Quanto di morte noi circonda ⥀ Intervista a Matteo B. Bianchi
La rubrica-inchiesta Quanto di morte noi circonda, a cura di Luca Chiurchiù e David Watkins, incontra oggi lo scrittore Matteo B. Bianchi
«Quanto di morte noi circonda» è un verso di Elio Pagliarani. Ora, è anche il titolo di un’inchiesta di Argo sull’immaginario contemporaneo del lutto.
La morte è il rimosso del nostro tempo.
La morte è l’assillo del nostro pensiero e delle nostre scritture.
Queste due affermazioni, palesemente contraddittorie, coesistono nei discorsi dei nostri giorni, sgomitano alle soglie delle nostre impressioni e delle nostre incertezze. Abbiamo così deciso di porre alcune domande a scrittrici e scrittori che – venendo da vari ambiti e maneggiando vari strumenti – hanno affrontato la questione del lutto e della perdita, del rapporto con la morte e con la malattia, in un modo che ci interroga e ci costringe, di volta in volta, a prendere posizione.
È per vederci un po’ più chiaro. È per misurarci la febbre.
(L.C. e D.W.)
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Matteo B. Bianchi è scrittore e autore televisivo. Tra i suoi libri, teniamo particolarmente a ricordare: Generations of love (Fandango, 2016), Yoko Ono. Dichiarazioni d’amore per una donna circondata d’odio (Add, 2018) e La vita di chi resta (Mondadori, 2023).
Grazie mille per la tua disponibilità Matteo B. Bianchi, siamo davvero felici tu sia dei nostri. Quando abbiamo cominciato a ideare questa piccola inchiesta ti abbiamo subito pensato: nel 2023 è infatti uscito La vita di chi resta (Mondadori), un memoir sull’elaborazione del lutto per il suicidio del tuo ex compagno. Un’elaborazione inevitabilmente lunga, che ti ha portato ad attendere più di venti anni, prima di scrivere e di pubblicare questo libro. Parto da qui: come e quando hai capito che era arrivato il momento giusto? E soprattutto: hai cominciato perché hai pensato che l’elaborazione fosse giunta a termine, che avesse ormai trovato un suo compimento, oppure perché avevi tu bisogno di mettere un punto, trovare una forma definita, e dunque in qualche modo definitiva, a qualcosa che ti sembrava non essere finito ancora? In un passaggio del libro ti poni le stesse domande, dichiarando che le risposte sono «infinite». Io però, sfacciatamente, te ne chiedo una in più.
Una delle domande che mi vengono fatte più frequentemente è se scrivere questo libro mi sia stato d’aiuto a livello terapeutico.
Ora, io penso assolutamente di no, e per un motivo preciso, anche di tipo medico-scientifico, se vuoi, nel senso che la scrittura viene consigliata in ambito psicologico al paziente, perché elabori su carta quello che gli sta succedendo, ma è appunto pensata per aiutare chi soffre in quel preciso momento, mentre io, in quanto scrittore, ho scritto un libro per aiutare eventualmente chi l’avrebbe letto. Cioè: la mia personale elaborazione del lutto e il confronto con le conseguenze di un gesto violento come il suicidio sono stati un fatto privato. La scrittura del libro ha rappresentato altro, ovvero cercare di raccontare una situazione sulla quale ancora esiste una censura quasi assoluta. Quindi, se c’era un’esigenza, era semmai quella di rompere questo velo, di parlare di un argomento di cui apparentemente non parla nessuno, il suicidio, e ancora più in particolare di chi sopravvive a un suicidio altrui. Ho voluto rompere un tabù e mettere nero su bianco i processi che uno attraversa, i sentimenti anche molto contrastanti che uno vive in questo tipo di situazioni, perché credo che sia molto importante, molto confortante leggere di qualcun altro che ha attraversato esperienze simili alle tue.
Di nuovo sulla distanza temporale. Molti libri del distacco, specie i classici del genere (quelli di Lewis, Handke, Forest e in parte di Auster, per esempio), sono stati redatti di getto e a ridosso della morte della persona cara. Le urgenze affettive da cui nascono sono percepibili in ogni loro pagina: perpetuare il ricordo di chi non c’è più e lenire il proprio dolore attraverso la scrittura, che invece tradisce, dimostrandosi inefficace. Il tuo caso sembra un poco differente, almeno a prima vista: molti anni separano la stesura del libro da ciò che ti è accaduto, e per questo, usando un’immagine secondo me bella, paragoni la tua operazione a uno scavo archeologico, o meglio alla «ricerca di una civiltà sepolta». Ti chiedo, quindi: qual è stato il primo reperto ad affiorare alla luce? Sei partito da quello o da altri? E ancora: com’è stato – anche a livello tecnico – misurarsi con memorie inabissate a forza, o magari incoscientemente fossilizzate, e tuttavia ancora lancinanti, radioattive? Perché, poi, hai usato il tempo presente per tutto il racconto?
Mentirei se ti dicessi che c’è stato un momento in cui mi sono sentito pronto. A questo libro pensavo da sempre, cioè fin da quando la tragedia è successa, perciò capisco benissimo chi ha scritto a ridosso della perdita subita. Io non ero in grado di farlo, avevo bisogno di elaborazione, di un processo di rinascita personale, prima di poter affrontare tutto in un libro.
In secondo luogo, anche da un punto di vista più strettamente, come dire, autoriale, io conosco i miei limiti; so che sono molto più capace di scrivere di qualcosa quando c’è una distanza temporale; mi vengono meno bene le cose, se cerco di raccontarle in presa diretta. Consapevole di questo, ho preferito aspettare.
Quando ho iniziato a scrivere questa storia, poi, avevo solo una vaga consapevolezza di quello che stavo facendo: stavo lavorando a un altro libro, e a un certo punto mi sono imposto di prendere appunti. Ho iniziato a scriverli e il libro mi è venuto esattamente come lo vedi: la prima pagina che leggi è anche la prima che ho scritto. In fase di editing abbiamo cambiato l’ordine di un paio dei frammenti che compongono il romanzo e basta, per il resto è come l’ho concepito per la prima volta, istintivamente. Nemmeno la scelta di raccontare tutto al presente è stata premeditata: a un certo punto mi sono reso conto che questi non erano più degli appunti, ma il libro stesso, e che il frammento e il presente erano più che adatti per raccontare una storia del genere. Anche da un punto di vista simbolico: il frammento rappresenta la realtà che va in pezzi, il presente coincide con una vicinanza con i fatti che non è solo temporale, ma emotiva.
C’è un’altra metafora che mi è piaciuta molto: parli di questo libro come di «un dono al contrario» per i lettori, convocati ad assistere a un percorso di dolore apparentemente senza direzione, a scendere nelle spirali del senso di colpa, della solitudine e dell’incomunicabilità. Eppure sono convinto che siano molte le persone che ti hanno ringraziato per averlo scritto, per aver offerto loro quello stesso testo che, senza veri appigli e senza ancora il supporto della rete, avevi cercato nel momento della tua perdita: «Se scrivo questo libro è anche perché avrei voluto leggere io allora un libro così, sul dolore di chi resta». Ecco: qual è stata la risposta dei lettori, specie dei «sopravvissuti», come li chiami tu? E quali libri gli consiglieresti, oltre al tuo, per trovare un qualche conforto al dolore?
La risposta dei lettori è andata al di là di ogni mia immaginazione. Nessuno sapeva cosa aspettarsi da questo libro: diversi editori l’hanno rifiutato, la stessa Mondadori ne ha stampate poche copie all’inizio. Quando ho portato il testo alla mia agente, lei mi ha detto che non sapeva come potesse essere vista, o accettata, una storia simile. Poi è successo di tutto, e inaspettatamente: il libro è entrato in classifica, ora lo stanno traducendo in tutto il mondo, a due anni esatti dall’uscita continuano gli incontri e le presentazioni, che vanno ben oltre la promozione. Mi sono perfino ritrovato a parlare a una conferenza alla Sapienza davanti a migliaia di psichiatri, cosa che non mi sarei mai, mai nemmeno sognato nel momento in cui scrivevo La vita di chi resta, che è un libro che è andato a colmare una specie di vuoto. È come se mancasse ancora un testo così, e molti lo stessero però aspettando. Ti dico anche un’altra cosa, più divertente: nel libro intervisto il professor Maurizio Pompili, il più importante psichiatra italiano nell’ambito della suicidologia. Qualche tempo fa mi ha detto, scherzosamente, che adesso quando si parla di suicidio il primo nome a venire fuori è il mio e non il suo: è solo un aneddoto, ma ti dà la dimensione dell’impatto sui lettori.
La reazione dei sopravvissuti, poi, è stata strabiliante: ho ricevuto tanti, tantissimi messaggi di ringraziamento e di vicinanza. Spesso, quando mi scrivono, usano il termine «coraggio», ma per me non è questione di coraggio, quanto di responsabilità e di civiltà. Poi, alle presentazioni mi succede anche di rapportarmi in maniera diretta con queste persone, che mi confidano il loro dolore e di fronte a cui non so mai bene cosa rispondere.
Per quanto riguarda gli altri libri che consiglierei ai sopravvissuti: sul suicidio continua a esserci molto poco, nella narrativa, per cui ne La vita di chi resta cito molti testi che hanno a che fare più con il lutto in generale che con questo tipo di perdita così traumatico. Se dovessi fare un nome in più, però, ti direi La via del bosco di Long Litt Woon, perché è un libro che secondo me, a modo suo, racconta di come la vita, anche se scossa da una perdita improvvisa e dolorosissima, possa essere ricercata, e ritrovata, anche nelle cose più piccole e basilari, come i funghi.
A proposito di sopravvissuti, che sono anche i dedicatari del tuo libro. Potrai non crederci ma, alla prima lettura de La vita di chi resta, l’insistenza con cui usi questa parola, la parola «sopravvissuti», mi ha fatto venire in mente una scena, piuttosto a effetto, di un libro completamente diverso dal tuo. Un dialogo telefonico tra una madre e una figlia: «“C’è un uomo che sta facendo uno studio sull’Olocausto” spiega. “Ha fatto un grafico. Su un asse ci sono appagamento/disperazione, sull’altro successo/fallimento. Ciò significa che ci sono quattro gruppi di persone: quelli appagati dal successo, che sono facili da comprendere, e quelli che sono disperati pur avendo successo, come tanta gente che conosciamo, e quelli che sono disperati per i loro fallimenti. Poi c’è il quarto gruppo: le persone appagate dai fallimenti, che per vivere non hanno bisogno della speranza. Sai chi sono queste persone?” “Chi?” domando. “Quelle persone” risponde mia madre “sono i sopravvissuti”».
Immaginati la sorpresa quando mi sono imbattuto nelle pagine in cui parli, velatamente ma poi non così tanto, di David Leavitt, che è l’autore di Ballo di famiglia, cioè la raccolta di racconti da cui queste parole sono tratte. Non è possibile paragonare il tuo lutto a quello di chi si è salvato dai campi di concentramento – anzi, forse non è proprio possibile mettere a paragone fino in fondo singole esperienze di dolore, e però ti chiedo ugualmente: che effetto ti fa rileggere lo stralcio di Leavitt? Hai mai pensato di meritare qualche fallimento, per quei sensi di colpa che sempre, sempre, germinano nei sopravvissuti di ogni tragedia, individuale o collettiva?
Allora, a essere sincero non ricordavo questo passaggio, anche se conosco bene Ballo di famiglia, che è stato uno dei libri della mia vita. Non più di tre settimane fa ero a pranzo con Leavitt: prima non lo avevo mai incontrato, e se qualcuno mi avesse detto a vent’anni che ci avrei mangiato assieme, mi avrebbe fatto esplodere il cervello. Ti dico però che questo passaggio è azzeccato: l’associazione psichiatrica americana ha stabilito che l’unico tipo di dolore paragonabile a quello di un sopravvissuto a un suicidio altrui è quello dei sopravvissuti ai campi di concentramento. Quindi questa analogia è valida anche da un punto di vista scientifico.
Sul rapporto col fallimento e i sensi di colpa: a un certo punto del libro mi chiedo se il vero me stesso corrisponde a quello più spensierato di prima della tragedia o all’adulto contorto che sono adesso, non trovando risposta. E non la trovo nemmeno in questo caso: non so dirti se l’attaccamento ai fallimenti e ai sensi di colpa sia un effetto collaterale di una “classica” sindrome dell’impostore, oppure derivi direttamente dalla mia esperienza personale.
Leggo la quarta di copertina firmata da Paolo Cognetti, secondo cui La vita di chi resta «illumina tutto il percorso fatto» da te finora. In effetti, un libro del distacco è sempre un libro di svolta; obbliga a un radicale ripensamento sul proprio mestiere e sulla propria vocazione, se vogliamo chiamarli così. È una sorta di anno zero, un secondo esordio. E quindi: come rivedi ora gli altri tuoi testi, specie il primo romanzo, Generations of love (Baldini&Castoldi, 1999; Fandango, 2016), la cui pubblicazione ha coinciso proprio con la fase inziale, e quindi peggiore, del tuo lutto? In che modo il tuo memoir ha cambiato il tuo rapporto con le storie (di finzione e non) e con la scrittura in generale, quella che c’è stata, quella che c’è e quella che pensi dovrà venire?
Devo dire che il mio rapporto con Generations of love è un rapporto ancora molto amichevole, nel senso che tutto sommato, ricollegandoci alla domanda precedente, rispecchia – anche in termini stilistici – ciò che ero prima della tragedia. Generations of love e La vita di chi resta rappresentano due momenti differenti della mia vita, insomma due passaggi di uno stesso percorso: del resto, il “personaggio” che compare alla fine di Generations è anche il “protagonista” de La vita di chi resta. Da questo punto di vista, sono come lo yin e lo yang della mia esistenza.
È comunque vero che un libro come La vita di chi resta comporta una specie di secondo esordio: si tratta di un libro completamente diverso dagli altri che ho scritto, e soprattutto rappresenta un unicum perché ha atteso vent’anni per essere scritto e perché si è strutturato secondo un certo flusso e a partire da un materiale emotivo che voleva essere tirato fuori. È quindi chiaro che non ci potrà mai essere un altro libro così; La vita di chi resta rimane per me una sorta di parentesi. Non avrebbe senso scrivere qualcosa che gli assomigli, anche solo da un punto di vista stilistico. Quello che viene dovrà avere un altro linguaggio.
Una domanda meno feroce, spero, ma comunque quanto più possibile seria. Parli di questo libro come di «un lutto in forma di romanzo», insistendo sul fatto che il racconto, anche se relativo a una storia vera, implica sempre un certo grado di falsificazione dovuto alla riformulazione estetica. Ma non è questo di cui voglio parlare. Piuttosto ti chiedo, essendo tu un grande esperto di musica: se il tuo lutto fosse stato in forma di playlist, quali canzoni, o dischi, avresti scelto e perché? E ancora, secondo te, quali sono gli artisti musicali che hanno meglio raccontato il lutto, coi loro testi o con la loro musica?
Ti dico una cosa che sanno in pochi: una settimana prima che il libro andasse in stampa, ho tolto 25 pagine. Queste 25 pagine erano tutte su canzoni che toccano il tema del suicidio; le avevo scritte per timore che il libro fosse troppo intenso, troppo oscuro, e quindi per inframmezzare i fatti con dei contenuti musicali, o meglio con dei piccoli saggi musicali. Poi ci siamo resi conto che il fatto che il testo fosse strutturato a frammenti permetteva già al lettore di respirare, di trovare delle pause nel flusso del dolore.
Per scrivere quelle pagine però mi sono informato, ho studiato, e mi sono reso conto che ci sono molte canzoni sul suicidio. In Italia sono perfino diventate dei successi estivi: pensa a Lamette della Rettore, oppure a La guerra è finita dei Baustelle. Sono canzoni che escono dalle radio e che affrontano esplicitamente la questione, con più disinvoltura rispetto alla letteratura, forse: prendi per esempio Sia, oppure Billie Eilish. Se poi mi chiedi un disco intero sull’argomento, ti indicherei l’album di Charlotte Gainsbourg Rest, scritto e pubblicato dopo il suicidio di sua sorella e prodotto dai Daft Punk. È un lavoro bellissimo; Charlotte Gainsbourg non ha un grande riconoscimento come autrice musicale perché è già bravissima come attrice, ma ascoltando il disco capisci che ha qualcosa da dire anche da quel punto di vista lì; i testi sono molto forti e riescono a restituire bene l’ambivalenza dei sentimenti, tra rimpianto, disperazione e anche rabbia contro sua sorella.
Il tuo è uno di quei libri che per primi hanno registrato – praticamente in tempo reale – l’abbattersi del covid sulle nostre vite. Ti sei mai chiesto come sarebbe stata la tua esperienza di distacco, se quello di cui racconti si fosse verificato durante le fasi acute della pandemia? Una pandemia che per un periodo ci ha tolto, oltre che un certo modo di vivere, anche quello di poter morire e soffrire, di affrontare le nostre patologie e i nostri lutti. I libri di Ada D’adamo (Come d’aria), Michela Murgia (Tre ciotole) e Antonella Lattanzi (Cose che non si raccontano) si pongono inevitabilmente la questione, anche se lasciano il covid sullo sfondo, come una complicazione ulteriore di una minaccia che sentono ben più presente e opprimente…
Non me lo sono mai chiesto, ma credo sarebbe stato veramente agghiacciante, se al dolore della perdita si fosse sovrapposto quello dell’isolamento. Ringrazio che i due eventi non abbiano coinciso, anche se devo ammettere che, in un certo senso, ho comunque subito un isolamento: nel 1998, quando è avvenuta la tragedia, non c’erano ancora gruppi di auto mutuo aiuto, né psichiatri che si occupassero della questione in modo specifico. Più banalmente, poi, non c’era internet per come lo conosciamo oggi, dove si possono trovare testimonianze, video e così via, e dunque anche consolazione, o perlomeno una possibilità di confronto. Ero solo, non sapevo dove andare e a chi rivolgermi, poi ho scoperto che non sarei riuscito a trovare nulla di ciò che cercavo comunque, perché semplicemente ancora non esisteva. In un modo o nell’altro, una mia forma di confinamento e di isolamento forzati l’ho vissuta, ecco.
Ancora sui libri degli altri, o meglio delle altre. Nel 2023, oltre al tuo, sono stati pubblicati due memoir su lutti che, in termini tecnici, potrebbero essere definiti complicati, perché traumatici o delegittimabili: La paura ferisce come un coltello arrugginito di Giulia Scomazzon, sulla morte di sua madre a causa dell’Aids, e ancora Cose che non si raccontano di Antonella Lattanzi, sulla perdita delle sue bambine in fase di gravidanza. In un solo anno, tre libri su quei lutti che di solito, per vergogna o ricatto sociale, “non si raccontano”: che significa, per te? Te lo chiedo anche in termini letterari, perché sei un direttore editoriale. Come mai la letteratura del distacco sta trovando sempre più spazio nelle librerie? Perché cerchiamo, o abbiamo bisogno, di queste storie?
Non credo che tre libri segnino una tendenza, almeno per quanto riguarda il mercato editoriale. Penso che siano esperienze singole che si corrispondono per una forma di casualità; Antonella e io siamo molto amici, ma quando abbiamo cominciato a stendere i nostri testi non sapevamo che stavamo contemporaneamente scrivendo libri “simili”. Una volta usciti, poi, abbiamo anche fatto diverse presentazioni insieme. Al netto di questo, ti ripeto che non mi sembra che ci sia una wave di libri sul dolore. C’è sicuramente una tendenza degli editori ad apprezzare, accogliere e far vendere libri a tematica autobiografica, però non necessariamente sul lutto.
A un certo punto riveli che il tuo ex compagno si è congedato dalle persone che amava con delle lettere. A te ne ha lasciato un quaderno pieno. Poi scrivi: «Mi chiedo se non esistano analisi letterarie su questo materiale: lo stile, la prosa, le parole ricorrenti. Come si scrive l’ultimo messaggio ai familiari, che è poi l’ultima traccia lasciata al mondo? Uno studio su una tale poetica dell’addio». Ecco, rovescio la questione e faccio la stessa domanda a te, perché con questa inchiesta stiamo cercando anche di capire quali siano i modi – cioè le forme e le poetiche, appunto – per poter dire addio: non a chi resta, ma a chi va. Quali sono le parole che possono restituire un silenzio?
Allora, qui bisogna intendersi. Nel senso che se si vuole restituire questo silenzio, diciamo così, privatamente, credo che ogni linguaggio sia legittimo. Invece se si tratta di una restituzione pubblica, è necessario mettersi nell’ottica di chi questo silenzio lo riceve e lo legge.
Ti spiego meglio. In questi anni mi è capitato che mi consegnassero dei libretti, delle cose autoprodotte, di sopravvissuti che avevano scritto la loro storia, ma si vedeva che lo scopo che muoveva questi testi era soprattutto quello di sfogarsi, di vomitare su pagina il dolore che i loro autori avevano provato e che stavano provando. Qui torniamo al discorso sulla scrittura terapeutica che facevamo all’inizio; dipende tutto dall’intenzione che si ha, sta lì la vera discriminante: nel momento in cui scrivi per condividere, devi in qualche modo astrarti da quello che è il tuo singolo dolore per renderlo comprensibile agli altri, e più vasto. Prendi ancora l’esempio di Lattanzi: da un lato, lei stessa ammette di essersi messa a scrivere per non impazzire, per dare un senso a quello che stava vivendo; dall’altro lato, invece, è chiaro che la sua intenzione è quella di raccontare una condizione e una storia che travalicano le sue e che, di solito, “non si raccontano”.
Infine, ringraziandoti ancora, una domanda che rivolgiamo a tutti. Il nome di questa rubrica è un verso di Pagliarani. Lo vorremmo usare come un termometro, provare a capire davvero «quanto di morte noi circonda», poiché i discorsi che circondano la morte sono, in questo senso, piuttosto contrastanti: da una parte ci viene detto che la morte è, per noi contemporanei d’Occidente, il rimosso per antonomasia, ciò che non vogliamo vedere e occultiamo costantemente; dall’altra, invece, che la morte è sovraesposta e che è (divenuta?) la vera e sola protagonista delle nostre storie. E dunque, che pensi al riguardo? Quanto di morte noi circonda?
Nel mondo dell’editoria esiste una regola non scritta, e cioè che non si deve mai inserire la parola «morte» nel titolo, a meno che, mettiamo, non si tratti di un giallo: sarebbe un freno per le vendite. La morte è quindi ancora una sorta di tabù, editoriale e non solo. Poi magari non lo è per quanto riguarda i contenuti, se vogliamo continuare a parlare di libri.
Discorso a parte va fatto per il suicidio, sul quale resiste un silenzio assoluto. Per dirti: dovevo fare un’intervista al Tg1 ma è poi stata cancellata, pochissime trasmissioni televisive hanno voluto parlare de La vita di chi resta, quelli che ne hanno discusso a livello mediatico lo hanno fatto in modo completamente sbagliato e sempre in termini scandalistici. Un altro fatto che ti può dare la misura e che cito sempre: ho un’amica che lavora a «Internazionale»; dopo aver letto il mio libro, pensava che avessi esagerato sul fatto che del suicidio non parli nessuno. Per curiosità, allora, ha fatto una piccola ricerca sul database della rivista su quanti e quali pezzi fossero usciti sull’argomento nel corso degli anni. In trent’anni di vita di «Internazionale», ne erano stati pubblicati soltanto due. Ti ho detto tutto: un settimanale che si occupa delle notizie globali, che parla continuamente di guerra, migrazioni, eccetera, del suicidio – cioè la terza causa di morte per le persone tra i quattordici e i cinquant’anni nel mondo – non ha trattato che due volte. Non se ne vuole parlare, non c’è altra verità; da questo punto di vista, siamo davvero all’inizio del cammino.
*Immagine in copertina realizzata da Andrea Capodimonte tramite Midjourney.
This work was supported from OP JAC Project “MSCA Fellowships at Palacký University II.” CZ.02.01.01/00/22_010/0006945, run at Palacky University in Olomouc, Czech Republic.