Il Tritacarne ⥀ Racconto di Graziano Gala e illustrazione di Gianmarco Izzo ⥀ Mixis Extra #2

Aggiornamento: nella sua già veste di prototipo potenziale, questo racconto illustrato rinasce come numero due di Mixis Extra — raccolta parallela di frammenti divergenti della rubrica Mixis

La cornetta impugnata alle 14 e 03 non aveva, alle 14 e 07, emesso alcun suono.

Solo se qualcuno fosse mai stato presente nel bugigattolo contenente il ricevitore, avrebbe potuto apprezzare l’impazienza di Lucifero Manigoldi tradursi in un grido scivolante fuori dallo stanzino per ricercare nell’ampia metratura dell’hangar delle orecchie ben precise.

«Ciettì! Ciettì! Comm’i ccazz si chiam u’ bolognese? Ciambuott? Ciavatt? Ciabatt?»

Il fantomatico osservatore avrebbe anche potuto – sopravvivendo alle urla dell’editore e all’eco proveniente dall’enorme edificio – recepire un progressivo avvicinarsi ciabattante intento a guadagnare l’attenzione dell’interlocutore:

«Lucio, te l’ho ripetuto mille volte: Ciarfatti, si chiama Ciarfatti.»

La pazienza di Concetta non era solo frutto di amore coniugale e coniugale rassegnazione: era piuttosto un costante esercizio di ricerca del paradiso per sé con annesso patteggiamento purgatoriale per quel marito che con le azioni aggravava lo svantaggio maturato nel nome.

Un dito felice correva su una rubrichetta rilegata a mano che continuamente ingurgitava nuovi nomi, nuovo inchiostro e nuove pagine: non serviva perlustrare la grandezza del capannone o il vestiario di chi parlava per sancire la grandezza di Suez editore, giacché la vera espansione passava da lì, dalla crescita della sopra citata rubrichetta.

Ciarfatti, Ciarfatti Michele, eccoti qua…

Il dito, prima incerto, ora affondava nei tasti a meraviglia, il numero prendeva forma e la cornetta suonava non più interdetta, ma in trepida attesa …

Dall’altro capo del filo qualcuno bestemmiava.

Michele Ciarfatti, in compagnia di padreterni precipitati per l’occasione, controbatteva – prima di alzare il ricevitore – con una sua contro-rubrichetta, sempre più sottile e sempre meno in crescita, poiché le scuse per saltare il colloquio e marcare assenza erano diventate nel corso dei mesi sempre minori e non bastava la fantasia dello scrittore a rimpinguare o rincalzare quanto sottratto alle pagine. Nelle settimane passate ci si era giocati, nell’ordine:

Imprevisti lavorativi
Visita medica – con annesso certificato, mai mal di denti fu più coltivato e ricercato.
Accompagnamento della madre in processione
Processione stessa – con risveglio improvviso della devozione
Supermercato
Commissioni varie
Calzolaio
Rigattiere
Sincope dell’orologio causa pila mal funzionante
Sostituzione della pila all’orologio

E così via.

Ci si inventava di tutto, pur di evitare quelle chiamate.

Ci sarebbe stato, a volerlo, in una delle ultime pagine del quadernetto, uno di quei pretesti perfetti, inattaccabili, cautelanti: ma il matrimonio con Monia Rukavina, amata dello scrittore e sua pari mestiere, in assenza della Rukavina stessa, sarebbe stato tecnicamente non celebrabile. Oltre che triste, pensava lo sconfitto nel prendere la chiamata:

«Ciarfatti, Michele carissimo – miele trasudava dall’altro lato della bocca. E quel miele, pericoloso, con quel tono così impostato, non ce lo si sarebbe mai aspettato da uno che pochi minuti prima masticava un malconcio dialetto napoletano nella scomodante ricerca del nome di uno dei suoi cavalli da corsa. Quello che nessuno sapeva è che il dialetto per il Manigoldi era solo una questione di posa, di vezzo e di libertà, e che il Manigoldi stesso era tutto fuorché partenopeo. Era intimamente convinto che il vernacolo campano fosse strumento di potere e seduzione, perciò aveva preso apposite lezioni per mezzo delle quali vessare familiari, figli e amanti.»

Concetta, ribattezzata Ciettì, al solito, sopportava.

…Ciarfatti mio, la stavo pensando proprio adesso – riprendeva il mecenate.

(« …e poteva pensare ad altro mio signore», voleva controbattere il Ciarfatti, che evitava accuratamente
quelle chiamate-fiume conoscendo il peso di ogni affluente che ne sarebbe sfociato.)

Sa che cosa vorrei fare?

(«qualsiasi cosa, purché non mi riguardi.» – sospirava il disperato martellando sulla tastiera e invalidando il
contenuto di quanto precedentemente avvolto nelle spire della sua Olivia, un’Olivetti 35 incaricati di parti e,
come nel caso di specie, di aborti causati da terzi.)

Qualcosa che serva a tener vivo il suo titolo, che risvegli la memoria dei lettori, che incuriosisca chi ancora
accidentalmente non ha comperato l’opera, insomma un bel …

(«non un firma-copie, ti prego Dio, non un firma-copie»)

Firma-copie, tra un’ora, nel centro della Brianza!

Lo sbattere della cornetta non servì a rintuzzare l’entusiasmo, il godimento e la gioia propugnata dall’editore.
Il distacco della spina, il taglio del filo e il cranio fracassato dell’apparecchio sul pavimento – conseguente sfogo di impotenza non palesata – furono né più né meno che una questione privata. Nella mente del Manigoldi la sua creatura, già intabarrata e inlanata, si stava precipitando sul primo treno utile per non mancare all’appuntamento. La fretta di chiudere sarebbe stata imputata alla voglia di non fare ritardo.

La stessa creatura, effettivamente intabarrata e inlanata, si accingeva a fiondarsi sul primo diretto utile al cambio di regione.

Solo le intenzioni, ecco, erano un tantino dissimili rispetto a quelle di chi ne aveva causato lo spostamento, poiché sui due treni sulle tre metro sul solo pullman che aveva portato il Ciarfatti in Brianza presso la sede del suo editore una solo verbo guidava i passi dell’emiliano.

Quel verbo, nello specifico, era RESCINDERE.

Rescindere i contratti, i rapporti, i legami e gli obblighi, maciullando tutto quello che avevano potuto innalzare le promesse passate con le loro chiamate e le loro pianificazioni, con i loro progetti e le loro scartoffie, con tutto quel modo di fare e vivere e fatturare che al Ciarfatti, in tutta franchezza, aveva solo fratturato i coglioni.

Scrivere voleva Michele, scrivere e basta, e per ricominciare a scrivere bisognava ritornare in quel posto che aveva frenato i battiti di Olivia, accelerato i treni e asfissiato i rapporti col pubblico, mettendo in piedi un arsenale che contemplava assai raramente l’uso della fantasia, dei tasti, dell’inchiostro e delle penne.

Scrivere voleva Michele, scrivere e qualcos’altro, visto che Monia Rukavina mancava da sei mesi e mancava come l’acqua distillata nel ferro da stiro, come la seppia nella pancia dell’Olivetti, come le sedie impiccate sui tavoli in assenza di pavimento, come il pavimento pulito e le stoviglie pulite e il cibo non ammassato sul pavimento e le sedie in corretta postura di quando in casa c’era lei, che era partita in Brianza convocata da Lucifero e che dagl’inferi non era più tornata.

Questo voleva dire, questo avrebbe detto, questo si ripeteva nel lento peregrinare che gli imponeva un inserviente baffuto trasportandolo in giro per l’hangar su un kart trafugato a uno dei tanti stabilimenti golfistici del circondario.

L’arrivo nei pressi del bugigattolo (o quartier generale, come chiamava definirlo il Manigoldi), la visione del telefono e del padrone, lo sbattere della porta alle spalle e l’urlare in faccia a colui che ne aveva causato frustrazioni e spostamenti fu, per il Ciarfatti, semplice conseguenza e compimento di quanto pensato prima.

Con lo strappare dei contratti dinanzi agli occhi del demonio, col rovesciare dai piedi la sua scrivania e con l’accoppare il corpo nero dell’apparecchio telefonico che gli aveva rovinato la vita e le giornate Michele andò giusto un attimo oltre il pensato.

Con il mettere il pur corpulento editore al muro, con il rinfacciargli la scomparsa di Monia, con lo spiegargli che lui avrebbe solo voluto riempire fogli su fogli fino a ingolfare Olivia, con il promettergli che sarebbe tornato al ciclostile, che avrebbe scritto a mano e fotocopiato per pochi intimi, che avrebbe affisso i suoi racconti ai pali dell’illuminazione piuttosto che consegnargli un’altra sola riga l’autore bolognese arrivò al definitivo sconfinamento.

Con il dire che avrebbe fondato una nuova casa editrice, con lo spiegare che avrebbe stampato, se necessario, clandestinamente, con il promettere che avrebbe ricontattato Nervi, Pinardi, la Magallanes, il Paramatti e tutti quegli autori che la Suez aveva gettato nel dimenticatoio lo scrittore emiliano si consegnò – chissà quanto consapevolmente – all’esplorazione di terre mai solcate.

Ciarfatti, figlio mio, ma lei è scrivere che vuole! – la voce del mercante, risistematosi rapidamente nella giacca scomposta, ricominciava a stillare miele dalle labbra.

E qui, tutti Ciarfatti, vogliamo che lei scriva! – l’alzarsi di un tono del parlato richiamava l’attenzione di sagome nere piazzate nel corridoio.

E lei, da oggi, dovrà esercitare una sola occupazione, quella della scrittura! – quello che restava di un uomo accaldato, sconvolto e sgualcito veniva raccolto alle spalle e trascinato lungo il corridoio da mani sconosciute e pesanti, sostanzialmente irrisolvibili. La voce di Lucifero accompagnava l’inutile resistenza degli stivali sul pavimento, lo sgocciolio del tabarro e la pioggia del sudore, riecheggiando in ogni angolo della muratura e in ogni cavità del capannone.

E si concentri solo su quello, mi raccomando, sulla scrittura!

Le parole diminuivano, si stemperavano, si trasformavano in rumore, sostituite da un incessante e ritmico battere proveniente da uno dei corridoi, più precisamente, quel corridoio nel quale le gambe del Ciarfatti si stavano involontariamente dirigendo, scortate con gentilezza – si fa per dire – da due corpulenze che in una casa editrice potrebbero occuparsi, nella migliore delle ipotesi, della ripulitura delle presse meccaniche.

Un martellare da crocefissione, da tortura e da emicrania guadagnava le orecchie del riluttante.

Prendeva lentamente forma ciò che era esistito nei sogni, nelle favole nere, nei racconti che gli esperti del settore si scambiavano la sera per stemperare la noia e nascondere ciò di cui si stavano occupando fino a un conciliante vistosistampi.

Si materializzava, nella mente del condannato, il Tritacarne, stanza di morte e tortura che portava al silenzio chi era, per abitudine, portato nel raccontare; cimitero d’elefanti giovani e vecchi definitamente privati di una storia; deposito indeterminato e senza recupero di esperimenti da meno di cinquemila copie; gioco del silenzio imposto ad autori poco concilianti.

Una porta si apre. Un neon che lentamente guadagna la stanza, la vista che si abitua alla penombra: ecco un’enorme sezione d’hangar porzionata in cellette d’api abitate da essere pigianti. Un impeccabile overture di tastiere. Un tripudio targato Olivetti. Olympia, Remington e chissà che.

Qualche profilo conosciuto, cercato nel calibro della luce: l’inconfondibile naso di Laura Magallanes, quasi a sfiorare la carta nella lettura. L’impetuoso masticare del Nervi, e il suo immancabile sigaro tra le dita della mano sinistra. La matita sull’orecchio del Pinardi, che sorride al nuovo arrivato.

Una postazione libera in lontananza di fianco ad un’altra, occupata da un caschetto nero, in uno speciale appartarsi di scrivanie. Un’Olivia 35 su di essa. Dell’inchiostro, del carboncino, del correttore. Le matite disposte come piacciono a Michele. Una enorme pila di fogli sul lato sinistro. La superficie in legno massello.

Ti stavo aspettando, quanto ci hai messo? – Sempre bella Monia Rukavina, sempre perfetta, un po’ stanca forse, con la schiena un po’ curva ma sempre affascinante.

Il cuore del Ciarfatti, nello stringerle la mano, è un martelletto irrisolvibile.

Fuori, lontano da tutto, delle ciabatte interrogano un editore soddisfatto:

«Lucio, sei sicuro?»

Ciettì, i scrittori so’ comm’ i ciell – ogni tant hann abbisogno dd’a ggabbia, ogni tant d’aria freshca. Veress come i’ ppiacerà fare e’ ppresentazioni, i ffirmacopie, l’oshpitate dopo tre mesì là ddintr

Nel guadagnarsi il silenzio Cettina pregava la madonna e San Leonardo di Noblac, protettore dei carcerati, lasciando Lucifero in quell’indeterminatezza partenopea.

Dentro, in quel marasma di rulli e nastri, il Ciarfatti, rassicurato dalla compagnia, si accingeva a inserire lo spartito nella reincarnazione di Olivia, desiderando unirsi presto all’esecuzione.

In fondo non era più importante chi fosse il carceriere e quale fosse la prigione, se ci fosse libertà o se ci fosse costrizione, se si fosse topi al lavoro o formiche all’opera, operai o pensatori.

Le macchine solcavano mari avventurosi, case indemoniate, teste invasate, mondi rumorosi.

Ogni suo idolo era all’opera, in un nucleo concentrato sul compito della creazione.

Monia Rukavina stava, laboriosa, alla sua destra.

Nessun telefono poteva squillare, nessun editore poteva chiamare, qualsiasi treno – all’esterno – poteva deragliare.
Un respiro. Un indice su un tasto, poi un pollice, poi un medio.

Un susseguirsi di colpi.

L’inizio di un romanzo.

A Michele Ciarfatti scrivere piaceva tantissimo.

Illustrazione di Gianmarco Izzo