Individuazione o identificazione? | Il politico nel magma della contemporaneità

Viviamo al tempo dei tweet di Salvini su pane e nutella e pizzoccheri, al tempo in cui Rousseau, uno dei critici più risoluti della corruzione insita nella struttura stessa del sociale, si trova suo malgrado eponimo di una piattaforma in cui il furor populi si stempera nell’illusione di una democrazia diretta. Ogni motivo ideologico s’è rovesciato in demagogico, espulso dalla res publica come un inutile retaggio di un passato caratterizzante e imbarazzante, e recuperato soltanto come contenitore da riempire a piacere, modello cuki gelo, svuotato di qualsiasi funzione politica. Della πολιτική τέχνη aristotelica rimane purtroppo solo un pallido ricordo: lasciati per sempre la scienza di governare e ogni suo aspetto teoretico, si è finiti per svilire anche la prassi, limitata, povero cane alla catena, al mero inseguimento del consenso. Nel tentativo di intercettare la caduta – perché di caduta, inevitabilmente, si tratta – vorrei tornare agli anni Settanta o, meglio, agli anni Settanta visti attraverso la prospettiva di un romanzo contemporaneo. Il tempo materiale di Giorgio Vasta è ambientato nel 1978, al tempo del rapimento Moro e, proprio da un passo su Moro, vorrei trarre una suggestione:

Da un momento all’altro il corpo di Aldo Moro cadrà nel buco, tra l’uovo frullato e i filamenti di manzo, scivolerà dentro le tubature, nel reticolo sommerso, e ancora più sotto sprofonderà nella memoria di pietra del mondo, nel basalto magmatico che sta sul fondo degli oceani, nel granito rappreso intorno al quarzo, nel gesso che è stato mare e vapore e sedimento, nelle rocce di fuoco e di cielo, fino a un bozzolo di vetro duro al centro perfetto della terra. [efn_note]G. Vasta, Il tempo materiale, Roma, mimum fax, 2008, p. 70.[/efn_note]


Alla televisione hanno appena detto che le Brigate Rosse hanno ucciso Moro, che il corpo è stato gettato in un lago vicino a Rieti, e Nimbo, un ragazzino di undici anni e mezzo di Palermo, fantastica sulle immagini dei sommozzatori che tentano di immergersi nel lago gelato. Eppure nella visione di Nimbo c’è molto di più: c’è lo stigma dei successivi quarant’anni della politica italiana. Sì, perché i 55 giorni del sequestro Moro, tra il marzo e il maggio 1978, appaiono oggi come l’ultimo evento capace di coinvolgere per intero la nazione sul piano politico e, soprattutto, ideologico. Il corpo di Aldo Moro, come il politico, è scivolato nel «reticolo sommerso», è sprofondato «nella memoria di pietra del mondo», «nel basalto magmatico che sta sul fondo degli oceani». Il politico giace, sotto il magma della contemporaneità demagogica, come un relitto, una reliquia, un feticcio svuotato del suo potere attivo e rivoluzionario. Che ne è stato dell’ideologia? Dove sono finiti la partecipazione e l’interesse per tutto ciò che risponde alle teorie e alle prassi del governare? Una risposta univoca a questi interrogativi sul piano politico, oltre ad apparire parziale, rischierebbe di limitarsi a una vacua constatazione. È invece utile guardare alla questione sempre a partire dagli anni Settanta, ma mutando leggermente la prospettiva: per ritrovare le cause dello stantio impasse ideologico in cui langue la contemporaneità, dobbiamo accantonare per un momento il politico e parlare di mutazione. Il termine non è casuale, perché il nucleo teorico da cui ho intenzione di attingere – a piene mani, lo ammetto – è quello dell’ultimo Pasolini. Sono passati più di quarant’anni dalla pubblicazione degli Scritti corsari [efn_note]P.P. Pasolini, Scritti corsari, pref. di A. Berardinelli, Milano, Garzanti, 1975.[/efn_note]e dall’indagine sulla mutazione antropologica ma, come spesso accade quando s’usa scomodare i profeti, non si può che constatare l’attualità del loro pensiero. Per comprendere i caratteri di questa trasformazione, vediamo un passo da L’articolo delle lucciole:

I «valori» nazionalizzati e quindi falsificati, del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico, di colpo non contano più. Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità non contano più. […] A sostituirli sono i «valori» di un nuovo tipo di civiltà, totalmente altra rispetto alla civiltà contadina e paleoindustriale. [efn_note]P.P. Pasolini, L’articolo delle lucciole, in Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 1999, p. 407.[/efn_note]

Di colpo, la civiltà è divenuta altra, nuova. I «valori» che costituivano il sostrato della civiltà italiana «contadina e paleoindustriale» sono venuti meno, per lasciare spazio a nuovi principi. Ora, non è questo il luogo dove svolgere un’analisi dei modelli antropologici che caratterizzano la nuova società, analisi che Pasolini ha affidato alle straordinarie pagine della Visione in Petrolio.[efn_note]P.P. Pasolini, Petrolio, in Romanzi e racconti II – 1962-1975, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 1999, pp. 1558-1639.[/efn_note] Nella prospettiva che intendo delineare è invece fondamentale fermarsi sulle cause della mutazione: quale unico responsabile, Pasolini individua il capitalismo edonistico portato dal Nuovo Potere, capace di fagocitare le differenze e di appiattire il sistema valoriale borghese che lo ha generato sugli unici capisaldi del possesso e della fama.
Suona familiare? È un Potere a cui Pasolini tenta di resistere attraverso l’ostentazione dei corpi e del sesso, come ultimo baluardo della verità della Vita da opporre all’incedere inesorabile del modello dominante. Dinanzi al progressivo trionfo della sottocultura dei mass media verso la fine degli anni Sessanta, non gli restava che appellarsi all’innocenza dei corpi, «con l’arcaica, fosca, vitale violenza dei loro organi sessuali». Non è un caso che questa breve citazione sia tratta dall’Abiura, perché proprio tra le motivazioni di quel ripensamento si può trovare il punto focale della questione:

Ora tutto si è rovesciato.
Primo: la lotta progressista per la democratizzazione espressiva e per la liberalizzazione sessuale è stata brutalmente superata e vanificata dalla decisione del potere consumistico di concedere una vasta (quanto falsa) tolleranza. Secondo: anche la «realtà» dei corpi innocenti è stata violata, manipolata, manomessa dal potere consumistico: anzi, tale violenza sui corpi è diventato il dato più macroscopico della nuova epoca umana.
Terzo: le vite sessuali private (come la mia) hanno subito il trauma sia della falsa tolleranza che della degradazione corporea, e ciò che nelle fantasie sessuali era dolore e gioia, è divenuto suicida delusione, informe accidia.[efn_note]P.P. Pasolini, Abiura della «Trilogia della vita», in Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 1999, pp. 599-603.[/efn_note]

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Qui Pasolini parla della «decisione», da parte del potere consumistico, di concedere una «falsa» libertà sessuale e un’altrettanto «falsa» democratizzazione espressiva alla lotta progressista. Se è innegabile che i poteri forti degli anni Cinquanta e Sessanta abbiano concesso pratiche e costumi più liberi e aperti, è al tempo stesso chiaro che non si tratta di vera tolleranza. È tuttavia una semplice quanto apparente concessione, o c’è qualcosa che ci sfugge? Sono forse gli stessi giovani della nuova civiltà a imbrigliare la portata rivoluzionaria della liberalizzazione nella Legge del modello neocapitalistico? Il potere consumistico, non è infatti responsabile della caduta per una serie di decisioni prese negli anni del boom economico: è responsabile in quanto modello, talmente resiliente da apparire incontrovertibile. Come infatti Pasolini precisa nelle righe successive:

Il presente degenerante era compensato sia dalla oggettiva sopravvivenza del passato che, di
conseguenza, dalla possibilità di rievocarlo. Ma oggi la degenerazione dei corpi e dei sessi ha assunto valore retroattivo. Se coloro che allora erano così e così, hanno potuto diventare ora così e così, vuol dire che lo erano già potenzialmente: quindi anche il loro modo di essere di allora è, dal presente, svalutato. I giovani e i ragazzi […] se ora sono immondizia umana, vuol dire che anche allora potenzialmente lo erano: erano quindi degli imbecilli costretti a essere adorabili, degli squallidi criminali costretti a essere santamente innocenti, ecc. ecc. Il crollo del presente implica anche il crollo del passato. La vita è un mucchio di insignificanti e ironiche rovine.[efn_note]P.P. Pasolini, Abiura della «Trilogia della vita», op. cit., p. 601.[/efn_note]

È uno dei passi più densi di tutta la critica pasoliniana: al di là dell’affascinante sostrato nietzscheano, è utile concentrarsi sul valore retroattivo della storia. Il crollo del presente comporta una potenza già attiva nel passato, una possibilità insita nella stessa natura umana. Per capire di cosa si tratti, vorrei fare un passo indietro e chiamare in causa il Discorso sulla servitù volontaria di La Boétie[efn_note]E. de La Boétie, Discorso della servitù volontaria, a cura di E. Donaggio, Milano, Feltrinelli, 2014.[/efn_note], un pamphlet scritto da un intellettuale appena diciottenne nel 1549 e circolato clandestinamente per più di vent’anni. La Boétie descrive l’uomo come un essere per la libertà, un essere tuttavia che, per essere libero, necessita di un’individuazione. L’essere umano deve trovare il proprio posto nel mondo e, per abbracciare la propria costitutiva libertà, deve fare della propria diversità un’unicità. È questa possibilità che oggi pare impraticabile: nella degradazione dei preesistenti modelli culturali sotto le pressioni del nuovo materialismo edonistico, i Nuovi Giovani si trovano impossibilitati a fondare la propria individuazione sulla loro naturale diversità. Il loro genuino desiderio di individuazione, finisce così per appiattirsi sull’adesione incontrastata al modello dominante. Inconsapevolmente credono di poter rispondere alla propria connaturata esigenza di libertà con l’omologazione e non si rendono conto che, proprio così facendo, non riusciranno mai a essere liberi. Dalla pretesa di unicità, di un’individuazione consapevole, finiscono per identificarsi con l’unico modello del neocapitalismo edonistico: da tout uns (tutti unici), mutano in un cieco tous Un, un tutt’uno omologante che norma le unicità sotto il velo della falsa tolleranza. Anche nel romanzo di Vasta troviamo un passo che si ferma sull’identificazione, sulle possibili individuazioni che si perdono nell’omologazione di classe:

Questo indistruttibile assetto familiare vetero-borghese mi avvilisce. La tradizione che ignara di se stessa consolida forme e procedure definendo le più intime drammaturgie del tinello, i posti a tavola, le posture, il ritmo del passo per strada quando il pomeriggio del sabato si compra. I parametri, i paramenti e i paraventi-[efn_note]G. Vasta, Il tempo materiale, op. cit., p. 118.[/efn_note]

Come ci ricorda Pasolini nella Visione, non si tratta però del solo «assetto familiare veteroborghese»: anch’esso ha finito per cedere sotto i colpi della mutazione e tutti i valori portanti della borghesia, dai quali il consumismo edonistico si è generato, hanno finito per svuotarsi di senso, lasciando solo modelli vacui da imitare, scialbe pantomime nell’identificazione con il paradigma dominante. Ciò su cui però è utile fermarci e che, nella traiettoria che ho fin qui cercato di tracciare, potrebbe tirare le fila del discorso, è quel consolidarsi di «forme e procedure», quei «parametri», «paramenti» e «paraventi» che parrebbero chiamare in causa una caratteristica propria dell’umano, la conformabilità. Se infatti, seguendo Pasolini, riteniamo che il neocapitalismo abbia trovato la strada spianata a partire da una potenzialità naturale dell’essere umano e rigettiamo la tesi benjaminiana[efn_note]W. Benjamin, Capitalismo come religione, in Il culto del capitale, a cura di D. Gentili, M. Ponzi ed E. Stimilli, Macerata, Quodlibet, 2014, pp. 9-12.[/efn_note]secondo la quale il capitalismo rappresenta una nuova fede, sostituitasi alla matrice cristiana occidentale, dobbiamo credere che ci sia, nell’uomo, una caratteristica fondamentale che gli permetta di assuefarsi ai modelli della sua dimensione pubblica e sociale. Non si tratta qui solo dei comportamenti e degli istinti biologici, ma di una peculiarità tale da far propendere in maniera inconsapevole l’essere umano per l’identificazione a dispetto dell’individuazione. Ora, per parlare di assuefazione, non posso esimermi dal disturbare anche Leopardi. Dalla smisurata teoresi sulla conformabilità contenuta nelle pagine zibaldoniane, riporto solo due brani:

Ciascun uomo è come una pasta molle, suscettiva d’ogni possibile figura, impronta ec. S’indurisce col tempo, e da prima è difficile, finalmente impossibile il darle nuova figura ec. Tale è ciascun uomo, e tale diviene col progresso dell’età. Questa è la differenza caratteristica che distingue l’uomo dagli altri viventi. La maggiore o minore conformabilità primitiva, è la principale differenza di natura fra le diverse specie di animali, e fra i diversi individui di una stessa specie.[efn_note]G. Leopardi, Zibaldone 1452, a cura di R. Damiani, Milano, Mondadori, 1997, p. 1038.[/efn_note]

Non solo tutte le facoltà di assuefarsi, ma la stessa facoltà di assuefarsi dipende dall’assuefazione. A forza di assuefazioni si piglia la facilità di assuefarsi, non solo dentro lo stesso genere di cose, ma in ogni genere.[efn_note]G. Leopardi, Zibaldone 1370, op. cit., pp. 989-990.[/efn_note]

Siamo dunque una specie conformabile, atta ad assuefarsi: siamo «pasta molle», plasmabile dal contesto e dall’abitudine, e questo è ciò che più ci differenzia dagli altri animali. Esposti ai modelli del vivere sociale, istintivamente siamo portati ad aderirvi, placando il nostro desiderio di individuazione in quella che si rivela nient’altro che un’omologazione. Come mai, tuttavia, sono il modello consumistico e il derivato neocapitalismo edonistico a essersi imposti come unica, irrimediabile possibilità nella contemporaneità? La risposta, sconcertante quanto banale, è che si tratti di un modello resistente, adattabile, che fa leva sulla coscienza umana a partire dai suoi fondamenti: il possesso, inteso nella sua concezione animale e biologica, e la tolleranza. Il modello capitalistico ingloba, tollera, accetta, sotto l’egida di una falsa promessa di liberalizzazione che nel tempo norma, gestisce e incasella verso gli unici obiettivi del profitto e della fama. D’altro canto se sto scrivendo queste righe – non me ne voglia Walter Siti[efn_note]W. Siti, Resistere non serve a niente, Milano, Rizzoli, 2012.[/efn_note]- significa che resistere al modello è possibile. Il problema – ed è qui, che riemerge la questione politica – è da porsi sul piano della comunicazione: è il rapporto gramsciano[efn_note]A. Gramsci, Quaderno 4 (XIII), in Quaderni dal carcere, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 2014, §49. 4[/efn_note] tra l’intellettuale e il popolo. Come può il singolo resistere all’assuefazione al modello dei più attraverso il solo concettuale? Deve forse rifugiarsi nella prassi? È una strada che, con molte ombre, è stata più volte percorsa nella storia recente, ed è la strada che scelgono anche i giovani protagonisti de Il tempo materiale:

Quello che le Br hanno capito, dice poi a voce bassissima, è che il sogno deve legarsi alla disciplina, diventare duro e geometrico e proiettarsi verso l’ideologia. […] Le Br sentono tutto questo, dice, sono tutto questo. Danno materia all’immateriale, midollo e impulso a ciò che era guscio e inerzia. […] E noi, dice Scarmiglia, non dobbiamo fare niente?[efn_note]G. Vasta, Il tempo materiale, op. cit., p. 76.[/efn_note]

I risultati di questa scelta sono oggi evidenti: la storia dimentica, il modello unico continua a fagocitare, a inglobare, a “tollerare”, sempre e comunque normando. Vorrei quindi riflettere sull’altra possibilità, quella del concettuale. In una contemporaneità in cui le masse si muovono di pancia, ragionando – assuefatte al modello – sull’utile immediato ignorando ogni supporto ideologico, l’unica via sembra essere quella di lavorare sul paradigma gramsciano. Laddove l’opzione di un rapporto alto-basso, intellettuale-popolo, non pare più percorribile e il rapporto basso-basso si trova a essere trasformato in mera influenza demagogica, rimane solo l’ipotesi alto-alto: resta la possibilità, per citare ancora Pasolini, di rivolgersi ai «gruppi avanzati della borghesia»[efn_note]P.P. Pasolini, Manifesto per un nuovo teatro, «Nuovi Argomenti», gennaio-marzo 1968.[/efn_note]- perché nell’interclassismo contemporaneo siamo tutti, senza eccezioni, borghesi – e di costruire una nuova teoresi politica che possa volgersi in prassi. E questo, è lo scopo di questa rubrica.

(immagine in copertina: Lucia Marcucci 1977, Marx, impronte collage e acrilico su cartoncino, cm 70×50)