Incomincio a sentirmi straniero | Racconto di Massimiliano Piccolo

Un esile capriolo nella boscaglia. Le gambe scarne che tremolano. Acquattato con gli occhi sporgenti, terrorizzati. Saranno dieci o quindici minuti che sono tra queste tre sottili mura di plastica. Tanto sottili che avverto la gente lamentarsi, tossicchiare, o prendermi a male parole. C’è anche chi sta pensando di bussare per farmi uscire con la forza. Risuona tutto così triste e antidemocratico. E pensare che mentre guidavo per venire qui, pensavo a quanto potesse essere lontana la Corea del Nord, Kim Jong-Un e quella acconciatura da pazzo totale. Quasi peggio di quel suo ghigno da bambino killer mentre spara razzi in un oceano a casaccio.
 
Qua dentro mi sento a Pyongyang. Una specie di gabbiotto che mi pare un armadio poco segreto all’interno della residenza del bizzarro dittatore. Stringo la matita per provare a scacciare il timore che si è impossessato dell’intero corpo. Un paio di fogli colorati davanti a me, nomi, caselle, simboli, enigmi indecifrabili. Non riesco a decodificare nulla, la vista è appannata, i nomi potrebbero essere un misto di arabo, cinese e sanscrito. Sospiro e mi acciglio, arriccio il naso e mi avvicino, cercando di focalizzare cosa appare su quei due fogli che mi ritrovo a pochi centimetri dagli occhi. Rimango a fissare il vuoto apparente e lentamente ritrovo un barlume di lucidità. Ma non di speranza. D’un tratto riesco a mettere a fuoco nomi, simboli e caselle. Mi ricordo il motivo per cui sono chiuso tra queste tre mura grigiastre e quella tendina azzurra che sta dietro le spalle, insieme agli sbuffi, alle lamentele volanti, ai sacramenti che volano
nell’aria stantia di una cittadina di provincia.
 
La vista si fa nitida. A questo punto la lucidità d’occhio si scontra con la mente annebbiata. Un invernale camposanto di neuroni. Riconosco ciò che c’è scritto, ma non ho idea di dove apporre questa cazzo di croce. Sarà poi una croce che devo segnare? Consulto nomi e simboli, credo mi stia per venire un attacco di panico. Ho una paura fottuta.
 
Partiti di sinistra che se ne stanno accovacciati nella colonna di destra, quelli di destra in posizione di attacco in quella di sinistra. Al centro intersezioni che non comprendo. Nomi e cognomi che risuonano da tempi più che sospetti. Altri che paiono nuovi e che odorano già di marcio. Separatisti che vogliono l’unità contro il male scuro e oscuro. Falci e martelli che arrugginiscono ad ogni occhiata. Ultra-destre che stanno ai margini della scheda, come se fossero aggrappate alla scheda coi nervi tutti tesi. Movimenti complottisti che sembrano recensioni di Tripadvisor. Nemmeno Will Hunting riuscirebbe a mettere mano a queste formule. Non si intravede il minimo principio di logica. Lui bestemmierebbe contro tutti questi e sbatterebbe il gessetto per terra.
 
Vorrei mettere la croce su: mi sento qualunquista. E giuro che non lo sono mai stato, ma in questo momento sento che l’uomo qualunque si è impossessato del mio corpo. Sono posseduto. Vade retro, uomo medio. Sono in preda ad un stato ansioso fuori controllo. Sudo caldo, poi freddo, le tempie sono piscine olimpioniche e le guance cascate del Niagara. Le
schede si cominciano a bagnare, a inzuppare di disperazione, a inondare di incertezza.
 
Un altro colpo di tosse. Da appena fuori la cortina, sopraggiungono venti di guerra. Infuria la bufera, ma il vento, in questo caso, non fischia, parla. Una voce baritonale risuona come un colpo sordo. Come un tronco che si spezza. Ed io sono qui, in attesa del tonfo dell’albero che si schianti al suolo.
 
«Signor Piccirilli, sono quasi venti minuti che è dentro. Si sta creando la coda. Potrebbe accelerare?»
 
Il tono austero del presidente di seggio. Lo riconosco. Una frase, contenuta, onesta, tollerante, quasi democratica. Non riesco a rispondere e la mano riprende a tremare. La matita rumoreggia contro il flebile listello di legno che rappresenta il piano di scrittura. Non sapere dove apporre la croce e il fiato sul collo della folla esterna che si lamenta attraverso la voce profonda del presidente. Serro gli occhi, alzo il braccio con la matita stretta tra le dita, come se fosse un pugnale, poi lo scaglio di colpo contro al foglio. Il frastuono fa tremare la stanza, ma la punta non è rotta. Apro gli occhi e osservo dove è finita, dove ha lasciato il segno. La sorte ha voluto la parte libera, pulita, senza alcuna macchia di stampa. Faccio una croce dove non c’è nulla e prendo l’altro foglio, mettendo la x, dai tratti tremanti, nella medesima posizione della prima scheda. Cerco un senso a questa scelta casuale, osservando i simboli e i nomi che sono una mescolanza senza alcun significato. Mi volto, scosto la tendina di plastica blu e dura, antipatica al tatto, e muovo passi incerti verso gli scatoloni che dovrebbero rappresentare un tesoro inestimabile, la volontà del cittadino. Avverto i lamenti della folla che sembra pronta all’assalto ai forni, poi mi dirigo verso il centro del ferro di cavallo creato da banchi scolastici. Porgo le schede al baritono presidente e cedo la matita ad una delle scrutatrici che mi guarda incuriosita, forse stizzita, non so. Prendo la carta d’identità e comincio a correre, veloce, come quando da ragazzino sognavo di essere Michael Johnson sui duecento metri piani. Sono vecchia scuola, Usain Bolt lo lascio alla gioventù. Del resto ho l’età per votare anche al senato. Schiena dritta, braccia attaccate al petto, passo corto e via celere tra la
mandria incazzata. Esco dall’aula, percorro il corridoio come gli ultimi cento in rettilineo, e taglio il traguardo della porta d’uscita della scuola. Niente fotofinish, la medaglia d’oro mi appartiene. Sono paonazzo, sudato e sfinito. Mi domando se accada a ogni buon cittadino che svolge il suo dovere. Poi cammino verso il niente, con quel mio sguardo rivolto verso il nulla cosmico. Mi fermo nel parchetto vicino casa e tiro fuori l’ultima sigaretta del pacchetto. Mi siedo sulla panchina, aspiro forte, e mentre tutto è tremendamente uguale a sempre, incomincio a sentirmi straniero.