della donna che ho incontrato sotto l’obelisco. Mi chiama per nome, cerca di farmi capire che vuole vedermi subito. Vorrebbe che io la raggiungessi, capisco che vorrebbe dormire con me in albergo, vorrebbe venire in Italia con me, vorrebbe diventare anche lei una barca in mezzo al mare o un aereo sopra il cielo per emigrare in un’altra terra, in un’altra vita, bruciare l’atmosfera, vivere la sua metamorfosi oltre l’orizzonte infuocato che la chiude in un cerchio.

 

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Questo brano fa parte di Harraga, romanzo che sto pian piano completando. Per esser precisi, le 1500 parole sopra pubblicate rientravano in un passaggio del libro che avevo deciso di tagliar via. Poi, forse per amor del paradosso, ho pensato che potevo provare a riprenderle e salvarle, e a farne anzi il testo di “anteprima” di Harraga. Harraga in arabo vuol dire “chi brucia”, e è il nome che nel nord Africa è dato a quelli che cercano di valicare, bruciare la frontiera, per emigrare da irregolari.

Ancora una cosa: questo post coincide con la partenza per un lungo viaggio, verso non si sa bene quale continente, di Gunter Spiegelman. Caro amico, mio pseudonimo letterario, il quale prima di chiudersi casa alle spalle mi ha chiesto il favore di assumermi tutta la responsabilità della mia grafomania e di non schermirmi più dietro la sua improbabile faccia da tricheco.

Marco Benedettelli