Inciampi sul mosto e sulla sfera di Aren ⥀ Passaggi

La rubrica Passaggi ospita oggi la prosa breve Inciampi sul mosto e sulla sfera di Aren, illustrata da Tommaso Agostini. L’editoriale della rubrica può essere letto qui

Illustrazione in copertina di Tommaso Agostini.

 



 

Queste parole s’aprono nel silenzio della -deglutizione-

La comunione più sapida ed incagliata era quell’ostia, nel palato tra le pieghe (genuflessa in asciutta perversione) d’altri riti e d’altre forme oracolari, verosimili al punto da non aver bisogno che d’un calvario introverso prima di dimenticare ogni parola del sermo.

 

Evidenze: amaro, poroso, trascolora nella saliva, 0.5×1 cm, muto. Dalla punta della lingua aumenta una calura, arsa dalle gengive, la bile giunge rapidamente al fulcro (a breve travolto) della testa.

Urge (l’unica priorità, dopo le albe e le riforme, necessaria alla vita) un bivacco.

Ecco il telo da stendere sulla terra, un parquet spinato di cui poi non sono certo di veder il confine con le radici delle gambe e con il Silenzio

Silenzio

Silenzio.

Selene notturna e madre, piove luce tra le fessure divelte della parete, finestre all’anima del mio quotidiano: sono l’anopticon dei dirimpettai. Li sento chiaramente assopiti durante ogni manifestazione divina che traversa queste scale piccole, chiuse del pianerottolo.

La luce, una – sola – lampada, pende dall’alto e trema, caleidoscopica arde sulla mia pelle, molle ed acconciata come poltrona; sulla stoffa, pregio dell’Omobono, forse che sia anch’egli tacciato di sdrucire nella voce le allucinazioni?

Fiaccole sui piccoli cristalli, risuonano nella dilatazione temporale e materiale dell’esistenza, Indra nelle reti incappiati come nodi ma in ogni caso immobili. Sono finito nelle tue mani per errore e inerzia da anacoreta: ti preferisco altrove non in me, o tra le pagine del salotto; non puoi fermarti ad essere mobilio in questa camera ardente di sguardi febbrili e polveri.

Quis custodiet ipsos custodes? Sul filo degli attimi s’annoda lo scempio dell’Ortolano, sul cuor della terra mangiare si mangia, si fuma persino. Dove si conclude, (qui ancora si pensa radicati negli occhi) il solco dei cipressi a guardia delle teste a riposo, si riarma per accettare la morte con l’ago in punto, proclino al dattiloscritto e dall’umidore delle pareti argillose rincuorato. Essere l’anodo sacrificale, lo zinco sulle connetture degli embrici, a guardar bene che lo squasso arrivi dal cielo e non da terra, che la pioggia è acida ma d’altra inclinatura.

Sia come un pesce, o chi lo genera, contratto nelle sue voci, fin troppo rumorose <ora silenti>, di possibilità concettuale e di stelle.

Lo spazio è allargato e genera microbiomi e intrecci rizomatici nella terra o nei pensieri, non trovo la differenza: ancora non rivendico alcun corpo; non è qui, in me, che semini. Quando segno nelle pagine bianche con graffite d’acero, le piccole e brune lettere che storte solcano l’impossibilità, resto statico ovvero la mente non trova appigli di senso adeguati all’approdo.

Contrazione,

Rilassamento.

L’intenzione, qualsiasi, deve essere d’inciampo alla propria stabilità: è forma rapace inserita nella grande opera del sovvertimento. La necessità non più si genera per contribuire o per comporre, anzi per lasciar deflagrare l’ombra dell’Io. L’individualità, quest’ultima, è stratigrafia d’una sutura verticale tra forze disomogenee e proteiformi, visceralmente radicate come innesti al tronco. La chioma (unica) nasconde gli acerbi frutti inesplorati della genesi. Una prodezza eteroclita del radicamento all’unità.

Nulla è più se non struttura amorfa e di frattali. Ogni minerale fino al nucleo estrocettore della materia non può che muovere altrove la sua massa.

Ogni angolo buio non offeso da luce è covo simbolico della rinascita: dal micelio e dalla muffa ribattezzeremo l’avvenire, dalle atmosfere schive dei viottoli luridi.

Ogni passo sarà nella melma prima di riavvolgere lo sguardo alle proprie mani, macchiate dalla carezza della norma.

 

Solo, ai primi sospiri, nella notte errando muto, tra la Leucite di San Pietro e il bianco umore afoso dell’anima corrosa d’ossidazione: Riannaspare – fuori – dal fondo – dello stagno, questa la traiettoria dei primi pendenti passi e delle ossa calcificate del collo, abituate a scrutare solo poco oltre le orme già lasciate.

Sia allora la legge: l’umore intriso d’ostia, non sia uva nera
ma acido.

 

 

 


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Aren
Illustrazione di Tommaso Agostini.