L’insegnante e l’erudita ⥀ Racconto di Simone Redaelli
La redazione di Argo augura a tutte le lettrici e i lettori una buona estate, nell’attesa di riprendere le pubblicazioni a settembre, con il racconto L’insegnante e l’erudita di Simone Redaelli
Al centro di questo testo sta la legge antichissima e terribile dell’espiazione. Colei che per chiaroveggenza più sa e più sente è destinata alla morte. E tutti gli altri a percepire soltanto confusamente, soltanto in ritardo, il peso e la necessità del suo sacrificio. Ce lo ha insegnato Pavese, e in effetti questo racconto si potrebbe intitolare anche Tra donne sole.
L’insegnante e l’erudita
La vita, mi ripetevo, è una morte improvvisa,
non una malattia lungamente covata.
E mi ripetevo che se mi aveva lasciato un libro doveva essere importante, Alessandra non è avvezza a questi sforzi teorici, mi ripetevo che se mi aveva lasciato un libro era perché di certo in quel libro avrei finalmente capito perché N.M. era morta, o per meglio dire s’era lasciata morire, d’altronde quella capace di scavare nella teoria di un grand jeté ero di certo io e non Alessandra, Alessandra è troppo dedita all’esercizio dell’insegnamento della danza, all’osservazione passiva dei corpi altrui in movimento, è del tutto incapace di astrazioni.
Mentre entravo da Savini e un pianista tutto innaturalmente piegato sulla tastiera suonava Die Kunst der Fuge pensavo che N.M. aveva tentato il suicidio ogni volta che aveva toccato il palco de La Scala, è un miracolo che non muoia ogni volta, un miracolo, diceva Alessandra, e lo diceva col tono di chi sa esattamente cosa vuol dir sforzarsi fino all’ultima fibra, questo è quello che mi ripetevo mentre il pianista piegato sulla tastiera accompagnava Die Kunst der Fuge con un battito ritmico e muto delle labbra, questo era esattamente quello che mi ripetevo. Ma è chiaro, dissi ad Alessandra una volta, che si sforza fino all’ultima fibra perché io possa scriverne fino all’ultima parola, e in quell’occasione Alessandra fece di no con la testa, come d’altronde faceva ogni volta che concepivo una nuova definizione per generalizzare il senso del comportamento di N.M., infatti come ho detto Alessandra odiava le astrazioni, mi ripetevo all’ingresso di Savini, non era in grado di vedere oltre una punta ben stesa.
In effetti quasi ci vedo in prospettiva, io che prendo freneticamente appunti mentre guardo Alessandra che mima a N.M. come stendere adeguatamente quelle braccia, peccato che non sia mai successo e adesso, proprio qui da Savini, in questo ristorante nel bel centro di Milano, capirò perché N.M. s’è lasciata morire, mi ripetevo.
Ci incontrammo per la prima volta a un’audizione dell’Accademia, c’era un sole che spaccava le pietre, c’era un sole che spaccava il monumento a Leonardo da Vinci, all’epoca provavamo a essere delle promesse della danza, insomma lo eravamo io e lei, io e Alessandra, e fu in quell’occasione che incontrammo N.M. per la prima volta. A Milano c’è il Duomo, ci disse Alessandra, eravamo assai acerbe all’epoca, mi ripetevo ferma all’ingresso di Savini, poco più che delle bambine con uno scarso istinto di autoconservazione, ma Alessandra rimarcò che tutte le étoile più grandi della storia c’erano salite, e allora noi ci salimmo sul Duomo una notte al buio, noi tre, io, Alessandra e N.M., guardammo verso il basso, ci vuole coraggio per buttarsi di sotto, ci disse N.M., insomma ci vuole estremo coraggio per buttarsi di sotto, e danzava sulle terrazze, fra le guglie, e Alessandra pensava che io credessi che N.M. fosse pazza. No, mi disse una volta, non è pazza, è che la danza ti rende noncurante dei rischi biologici che la danza comporta. A questo ripensavo mentre distoglievo lo sguardo dal pianista che accarezzava i tasti e mi voltavo verso la vetrina perfetta del ristorante, più precisamente ripensavo alla parola biologici in bocca ad Alessandra, lei che non aveva in genere alcun tipo di riguardo per il linguaggio tecnico, lei che avrebbe volentieri sostituito al linguaggio delle parole i gesti del corpo.
Insomma, mentre noi provavamo a essere delle promesse della danza, N.M. era ben oltre la definizione di promessa. Perché insomma bisogna esser ben ciechi per non cogliere la differenza, mi diceva Alessandra che al terzo giorno d’Accademia aveva già iniziato a capire i movimenti di N.M., Alessandra capiva i movimenti di N.M. come nessun altro li capirà mai, mi ripetevo guardando oltre il vetro trasparente perfetto della vetrina di Savini, ma un conto è capire, un altro è fare, e un altro ancora è essere. Io non ho mai osato davvero collocarmi nel fare, non perché non fossi capace di fare un plié, non perché non fossi una promessa della danza, non perché non avessi davanti una carriera promettente, ma perché non ero stata predisposta all’arte incosciente di essere.
N.M. era ingenua come una foglia autunnale separata al punto giusto dal suo ramo, trascinata dal vento di Čajkovskij, io al contrario ero ben consapevole dei miei limiti, Alessandra diceva sempre che bisogna avere il coraggio di misurare i propri passi nella vita e non potrei essere più d’accordo, mi ripetevo, solo le persone intelligenti, le persone acute, quelle buone di comprendonio, quelle che sanno esattamente dove stanno possono arrivare a tale lucidità di ragionamento e noi due, Alessandra ed io, eravamo esattamente quel tipo di persone, infatti eravamo dei talenti o se preferite delle promesse della danza. Ma il genio è ben altra cosa.
Infatti, N.M. non era dedita a vaneggiamenti intellettuali, in effetti non credo in lei regnassero dei pensieri, mi disse Alessandra ricordando quando N.M. impersonò Čajkovskij per la prima volta, forse semplicemente si cala in una parte a tal punto da dimenticarsi di sé. Quello che però Alessandra non capiva e io invece capivo, è che bisogna saper accettare che solo chi ragiona sullo stato della propria natura, prima o poi, si ritrova invaso dall’ombra d’un ripensamento, qualcosa nell’andamento della sua vita si incrina, inizia insomma a dubitare della propria sicurezza interiore, e così ammalandosi si trova a dover agire intellettualmente nello sforzo di risolversi, sforzo che, devo proprio dirlo, lo lascerà ancor più dubitante di prima, e dunque ancor più irrisolto. A questo ripensavo riportando lo sguardo sulla sala nel silenzio lasciato dal pianista ora immobile, cioè ripensavo al fatto che pensare, in fin dei conti, non significa altro se non questo. In piedi da Savini di fronte al pianista che ora mi guardava ripensavo che era esattamente questo il mio destino di fronte a N.M, mentre per Alessandra era sempre tutta una questione corporea, come non riuscisse a istruire il proprio corpo a essere N.M. È che proprio vivo uno scarto, mi diceva e le mancavano le parole per articolare oltre, le mancavano proprio le parole, a questo ripensavo da Savini con lo sguardo ora immobile negli occhi imperscrutabili del pianista.
Poi il pianista si alzò, prese un libro da sopra il pianoforte e iniziò ad avanzare verso di me, e in quell’istante mi tornò alla mente un ammonimento di Alessandra, una sorta di vago presagire che a ripensarci ora, proprio davanti a questo pianista, suonava in me più o meno così: di questo passo rimarremo sole, un ammonimento pronunciato col tono di chi ha avuto una folgorazione, una tetra illuminazione piovuta dall’alto e non frutto di un profuso e profondo ragionare.
E infatti N.M. morì, o per meglio dire si lasciò morire, il giorno dopo quell’illuminazione.
Nell’atto IV della versione del 1990 de Il lago dei cigni portata a La Scala da Rudol’f Chametovič Nureev, e oggi impreziosita da un allestimento di luci e colori alla Monet che fa da contraltare a tutto il romanticismo della musica, i soavi cigni di Čajkovskij planano sulle acque solo in apparenza calme di quella scenografia che vuol proprio rievocare il giardino di Giverny. Infatti, il principe Sigfried, travolto dal dolore per aver giurato amore eterno a Odile, creatura del suo rivale Rothbart, sa di aver perduto per sempre la sua amata Odette, e lo sanno anche le acque del lago, pronte a inghiottire la fanciulla per sempre. Nel crescente turbinio delle onde, fra la danza funebre dei cigni, N.M. piange il suo amore perduto, tutto nelle sue linee piange quel dolore che le è naturale, questo dicevo ad Alessandra seduta in platea mentre Alessandra accanto a me mimava quella sofferenza con la postura, sapendo benissimo che in lei regnava soltanto la facoltà di insegnarlo quel dolore, che null’altro se non postura sarebbe diventato di lì a qualche ora, o giorno. Insomma, mentre Sigfried è come invischiato in quelle acque e nulla può per salvare il suo amore da quella che, agli occhi di tutti, è una condanna a morte senza rinunce, N.M. semplicemente si adegua al destino di Odette.
Accertata, sul palco, la morte biologica della più giovane étoile che La Scala abbia mai visto, le parole dei giornalisti si sono sprecate ma nessuna è riuscita ad approssimare la verità. E mentre prendo il libro dalle mani del pianista ripenso che in questo libro troverò proprio la verità sulla morte di N.M., mentre insomma gli tolgo il libro dalle mani inizio a capire cosa voglia dire, per me e per Alessandra, sentirsi davvero sole.


Simone Redaelli
Nato nel 1991, Simone Redaelli è un (ex) biologo molecolare che lavora come Medical Writing Manager per un'agenzia di comunicazione scientifica a Milano e come Ricercatore in Bioetica all'Università di Zurigo. Suoi racconti sono apparsi su riviste letterarie quali Rivista Blam, Argo e Nazione Indiana.