Joker e la perdita di ogni nostra certezza
Che volto ha il Male? Sin da bambini ci raccontano favole in cui viene indicato con chiarezza chi sono i buoni e chi i cattivi. Cresciamo convinti di poter riconoscere facilmente questa differenza, semplice da intuire. Almeno così narrano le favole.
Il cinema poi, nel corso delle nostre vite, continua ad edificare in noi questo tipo di consapevolezza, trasponendo sotto forma di narrazione visiva questa dicotomia.
Allora quando andiamo a vedere un film come Joker di Todd Phillips accade che, ancora prima di entrare in sala, pensiamo di avere le idee chiare. Conosciamo già il Cattivo e la sua iconografia rivelata dalla maschera di perfido pagliaccio.
Il nostro immaginario, forgiato da anni di storie lette, viste e sentite, ha costruito una solida struttura di preconcetti, che ben presto si infrangono di fronte ad un’opera che ribalta ogni presa di posizione e la cui esegesi non si presta ad una sola risposta definitiva.
In molti hanno raccontato questo Joker. La storia di Arthur Fleck, un clown profondamente frustrato e maltrattato dalla vita, con il sogno di fare il comico, dalla natura bonaria via via trasformata in follia omicida da una società cinica e spietata. Il Cattivo Joker è dunque il frutto del Male, in questo caso la società stessa.
Fin qui nulla di nuovo, o meglio, si tratta di un’operazione drammaturgica e formale a cui ci ha abituato il cinema della New Hollywood con film come Taxi Driver di Martin Scorsese (1976), citato più volte proprio in relazione all’ultima opera di Phillips, soprattutto per le chiare analogie nella natura del personaggio protagonista che, da mite ed incapace di ogni reazione, esplode in una violenza inaudita, concepita come unica e quasi naturale risposta ad un mondo crudele ed incapace di comprenderlo.

Ancora prima nel 1971, con il film Arancia Meccanica, Stanley Kubrick aveva narrato le vicende di Alex e della sua banda di ragazzi, violenti fino all’estremo. Kubrick all’epoca era partito da una narrazione dalla dinamica rovesciata, in una sorta di climax discendente che, da una situazione iniziale di spietata crudeltà nei confronti del prossimo, aveva portato allo spegnimento dell’aberrante brutalità di Alex il quale, dopo la cura Ludovico, si era visto privato di ogni possibilità di scegliere. La stessa società che aveva armato Alex lo aveva ora reso innocuo come una marionetta nelle sue mani.
Dunque la società crudele che produce i suoi mostri, con tutti i possibili riferimenti cinematografici e letterari del caso, per buona parte della critica, sembra essere il cuore pulsante dell’intero apparato narrativo del film di Phillips. Ma c’è qualcosa da aggiungere a questa interpretazione. Lo spettatore cerca il Male nel personaggio e non lo trova. Instaura invece un inaspettato rapporto empatico con il protagonista.
Noi guardiamo Arthur/Joker e allo stesso tempo ci osserviamo minuziosamente allo specchio, perdendo ogni punto di riferimento concettuale, ideologico e morale che pensavamo di avere prima della visione del film.
A partire dalle iniziali sequenze ci sentiamo disorientati, non riusciamo a trovare quello che pensavamo di vedere. Il Male non si riesce ad identificare. Non lo si rintraccia dove si pensava di trovarlo. Arthur ci viene presentato disarmato e debole, maltrattato ed ignorato. Afflitto da una patologia psichiatrica che si dichiara in un’ossimorica ironia: ride in maniera incontrollata ogni qual volta prova un dolore profondo. Le persone che lo circondano non comprendono i suoi gesti gentili, lo deridono e lo allontanano. Puntualmente. Ripetendo un atroce meccanismo che lo tortura da dentro. Mutandolo per sempre.
Gotham City ci appare come una città abitata da esseri insensibili e crudeli. È un luogo senza colore, emblema di una società dominata dalla fredda indifferenza. I prepotenti hanno la meglio sugli emarginati e per un perverso gioco dei ruoli sono gli stessi ad essere premiati con l’appellativo di “buoni”.
La grande macchina dei mass media produce a piacimento preconfezionate verità, indirizza le opinioni in individui totalmente incapaci di pensare, di muoversi e di compiere scelte in maniera personale. Il volto di De Niro, nel film il presentatore di talk show Murray Franklin, rappresenta il potere di un certo tipo di comunicazione, capace di bullizzare individui che appaiono diversi. Strambi. Li umilia senza pietà e ripensamenti. Arthur per primo subisce il colpo di grazia da questo sistema. Scelto come bersaglio perché rappresentazione del fallito di turno, un comico che non fa ridere per il suo talento, ma per lo scherno che suscita negli altri che lo guardano dall’alto delle loro vite “risolte” con occhi pieni di biasimo. Joker allora diventa simbolo di una ribellione contro questa collaudata e quotidiana crudeltà, perpetuata ai danni degli ultimi.
Distrugge questo meccanismo dall’interno, adottando gli stessi spietati strumenti e tramutando in violenza fisica ogni azione malvagia che aveva subito durante la sua esistenza: ogni singolo gesto fatto ai danni della sua persona, si trasforma in violenza omicida. Inizia ad uccidere ed il suo corpo, inizialmente impacciato e spigoloso, cambia di volta in volta. Gli arti si muovono sempre più sicuri, fino a distendersi come mai prima, trovando una drammatica armonia.
Non rintracciamo mai nel suo sguardo un totale compiacimento per le azioni compiute, i suoi occhi sotto il trucco marcato, sono quasi sempre lucidi e pieni di dolore. Ed è forse questo che ci colpisce maggiormente. Proprio per questo non riusciamo a condannarlo.
D’improvviso diventa l’idolo di una folla animata dalla pazzia distruttiva. La città di Gotham ora è rossa di fuoco. Tutti i seguaci del nuovo “eroe” Joker sono nascosti dietro plastificate maschere da clown, tutte uguali. Appaiono come figurini senza anima. Non ne vedi il volto. Sono gli stessi che probabilmente hanno schernito Arthur, lo hanno ignorato. In loro non si percepisce la dinamica sentimentale e psicologica che muove le gesta di Joker. Sono i figli malvagi di quella comunicazione di massa che li ha creati, da un voluto malinteso, segnando un’atroce spaccatura nell’atarassico andamento della quotidianità cittadina. Arthur/Joker è diventato un pretesto per dare sfogo agli istinti più beceri e brutali; hanno gli occhi nascosti, sono discepoli del Male e lo identificano in Joker, che diventa al momento stesso guida e fantoccio manipolato a loro piacimento.

Usano il simbolo di ciò che è diventato, ma in loro non vi è nulla di Arthur, mossi come sono da una rabbia che sembra essere fine a se stessa, che non sceglie le sue vittime per un dolore da vendicare, ma si muove indiscriminata distruggendo ogni cosa. Joker danza per loro e nel suo sorriso dipinto di sangue si scorge la consapevolezza che da quel momento nulla sarà più lo stesso.
Joker è un film destinato a rimanere nella storia del cinema. Lascia tuttavia sorpresi il polverone alzato intorno al Leone d’Oro ricevuto a Venezia. Un’indignazione che si fatica a comprendere: anche il più scettico tra i cinefili, non può sottrarsi dall’ammettere che siamo di fronte ad un film fortemente connotato dal punto di vista artistico ed intellettuale. Sebbene l’immagine del pagliaccio dai capelli verdi e dagli abiti dai colori accesi rimandi in un primo momento ad una tradizione legata al cinefumetto, nulla come questa pellicola sembra esserne tanto lontano.
Sotto tutti gli aspetti possiamo definirlo un film d’autore, da quello più squisitamente formale, legato alla scelta di una fotografia dai toni cupi che diventano espressione visibile dello stato d’animo del protagonista, alla scrittura complessa, giocata in profondità tra le aggrovigliate trame psicologiche dell’anti eroe narrato. Non si può rimanere indifferenti ad un film che dichiaratamente si presenta come un indiscusso capolavoro.
Lascia al contrario stupiti il premio al migliore attore sottratto a Joaquin Phoenix, comprensibile solo alla luce di un regolamento che non consente di dare la Coppa Volpi all’interprete di un film già vincitore del Leone d’Oro. Il riconoscimento che su tutti avrebbe parlato veramente di questo film sarebbe stato proprio quello dedicato al miglior interprete, perché mai come in questo caso è nella grandiosa personalità dell’attore protagonista che risiede l’essenza dell’opera stessa. Quella di Phoenix è un’interpretazione come non se ne vedevano da tempo, che stordisce anche lo spettatore più ingenuo, il quale non può fare a meno di perdersi nello scrutare il numero indefinito di espressioni impercettibili che vanno a comporre una maniacale perfezione, tutta dedicata ad ogni singolo movimento del corpo e del volto. Il Doppio è diventato carne. Arthur ed il suo opposto Joker sono vivi di fronte ai nostri occhi.
Il Bene ed il Male. O il contrario. Dove finisce l’uno e inizia l’altro? Quando veramente ha avuto inizio la drammatica trasformazione? E noi riusciremmo ora a dire che volto ha il Male?

Anna Consarino
Laureata in lettere con una magistrale in Scienze dello spettacolo e della produzione multimediale é docente di Discipline Audiovisive e Multimediali presso il liceo Artistico di Ancona. Da sempre si occupa di cinema e scrittura. Il suo lavoro. Le sue più grandi passioni.