Isadora Duncan: una libellula nella palude

Isadora Duncan fu l’artista che riportò la libertà e l’espressività dei movimenti nella danza

Isadora Duncan fu un’innovatrice e un’artista incredibile: l’artefice di una rottura epocale nei confronti di quella danza che penalizzava, con le sue liturgie e l’innaturale estetica nei costumi e nello stile, la libertà e l’espressività dei movimenti. Duncan visse la trasformazione e il progresso nell’arte come fasi dirompenti di un mondo che non poteva prescindere dal passato e dai valori della classicità.

Isadora reinterpretò il suo presente artistico utilizzando proprio quei simboli e quell’estetica che gli antichi ci hanno trasmesso in secoli di elaborazioni teoriche e filosofiche. Infatti, Isadora si ispirò ai costumi femminili degli antichi greci che adottavano nelle loro danze atteggiamenti naturali e istintivi: abolì le scarpette a punta per esibirsi a piedi nudi e si spogliò di quegli abiti che le ballerine del XIX secolo utilizzavano. Indossò veli semplici e leggeri che mostravano le nudità e la grazia proprie di un corpo femminile. Duncan scrisse una biografia e un illuminante testo sulla sua arte e sui concetti che la ispiravano. Da Lettere alla danza citiamo una suo celeberrimo passo:

Per me la danza non è soltanto arte che esprime l’anima umana attraverso il movimento, ma è soprattutto il fondamento di una concezione totale della vita, di una vita più libera, più armoniosa, più naturale. L’artista americana trasformò il movimento infrangendo quel codice cristallizzato in anni di ripetitiva sublimazione di un’arte divenuta fine a se stessa, che mortificava l’eleganza dei corpi e l’estetica dei movimenti: Quelle posizioni sgraziate e innaturali non esprimono assolutamente lo stato di abbandono dionisiaco che ogni danzatore dovrebbe conosce […], inoltre i movimenti genuini non sono inventati, ma riscoperti […], il principio unico e fondamentale sul quale ho buona ragione di basarmi è l’unità ritmica presente in tutte le manifestazioni della Natura […], sempre inserisco nei miei movimenti un po’ della continuità divina che dà a tutta la Natura la sua bellezza e la sua vita.

In Isadora Duncan, era fondamentale la visione classica dell’arte come origine di ogni valore artistico: le imponeva una sorta di ricongiungimento ideale con l’esperienza culturale ellenica e non con la tradizione a lei più vicina: la libertà era il riferimento artistico più sincero che avrebbe consentito di affrancarsi dai busti, dai corpetti, dai tutù, dalle chiome avvinghiate e contenute, dalle regole astruse e innaturali, dai tabù artistici. Il rapporto con le radici della danza diveniva senza paradosso come emblematico, rigenerava di energia vitale, potenza biologica, era istinto che consentiva ai capelli di liberarsi e al cuore di battere: Per me la danza ha come mèta l’espressione dei sentimenti più alti e profondi dell’anima umana che nascono dagli dei e che vivono in noi, da Apollo, Pan, Bacco, Afrodite […], la danza deve infondere in noi un’armonia ardente e palpitante.

Ancora a piedi nudi e chitone (tunica greca in candido lino), leggera come una libellula che si solleva in volo e sospende il proprio corpo disegnando ellissi con le proprie forme aeree, Duncan si esibiva orgogliosa e sprezzante delle feroci critiche che spesso le rivolgevano superbi critici. Con le caviglie bianche scandalosamente nude e sensuali era pronta a osare flessuosi movimenti su musiche di grandi compositori che nessuno aveva avuto il coraggio di interpretare in danza. Padrona indiscussa delle sue coreografie, Isadora si lasciò immortalare dal fotografo Edward Steichen sotto il tempio da sempre riferimento unico dell’estetica femminile che guarda dall’Acropoli verso l’infinito: le Cariatidi.

Le più grandi artiste di tutti i tempi, come Francesca Woodman nella fotografia, si sono confrontate e hanno interpretato le proprie idee artistiche misurandosi con la sindrome delle Cariatidi. La danza del futuro era possibile interpretando la plasticità delle statue greche grazie alla forza dirompente del sentimento e della musica. La danza era il linguaggio di libertà per eccellenza e la liberazione dai moduli espressivi tradizionali in ogni campo della società, era la lotta contro l’artificiosità del gesto ed esprimeva la vera riunificazione concettuale fra contenuto e forma. La danza istintiva, emotiva e sentimentale, faceva breccia in termini di consenso pubblico proprio in quelle élites europee che avevano assistito agli spettacoli delle danzatrici mortificate in ruoli e idee artistiche ormai superati dai tempi. In My life, la sua autobiografia, sottolineò con forza: I realised that the only dance masters I could have were Jean-Jacques Rousseau, Walt Whitman and Nietzsche. Per Duncan, il corpo fu lo strumento di comunicazione più idoneo a trasmettere al grande pubblico emozioni, sentimenti, valori, arte e spirito. Una concezione ascetica della danza al fine di sublimare l’espressione divina dello spirito umano.

Aspetto importantissimo della scelta artistica di Isadora fu soprattutto quello di essere diventata danzatrice, coreografa e imprenditrice di se stessa in un momento storico in cui le danzatrici erano di estrazione sociale ed economica disagiata e percepite come meri strumenti di divertimento per un pubblico maschile e una società classista. Isadora Duncan volle presentare la danza con la sua dignità artistica e volle essere finalmente libera di gestire personalmente la direzione artistica ed economica del proprio lavoro. 

Il fine artistico di Isadora era quello di raggiungere un modello di movimento che fosse assolutamente in armonia con la natura: l’onda del mare, il vento e la luce, il suono e la musica. Il corpo era lo strumento formidabile e per questo si recava al British Museum a studiare per giorni l’arte scultorea greca: Io mi servirò del più nobile di tutti gli strumenti, il corpo umano e il suo linguaggio sarà il movimento […]. Se cerchiamo la vera origine della danza, se torniamo alla natura, troviamo che la danza del futuro è la danza del passato, la danza dell’eternità che è sempre stata e sempre sarà la stessa. Il movimento delle onde, dei venti, della terra esiste da sempre nella stessa armonia. Ancora a Berlino, nel 1903, Duncan espresse in una famosa conferenza i suoi modelli ispiratori, i riferimenti culturali e le idee per la danza del futuro. La sua migrazione in Europa le consentì incontri e studio che perfezionarono le sue doti intellettuali e artistiche. Divenne amica del pittore Charles Hallé e del critico John Fuller che stimolò in lei l’approfondimento alla conoscenza dell’arte statuaria ellenica, dei fasti artistici del Rinascimento italiano e, soprattutto, della musica sinfonica come momento di sintesi delle più alte composizioni musicali, su tutti Chopin e Beethoven, Gluck e Mozart. Lo studio di Nietzsche, le consentì una nuova interpretazione del repertorio classico nel senso di ricerca e perfezionamento del suo danzare. Nella citata conferenza di Berlino, Isadora sentenziò: La danza del futuro dovrà ritornare a essere una sublime arte religiosa, com’era presso i Greci. L’arte che non è religiosa non è arte, ma pura merce. Contro il manierismo e l’innaturale movimento del balletto tradizionale, Duncan elevò la danza a vera arte, alla stregua della pittura, della scultura, della musica, rendendo dignità all’individuo nel suo ruolo di soggetto danzante: condizione che si può raggiungere solo con una idea di danza come oggettivazione di sentimenti interiori e pratica espressiva. Isadora Duncan raccontò del suo corpo come strumento e totalità espressiva che nasce da impulsi emozionali, ma è sempre consapevole interprete di storia, filosofia e tradizione classica.

Fu nel lontano 1884, che le giovanissime Isadora ed Elizabeth Duncan fondarono una scuola di danza per bambini imponendosi nel quartiere della propria città, San Francisco, con un certo successo. In casa propria impartivano lezioni e, in pubblico, le due sorelle inaugurarono un teatrino con spettacoli itineranti lungo tutta la costa californiana. Pur non riscuotendo una decisiva notorietà, le sorelle Duncan cominciarono a essere conosciute per l’innovazione, la spontaneità e la libertà interpretativa delle loro danze e della loro tecnica artistica. A soli diciassette anni, nel 1895, Isadora partì per Chicago in compagnia di sua madre per entrare nella compagnia di Augustin Daly, di New York, con una tournée di un anno. Nel frattempo, si esibiva in diversi locali sostenendosi a malapena per vivere. Nel 1898, dopo che tutta la famiglia si ricongiunse a New York, un incendio devastò l’albergo dove soggiornavano i Duncan e Isadora perse tutti i suoi averi. Lasciò la compagnia di Augustin Day e cominciò lo studio appassionato dell’eredità culturale e classica dell’antica Grecia. In un momento complicato della sua esistenza non si diede per vinta e si rilanciò componendo coreografie per le musiche di Ethelbert Nevin, suo pianista accompagnatore negli spettacoli. Isadora era irrequieta ma coraggiosissima, un temperamento e una personalità molto forti: convinse ancora una volta tutta la famiglia a seguirla a Londra, in un avventuroso quanto spregiudicato trasferimento in Europa. Dopo un primo periodo di privazioni economiche trovò nella figura della mecenate signora Campbell, un sostegno alla sua vita di miseria: la introdusse in circoli culturali della città e le fece conoscere personaggi di rilievo fra gli intellettuali londinesi. Tra questi l’attrice Ellen Terry che subì il fascino inesorabile della danzatrice americana: la favorì nel suo periodo di integrazione all’estero e la sponsorizzò in società favorendo la conoscenza delle sue idee artistiche. Duncan continuò il suo girovagare in Francia e, a Parigi, conobbe Auguste Rodin, il campione della scultura moderna che diventerà uno dei riferimenti fondamentali per la danza del futuro di Isadora. Erano i primi anni del 1900, quando l’insaziabile artista passava le giornate al Louvre cercando fra i maggiori capolavori sostegno a nuove soluzioni per le sue ellissi in danza. Cominciò proprio allora a maturare quell’idea fondante che l’individuo debba affrancarsi completamente da ogni condizionamento culturale e sociale che risiede nella asfittica tradizione: la danza era, in assoluto, oggettivazione di sentimenti interiori che necessitavano espressione artistica.

La danza del futuro dovrà ritornare a essere una sublime arte religiosa, com’era presso i Greci. L’arte che non è religiosa non è arte, ma pura merce

Fu a Budapest, nel 1903, che ebbe successi e fama incontestabili, con circa  trenta apparizioni al teatro Urania e compiendo parte consistente del percorso di elaborazione concettuale con approfonditi studi filosofici, da Kant a Schopenhauer, fino a Nietzsche: quest’ultimo fu il vero ispiratore delle sue tesi finali sulla danza. Duncan stabilì l’equazione indissolubile fra lo spirito e il corpo: non c’era bisogno solo dell’ineludibile esercizio fisico, ma era indispensabile il pensiero e l’intelletto per lo sviluppo dell’espressività che non doveva tralasciare il contributo naturale dell’istinto nel tentativo di trovare sintesi in un’armonia totalizzante. Questo approccio olistico ebbe come base teorica anche il contributo del teorico francese François Delsarte che sostenne l’unitarietà e l’armonia di tutte le variabili presenti e caratterizzanti la danza. Il suo pensiero innovativo si radicò soprattutto negli Stati Uniti. Sulla base di una relazione fra il gesto corporeo, la voce e gli impulsi spirituali dell’individuo, egli fondò un metodo di insegnamento che formò cantanti, attori e oratori famosi dell’epoca. Per lo studioso, le forme di opposizione nella danza rappresentavano per il movimento del corpo un livello superiore di espressività. Il movimento si originava dalla parte centrale del corpo, dal busto e si irradiava in ogni muscolo, tendine, articolazione, fino alla punta delle dita, terminali finali: era la prova della conclusione di un vero e proprio processo-percorso che partiva dalla zona emotiva e morale dell’individuo e si sviluppava sublimandosi con la danza e il movimento armonico. L’importanza di porre all’origine del movimento il centro del corpo, capovolse la visione tradizionale della danza che voleva il baricentro alla cintura separandolo in due sezioni quasi autonome e determinando nel movimento delle danzatrici uno svilimento del loro spirito e della loro passione, alla stregua di burattini senza anima. La critica di Delsarte era rivolta soprattutto a quelle distorsioni provocate da sistemi scolastici votati all’autorità della tradizione che non hanno mai dato spiegazioni di tipo scientifico e razionale a questa visione assolutamente regressiva e conservatrice. Delsarte voleva un sistematico raffronto fra le ragioni fisiologiche del corpo e le motivazioni di tipo spirituale di cui non si poteva fare a meno, in una sintesi totalizzante di fattori in armonia.

Isadora Duncan arrivò, per la prima volta in Italia, in una parentesi temporale brevissima ma feconda. Agli Uffizi rimase in contemplazione delle opere botticelliane, su tutte la Primavera. Non a caso, in molte immagini, Isadora si lasciò immortalare in plastiche pose che si ispiravano ai capolavori del Botticelli:

Stavo seduta giornate intere davanti alla Primavera, ne ero innamorata. Ispirata da questo quadro creai una danza che cercava di rendere il suo dolce, il suo meraviglioso movimento, il tenero ondulare della terra coperta di fiori, le caròle delle Ninfe e il volo degli Zefiri che si svolgono attorno alla figura centrale, per metà Afrodite e per metà Madonna, che con un solo gesto significativo esprime la nascita della primavera.

Isadora Duncan giunse all’apice del successo proprio nel momento in cui uno dei più autorevoli critici stroncò le sue esibizioni: il critico Aby Warburg era il maggior esponente della tradizione che abiurava a ogni tentazione riformatrice nella danza. Con una missiva alla moglie, spedita dopo aver assistito all’esibizione di Isadora, criticò l’artista con una certa ironia: Una sera fa sono andato con Mayern a vedere la Duncan ballare; molto gradevole questo inizio di rinnovamento della mimica del balletto, ma niente di eccezionale, soltanto qualcosa di molto delicato, affettatamente decoroso, davvero troppo decoroso: lei è veramente nella parte quando si diverte e saltella qua e là come una coniglietta: quando interpreta cose più serie appare sempre impostata con un’espressione del viso dolorosa e sotto le sue gambe nude. Inoltre sarebbe meglio che lei danzasse insieme ad altri: il suo agitarsi da sola davanti ai tendaggi è davvero troppo sciocco (WIA, GC, Aby Warburg a Mary Hertz, 17.11.1903). Isadora gli apparve grossolana, addirittura disarmonica, poco seria nell’affrontare un qualcosa di così immane respiro artistico. I movimenti delicati di Isadora venivano percepiti addirittura come offensivi rispetto alla forza dello spirito del paganesimo, inquieto e vigoroso. Inoltre, il critico vide nelle nudità della danzatrice, con una punta di moralismo maschilista, un atteggiamento imitativo esteriore che rispondeva a logiche di rappresentazione dell’antico mondo greco senza che ciò le facesse raccogliere i risultati sperati.

Isadora Duncan fu una danzatrice istintiva ma non sprovveduta. Non propose mai una formulazione teorica strutturata o una strategia che tenesse conto di particolari modalità tecniche: nessun sistema standardizzato né metodi didattici assoluti nella danza. Isadora incarnava semplicemente la grandezza riformatrice che rompeva, senza proporne nuovi, schemi e virtuosismi retorici, vuoti e senza alcuna visione di futuro e modernità. La sua danza e il suo stile furono irripetibili, il personaggio assolutamente inimitabile: la spontaneità che la caratterizzò fu interpretato come un afflato irrazionale che indusse critici e studiosi a vedere in lei un’artista contraddittoria. Non tutti furono d’accordo con Warburg: in un’altra lettera di Max Hertz indirizzata proprio al critico nel 1913, si esprimeva al contrario un giudizio positivo della danza della Duncan: Il fatto che il corpo allenato secondo i principi della Duncan si avvicini nell’espressione alle forme antiche è nella natura delle cose. Dedurne che si tratti di imitazioni sarebbe del tutto sbagliato. Se si trattasse di questo, tutta la vitalità se ne andrebbe al diavolo (WIA, GC, Max Hertz ad Aby Warburg, 13.02.1913). Duncan rivendicava con la danza dignità spirituale e tecnica. Alla base di questa ambizione, Isadora aveva compreso che bisognava rafforzare consapevolezza, cultura, stile e ricerca autentica non necessariamente cristallizzando il tutto in una didattica manualistica. La rappresentazione scenica e la teatralità delle sue evoluzioni facevano parte dell’unico disegno possibile nella danzatrice: modernità e riforma tutta al femminile. Isadora Duncan amò Firenze e Botticelli al di sopra di ogni cosa raccontando questa esperienza come un momento assolutamente determinante per la sua carriera: Restavo là fino a quando mi pareva di assistere realmente allo sbocciare di quei fiori, al muoversi a danza di quei piedi, al palpitare di quei corpi; fino a che un angelo della gioia veniva a visitarmi, ed io pensavo allora: Danzerò questa immagine; trasmetterò agli altri questo messaggio d’amore, di primavera e di vita che ho ricevuto con tanta emozione. E sarà la danza che darà loro questa estasi. Da queste parole si capisce quanto anche Isadora fosse stata colpita, durante le visioni pittoriche, dalla Sindrome di Stendhal, quel disagio piuttosto piacevole di sentirsi trascinato in un vortice inebriante di bellezza e nonsense. Gli sforzi dell’artista si intensificarono durante la sua maturità artistica laddove intendeva lanciare un messaggio su tutti: materializzazione visiva del ritmo, della melodia e della capacità di colpire con l’emozione gli spettatori che divenivano parte attiva delle sue performances, coinvolgendoli nei suoi movimenti e nelle coreografie mai convenzionali. Lo spirito anarchico in danza di Isadora, lo si percepiva come rispetto massimo della dignità individuale e artistica, soprattutto nella funzione irrinunciabile di essere in armonica coesistenza con tutti gli altri esseri. Il corpo, essendo strumento per eccellenza, doveva concedere a se stesso la penetrazione di ogni ritmo, vibrazione, afflato musicale e divenire spirituale, nel tentativo di porsi al centro di ogni tensione artistica. La musica è in natura, in uno stagno, nello scorrere di un ruscello, nei vortici degli oceani, nelle spirali dei venti.

Nel 1904 si recò in Grecia col fratello Raymond e successivamente in Germania, in tournée. Sul territorio ellenico coronò il sogno di una vita: gli scatti del fotografo Steichen provano la lettura assolutamente classica della sua arte. In Germania si esibì solista in varie città dopo essersi espressa in compagnia di sue allieve portate con sé dalla Grecia: Amburgo, Lipsia e Hannover dove subì una severa bocciatura da parte dei critici. Nella sua permanenza in Russia nel 1905, durante quegli anni convulsi e connotati da rivoluzioni e cambiamenti epocali, Isadora poté assistere al funerale di alcune vittime di una rivolta operaia che sconvolse San Pietroburgo. Ancora una volta, dimostrò di essere una donna umanissima e volle esprimere la propria solidarietà decidendo di prestare la propria arte mettendola a disposizione degli oppressi e dei bisognosi. Riscosse enorme successo a Mosca, Kiev e San Pietroburgo danzando sulle note delle Polacche di Chopin. In Russia, la grande scuola di balletto con la sua memorabile tradizione si fondava su regole ben precise e forse poco convergenti con le idee di Isadora. Sorprendentemente, questa distanza teorica e tecnica non impedì la solidale e reciproca ammirazione con le autorità artistiche russe. In quell’occasione, nacque una profondissima amicizia con l’esponente di maggiore spicco della danza classica russa, Anna Pavlovna. Isadora subì il fascino di uno dei più grandi registi della storia del teatro: Konstantin Sergeevič  Stanislavskij che apparteneva al mondo degli intellettuali del cambiamento capaci di stravolgere idee cristallizzate in secoli di storia e tradizioni. Egli trasformò l’idea del regista-despota: diede finalmente un ruolo più creativo e partecipativo agli attori e sconfessò chi pretendeva di dirigerli alla stregua di semplici marionette. Gli attori entravano a pieno titolo nel mondo dell’arte e della professionalità partecipando all’atto creativo determinando e sublimando anche la propria interpretazione. Isadora dopo successi e umani riscontri di vera amicizia tornò a Berlino e fondò una scuola di danza a Grünewald. Di ritorno in Europa nel 1906, conobbe uno dei più grandi scenografi teatrali della storia, Edward Gordon Craig, figlio di Ellen Terry: che la stessa Isadora aveva incontrato anni prima nel suo primo soggiorno inglese. Per Craig, il teatro sublimava la sua funzione artistica solo se era in grado di rielaborare i suoi organismi parziali, riproponendo la teoria delle tre unità ma trasformandole: l’apparato scenico, l’attore e il dramma dovevano mutarsi in scena, azione e voce. L’innovativo Craig rimase affascinato dai gesti di Isadora e dalle teorizzazioni di Delsarte grazie alla loro abnegazione nel percorrere nuove strade artistiche. Craig e Duncan cominciarono una vorticosa relazione amorosa che portò alla nascita di una bambina: Deirdre.

Nello stesso anno fu in tournée in Danimarca e Svezia. In Italia ebbe un primo incontro con Eleonora Duse e, insieme a Gordon Craig, mise in scena Rosmersholm. Isadora, senza sosta, partì per la seconda volta in Russia, poi in scena in Olanda, ad Amsterdam. L’anno successivo in Inghilterra con le sue allieve di Grünewald. Di ritorno, in un frenetico viaggiare, fu negli USA e stipulò un contratto a Broadway. A Parigi, nel 1909, Isadora conobbe l’imprenditore delle macchine da cucire Paris Singer, con il quale ebbe un figlio di nome Patrick. Singer si dimostrò solidale con lo stile di vita e le attitudini di Isadora e contribuì alla fondazione di una scuola di danza in Francia. Intanto, Isadora, si esibiva con W. Darmosch negli USA e frequentava Gabriele D’Annunzio, a Parigi, fra viaggi oceanici e tournée. Dopo una tournée in Russia con l’amico musicista H. Skene, nel 1913 un evento tragico e incredibile colpì Isadora: i suoi due figli e la governante morirono annegati nella Senna, i bambini avevano tre e sette anni. Isadora cominciò un frenetico girovagare che la portò in Albania, a Costantinopoli e in Svizzera. Incontrò il grande Rudolf Laban dal quale ebbe un figlio che morì drammaticamente alla nascita. Un periodo di profonda depressione e di buio sembravano travolgere l’artista che, rientrata in Italia, fu ospite a Viareggio di Eleonora Duse, a cui si legò in un amore saffico. Successivamente ebbe una nuova avventura amorosa con la poetessa Mercedes de Acosta. Nel 1914 ebbe ancora la forza di riaprire una scuola a Bellevue con un progetto di tradurre in danza la Nona di Beethoven. La guerra era alle porte e in uno slancio di solidarietà, Isadora fece dono della propria casa al fine di realizzare un ospedale per i feriti di guerra. Ancora negli USA nel 1915, a New York, Isadora si esibì al Metropolitan Theatre danzando la Marsigliese avvolta in un abito rosso e richiamando la famosa opera di Eugène Delacroix che ritraeva metaforicamente la Rivoluzione francese. Finalmente in Sud America nel 1916, in tournée a Buenos Aires, Montevideo e Rio de Janeiro, a Cuba e a San Francisco, rientrò in Europa che ormai era sotto i bombardamenti. Alla fine della guerra ritornò in Grecia con le sue migliori allieve per realizzare il sogno di una scuola-tempio. L’impossibilità di concretizzare la sua aspirazione, la gettò in una delusione profonda. Dopo l’ennesima fuga a Parigi, nel 1921 grazie alla richiesta di Lenin in persona, Isadora si trasferì a Mosca piena di speranze per realizzare un progetto artistico che fosse strutturale agli ideali della Rivoluzione d’Ottobre: si esibì instancabilmente e gratuitamente per il popolo russo impartendo lezioni di danza ai figli degli operai. La scuola di danza ivi fondata però, dopo tre anni di sopravvivenza, non ricevette più introiti statali nonostante Isadora fosse divenuta cittadina sovietica. Nel 1922, Isadora incrociò il più grande quanto fulmineo amore della sua vita: il più giovane poeta russo Sergéj Esénin che volle sposare nell’immediato e con il quale ebbe una relazione burrascosa e conflittuale. Dopo appena un anno e al ritorno da una lunga tournée negli USA, il poeta rientrò in patria e si suicidò in circostanze che sono rimaste fino ad oggi controverse. Come naturalmente accade, negli ultimi anni della vita Isadora cominciò la sua parabola discendente. Cominciarono a svanire sia la sua fama che il suo carisma e, soprattutto negli USA, subì critiche velenosissime di ogni genere. Qualche mese prima di morire tragicamente, curò personalmente la sua autobiografia, My life. In condizioni fisiche sempre più fragili, il 14 settembre del 1927, morì in circostanze raccapriccianti e incredibili: i lunghi lembi della sua sciarpa si impigliarono nei raggi delle ruote della Bugatti decapottabile su cui era salita in compagnia di un suo amico e ne rimase strangolata. Il suo corpo fu cremato e le ceneri collocate fra le celebrità dall’arte e della cultura nel cimitero di Parigi, al Père-Lachaise.

L’anticonformismo di Isadora Duncan e la sua vita avventurosa non devono distrarre dall’enorme valore artistico che ha dato alla danza, un contributo indiscutibile e ben sintetizzabile in una delle sue frasi celebri:

La ballerina del futuro deve essere una donna con corpo e anima sviluppati armoniosamente, in modo che il movimento del corpo può essere la lingua naturale dell’anima. Non si cercherà di ballare le danze delle fate, delle sirene, o delle civette, ma ballerà la donna nella sua visione più grande e pura nella missione del corpo femminile e la sua santità

Il valore politico  delle scelte artistiche di Isadora Duncan non è trascurabile: per lei la repressione della emotività, della istintività e della libertà interpretativa era il risultato di una precisa scelta educativa: era la prassi di una visione sociale conformista, ingabbiata nella regola, che finiva per boicottare e ledere l’espressività e la genesi delle trasformazioni necessarie a scrivere nuove pagine di storia: Per delle ore intere rimanevo in piedi, immobile, con le mani incrociate sul petto all’altezza del plesso solare. Mia madre si allarmava spesso nel vedermi così ferma e come in estasi. Ma io cercavo. E finii per scoprire la sorgente centrale di ogni movimento, il focolare della potenza motrice, l’unità dalla quale nascono i diversi movimenti, lo specchio di visione dal quale sorge, creata, la danza. […] Io ricercavo la sorgente dell’espressione spirituale dalla quale si irradia attraverso i canali del corpo, inondata da vibrante luce, la forza centrifuga che riflette la visione dello spirito. Il centro motore del movimento individuato alla base della colonna vertebrale rendeva artificioso ogni movimento: l’ipotesi invece di irradiazione del movimento da un centro propulsore diverso era una vera e propria innovazione che capovolgeva la tecnica della danza moderna e il suo valore estetico. Isadora Duncan riscopriva il corpo, soprattutto quello femminile, in una concezione totalizzante di un nuovo linguaggio gestuale, più intimo e individualizzato, liberatore: l’amore, la gioia per la vita, la forza generatrice della mistica e dell’estasi artistica.

 

 

Notevole nell’idea di cambiamento, il suo concetto di nudo: La cosa più nobile dell’arte è il nudo. Questa verità viene riconosciuta da tutti e seguita da ogni pittore, scultore o poeta: solamente la danzatrice l’ha dimenticata, proprio colei che più dovrebbe tenerne conto, in quanto lo strumento della sua arte è lo stesso corpo umano . Il nudo dunque è finalmente un principio regolatore della danza, concepita nella sua naturalità senza artificiose coperture. Questa sua concezione sarà alla base nel Ventesimo secolo della modern dance, con tanto di calzamaglia che ben si sagoma sulle posture, sui fasci muscolari e sul gesto dinamico del corpo. Il nudo come verità artistica era un concetto molto caro a Isadora che rese le scene semplici e lineari, senza narrazioni piene di artificiosa banalità. Era dunque necessario interpretare un proprio linguaggio in ambienti liberi, dove venivano messi in discussione palcoscenici delineati e barriere architettoniche: le danze assumevano una forma circolare, ellissi che metaforicamente cingevano gli spettatori a loro volta veri protagonisti e non solo fruitori del gesto artistico. In definitiva, per Isadora, l’arte era la sintesi di una unità ritrovata che abbatteva le apparenze e diveniva fonte della realtà nella sua gioiosa vitalità rigenerativa. L’emozione e la spiritualità dell’individuo erano per Isadora sorgenti e non sequenze già pensate e incanalate in un cliché tecnico preesistente: bisognava finalmente fuggire dalla civetteria servile del balletto e sostituire questa cultura dell’effimero con un progetto e una visione più totalizzanti.  La danza di Isadora Duncan era l’espressione naturale e dionisiaca dell’essere umano con la sua potenza biologica e l’originaria sete di libertà. Il sentimento come elemento di affrancamento da ogni ostile costrizione per gli esseri era ispirato e alimentato in danza da ogni elemento naturale: vento o quiete, onda ramata o tempesta, nuvola o chiarore del mattino.

Il corpo e la danza erano finalmente il fulcro di un’energia vitale senza precedenti, espressione d’arte ma anche rappresentazione di libertà.