Kafka e i campi di forze ⥀ La lettura di Adorno II parte
In questa seconda parte (qui la prima), Alessandro Farris, attraverso gli studi di Adorno, riflette su come in Kafka l’estetico vada a sfiorarsi col politico
L’arte e l’impegno
La produzione di Kafka è dominata dai conflitti anche sotto altri punti di vista: già l’atteggiamento dell’autore boemo nei confronti della psicologia è, in effetti, segnato da un’ambivalenza e da una negazione. Più in generale per Adorno nell’universo del Processo, del Castello o dei racconti di Kafka «ogni enunciato determinato fa da contrappeso alla clausola generale dell’indeterminatezza»1, generando uno scontro tra estrema letteralità della situazione rappresentata ed estrema opacità della logica soggiacente a ciò che viene rappresentato e del suo significato. Ed è soprattutto questa conflittualità, che fa risuonare la voce di ciò che cerca suono, a dare valore all’opera di Kafka: ciò che urge non è esauribile in un concetto (come la rispondenza a uno stile), che pure è necessario portare al suo grado massimo così da farlo fallire e far emergere ciò che sfugge, che spinge verso nuovi modi di approcciare l’esperienza, di creare e situarsi nel mondo. Il fatto che risuoni qualcosa che normalmente non ha voce e non è determinato è fondamentale: ma esattamente che cosa cerca voce nell’opera d’arte? Per capirlo è necessario approfondire un altro aspetto del discorso.
Negli Appunti su Kafka viene affrontato il tema del potenziale utopico dell’estetico. Adorno è sempre stato notoriamente critico nei confronti delle opere impegnate (celebre la sua polemica nei confronti delle canzoni contro la guerra in Vietnam), tanto da dedicare a quest’argomento un saggio dal titolo Impegno2. Secondo il filosofo, l’arte che protesta apertamente contro le ingiustizie, l’opera d’arte tradizionalmente politica, sbaglia proprio nel farsi sopraffare dal concetto, riducendosi a poco più che l’opinione politica dell’artista, e trascura completamente la costruzione conflittuale dell’opera, diventando sostanzialmente merce tra le merci, scambiabile, priva di ogni potere sovversivo e pronta per essere consumata; esempi di ciò sono per Adorno opere di artisti come Brecht, Sartre o Schönberg. In particolare, in relazione al Sopravvissuto di Varsavia, composizione del musicista austriaco, Adorno emette una sentenza che ricorda quella volutamente provocatoria da lui pronunciata riguardo alla poesia3, che non sarebbe più possibile dopo Auschwitz: «quando nella letteratura impegnata anche il genocidio diventa possesso culturale risulta più facile seguitare a svolgere la propria particina nella cultura che ha partorito lo sterminio»4. Per Adorno non è con le opere impegnate che si rende giustizia alle vittime delle tragedie della storia: anzi, nella società capitalista, in cui tutto soggiace alle regole del mercato, questo genere di arte commette un’azione gravissima, ovvero quella di mercificare e rendere consumabili eventi drammatici, ridotti al livello di tanti altri prodotti.
Tutta l’arte degna di questo nome è impegnata nella misura in cui «non vuole produrre […] atti legislativi, disposizioni pratiche […] contro il duello, contro la sifilide, contro le leggi sull’aborto o contro i riformatori, bensì mirare a un atteggiamento»5: emerge ancora una volta con molta chiarezza la concezione adorniana dell’estetico come una modalità e non un’entità ontologica. Esso infatti attesta una dimensione del possibile non subordinata ad alcun reale ed è proprio per questo che può elevare una pretesa di verità. Ci suggerisce un’istanza di senso che non è riuscita a realizzarsi, un qualcosa di alternativo alla realtà dominante qualunque essa sia, e in definitiva un senso di movimento e progresso storico. La realtà dominante a cui Adorno si riferisce è quella della società borghese, consumistica e capitalistica, soggiogata dalla ratio illuministica6, ovvero da una pianificazione totale in cui tutto è già dato e ogni significato ci è fornito impacchettato. L’estetico tuttavia sfugge a ciò in quanto non è una datità determinabile e scambiabile, ma appunto una modalità che ci offre una tensione verso qualcosa, un’istanza di alterità che è radicalmente assente, ed è proprio per questo che la vera arte è capace di inceppare i meccanismi di oppressione della nostra società.
[…] l’estetico assume un valore destabilizzante nella realtà
dove l’alterità e l’esperienzialità sono bandite.
L’estetico assume quindi un valore utopico, di riscatto da parte di ciò che non è riuscito a realizzarsi, di quell’altro che non è esistito: quello che oggi cerca suono nell’arte è tutto quello che è stato bandito dall’egemonia della ratio illuministica che ha rifiutato la parte profonda, materiale, esperienziale dell’esistenza umana in favore di una riduzione di essa a pura pianificazione e concetto deterministico. Così, nell’estetico e nell’opera d’arte parlano tutte le voci degli umiliati della storia, tutto ciò che è stato zittito e sconfitto, e in questo sta il valore utopico e autenticamente impegnato dell’arte, che ci spinge a cambiare la nostra vita in modi inediti, forse liberi dall’alienazione contemporanea. In questo senso colui che realizza l’opera, lungi da essere il soggetto artistico7, deve capire quale materiale è storicamente maturo e capace di risuonare ancora oggi. Se l’arte è capace di catturare, soggiogare e consumare chi la fruisce o la realizza, allora l’artista (o il fruitore) ha il dovere e la responsabilità di rispettare l’opera e darsi ad essa facendo appello a tutta l’energia che ciò può richiedere.
Negli Appunti, coerentemente con quanto detto finora, Adorno riflette quindi su come in Kafka l’estetico vada a sfiorarsi col politico (senza esaurirsi in esso): infatti «quasi tutto, nella sua [di Kafka] opera, è reazione al potere illimitato»8. Il «sordido e meschino»9 che dominano le trame kafkiane sono un «crittogramma della tarda fase capitalistica lustrata fino al massimo dello splendore»10; non una semplice riproduzione o una rappresentazione polemica, non un’allegoria in cui l’opera esaurisce il suo significato, quanto piuttosto un crittogramma, un messaggio in codice ben presente ma in filigrana, immediatamente distinguibile a una lettura superficiale. Questo crittogramma emerge su vari livelli. In Teoria estetica Adorno afferma chiaramente che «Kafka, nella cui opera il capitalismo monopolistico appare solo in lontananza, codifica nei relitti del mondo amministrato quel che capita agli uomini sotto la signoria sociale totale con maggior fedeltà e potenza dei romanzi sui trust industriali corrotti»11. I personaggi di Kafka sono spesso superflui, parassitari, inutili per la comunità di cui fanno parte12: Josef K., una volta impegnato nel processo, non riesce a produrre nulla di buono; Gregor Samsa, incapace di lavorare, diventa un peso per la sua famiglia, che non desidera altro che la sua morte. Ma forse il personaggio più emblematico di questa inquietante eccedenza di senso è Odradek, il piccolo rocchetto di filo che sembra essere rotto ma non lo è, e che pare aver perso una funzione originaria che in realtà non ha mai avuto.
Similmente a quanto avviene nella società capitalista, nel mondo di Kafka, un mondo logico e privo di senso al tempo stesso, vige un livellamento totale, che rende ogni deviazione più intollerabile e più sovversiva, così come l’estetico assume un valore destabilizzante nella realtà dove l’alterità e l’esperienzialità sono bandite. Il processo è forse il caso più celebre di un testo nel quale la realtà e la vita dei personaggi rispondono a una logica che domina tutto, ma anche il mondo de Il castello è pieno, dominato dalla ratio: ad esempio, durante il colloquio di K. con il sindaco, quest’ultimo afferma che «uno dei principi ispiratori del lavoro delle autorità è che non si contempli affatto la possibilità di un errore. Questo principio è giustificato dall’eccellente organizzazione complessiva»13.
Roberto Calasso, nel suo saggio dedicato al personaggio di Josef K./K., nota il livellamento e la chiusura che dominano l’universo kafkiano e hanno inghiottito, piuttosto che semplicemente distrutto, anche la sfera del divino, in particolare nei due grandi romanzi:
Certamente non è accaduto, come alcuni continuano a sostenere, che il religioso o il sacro o il divino siano stati sgretolati, dissolti, vanificati da un agente esterno, dalla luce dei Lumi. Ne sarebbe risultato un mondo fatto di funerali laici, nel loro tremendo squallore. È accaduto invece che il religioso o il sacro o il divino sono stati assorbiti e occultati in un qualcosa di alieno, che non ha più bisogno di nominarli perché è autosufficiente e si appaga di essere descritto come società14.
Nel Processo, prima dell’inizio della vicenda, «l’esistenza di K. è profondamente annidata nell’ordine»15: ha un lavoro in banca, un’amante, conosce l’italiano e ha una buona cultura. In seguito all’inizio del processo egli è gettato fuori dalla logica che dominava la sua esistenza, che diventa un labirinto incomprensibile: egli va pertanto eliminato. Ma il crittogramma offerto da Kafka emerge anche dallo stile, descritto spesso come straniante, freddo, distante. La logicità totale della nostra società, il potere imperante del capitalismo, la ratio illuministica che soffoca l’esperienza e che sfocia in una reificazione dell’uomo e dell’esistenza lasciano le loro impronte, oltre che sul piano narrativo, anche sul piano formale, dal momento che per Adorno anche lo stile kafkiano imita questa reificazione, rendendo riconoscibile «il nesso d’accecamento della società mediante il come, il linguaggio»16. Tutti questi elementi narrativi e stilistici entrano nel campo di forza dell’opera, ne accentuano al massimo livello la conflittualità, e rendono giustizia alle voci degli umiliati della storia. Nel saggio Impegno è presente una frase che riassume perfettamente quanto detto finora:
La prosa di Kafka, il teatro di Beckett o il romanzo, veramente mostruoso, L’innommable, esercitano un’efficacia di fronte alla quale le opere poetiche ufficialmente impegnate sembrano giochi da bambini; essi destano la paura di cui l’esistenzialismo non fa altro che parlare. […] La loro ineluttabilità costringe a quel mutamento del comportamento che le opere impegnate si limitano a pretendere. Chi è stato travolto dalle ruote di Kafka ha perso la pace col mondo così come la possibilità di accontentarsi del giudizio che le cose vanno male17.
Negare il racconto, negare il soggetto
In Senza modello Adorno afferma che la progressiva ibridazione e messa in crisi dei generi artistici è un processo storico naturale e insito nel procedere storico dell’arte stessa, senza che ciò implichi però che ogni nuova espressione artistica sia da accettare ciecamente e acriticamente: la questione serissima su cosa si possa definire arte va sempre di pari passo col giudizio sull’opera basato sulla sua materialità e sulla sua compaginazione, che aiuti a distinguere l’arte (che dà sempre corso a un conflitto usando i materiali) dalla pura arbitrarietà (per Adorno le composizioni di John Cage sono esempio di questo atteggiamento aleatorio).
Le opere di Kafka, nella loro grandezza, mettono in crisi le definizioni concettuali e categoriali univoche e l’idea di forme d’arte ermeticamente separate. Ad esempio, i tre romanzi kafkiani, afferma Adorno, «non trovano quasi più la loro definizione nel concetto di romanzo»18. Essi hanno in effetti suscitato nella critica difficoltà di ordine filologico: sono testi incompiuti, frammentari, e l’ordine stesso dei capitoli è spesso dubbio. Anche a livello narrativo sono atipici, poiché il racconto procede meccanicamente e la forma-romanzo crolla letteralmente dall’interno. Ma non solo: nei romanzi emergono i segni dello sfrangiamento e dell’ibridazione delle arti. Si tratta di fenomeni che, in ogni caso, sono stati sempre presenti (basti pensare all’utilizzo dell’ekphrasis nella descrizione dello scudo di Achille nell’Iliade, nella quale si intersecano poesia e pittura, o alle opere di Wagner, che uniscono musica, letteratura e teatro), ma che dal ’900 diventano sempre più rilevanti in virtù del naturale sviluppo dell’arte, che tende a negare sé stessa e i propri confini per procedere ed elaborarne di nuovi, e con essi nuove possibilità creative ed estetiche. Come si articola lo sfrangiamento in Kafka? Kafka, pur dominando il registro stilistico tipico della letteratura espressionista, problematizza il nucleo concettuale dell’espressionismo, ovvero il soggetto, la cui interiorità risulta completamente e impenetrabilmente chiusa in sé stessa, «priva di oggetto». L’autore boemo «costringe la pura soggettività, in quanto necessariamente estraniata anche a sé stessa e reificata, a un’oggettività espressa appunto dalla propria alienazione. Il confine tra l’umano e il mondo delle cose si cancella»19. Se quindi il confine tra umano e cosale scompare, la felicità diventa poco più che una risposta a uno stimolo: essa emerge quando il soggetto viene amato nonostante sia chiuso ermeticamente in sé, ma è un amore in cui uomo e donna sono ridotti a cose, e le donne in particolare sono poco più che un mezzo per soddisfare un bisogno sessuale, o al massimo una fonte di raccomandazioni (Leni nel Processo, Frieda nel Castello).
[…] la vera arte è capace di inceppare i meccanismi
di oppressione della nostra società.
Per narrare questa interiorità priva di oggetto, Kafka ricorre spesso all’elemento visivo, quello che circonda e determina il perimetro del soggetto reificato. Nell’universo kafkiano non c’è una semplice rappresentazione del mondo come proiezione della soggettività: l’ipseità infatti si esaurisce nell’estrinsecazione, nel diventare «residuo del mondo»20, anonimo, cosa tra le cose. La rappresentazione del visibile assume quindi una valenza che va ben oltre la semplice descrizione dell’ambiente in cui si svolgono le azioni, diventando emblema della reificazione del soggetto. Gli oggetti non sono semplicemente riprodotti o esasperati, ma diventano piuttosto «l’immagine enigmatica degli oggetti stessi, composta dei loro sparsi frammenti»21. Attraverso questo mezzo, per così dire indiretto, si delinea il già citato crittogramma della tarda fase capitalistica che può quindi affiorare, oltre che da elementi narrativi o stilistici, da questa natura ibrida del testo, risultato di una compenetrazione tra pittura e letteratura: «molti passi fondamentali di Kafka si leggono come se fossero la traduzione verbale di quadri espressionisti che avrebbero dovuto venir dipinti»22. Adorno fornisce anche un esempio di questa commistione tra pittura e letteratura, ovvero il celebre finale de Il processo, la scena che porta bruscamente a termine l’epopea di Josef K. senza suggerire una redenzione o qualcosa che vada oltre la pura contingenza. Come nota Pietro Citati, «nella condanna avveniva l’unio mystica tra l’uomo e il suo Dio. Qui invece, nell’ultima scena del Processo, la condanna non genera nessuna luce o trasfigurazione»23. È un momento memorabile e profondamente straniante, che sembra venire direttamente da un dipinto di Munch (grande anticipatore dell’espressionismo) o di Kirchner. Eppure questo epilogo non chiude davvero il romanzo, che continua a interrogare i lettori nello stesso modo in cui Josef K. si interroga, senza trovare una risposta, sulla sua colpa, che diventa la nostra e ci spinge a muoversi. A entrare nel campo di forze con più consapevolezza.
(Alessandro Farris)
Note
1 T. W. Adorno, Appunti su Kafka, cit., p. 252.
2 Id., Impegno, in Note per la letteratura, traduzione di Enrico De Angelis, Einaudi, Torino 1979.
3 Sentenza che, è bene dirlo, va intesa come invito a scrivere una poesia veramente contemporanea, che prenda atto dell’orrore del procedere della storia in modi nuovi e reattivi, senza fossilizzarsi sul modello appunto; non come un invito a smettere di scrivere, quanto piuttosto un’esortazione a cessare di scrivere nella maniera in cui si era scritto fino ad allora.
4 Ivi, p. 103.
5 Ivi, p. 92.
6 Quando Adorno parla di ratio e illuminismo, non si riferisce unicamente al movimento culturale settecentesco, ma a tutta la storia della cultura occidentale, che a partire da Omero è stata segnata da un progressivo emergere dell’egemonia della ragione e del concetto a scapito della realtà, dell’esperienza sensibile, e della materialità del fenomeno. La ratio è necessaria, ma non deve arrivare a eliminare anche la natura e l’esperienza, in quanto tra le due entità deve intercorrere un rapporto dialettico (cfr. M. Horkheimer-T. W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, traduzione di Lionello Vinci, Einaudi, Torino 1966, pp. 44-45).
7 Va chiarito però che all’interno del pensiero di Adorno, che in apparenza tende verso un «primato dell’oggetto», la dicotomia soggetto-oggetto tende a sbiadire. I due poli, in continua e mutua tensione, si mediano continuamente l’un l’altro. L’oggetto allora non è mai interamente inconoscibile (come la cosa in sé di Kant), quanto piuttosto una datità nella quale si è già sedimentato il soggetto.
8 T. W. Adorno, Appunti su Kafka, cit., p. 262.
9 Ivi, p. 263.
10 Ibid.
11 Id., Teoria estetica, a cura Fabrizio Desideri e Giovanni Matteucci, Einaudi, Torino 2009, p. 308.
12 cfr. Id. , Appunti su Kafka, cit. p. 263.
13 F. Kafka, Il castello, traduzione di Umberto Gandini, Feltrinelli, Milano 1994, p. 97.
14 R. Calasso, K., Adelphi, Milano 2002, p. 33.
15 Ivi, p. 226.
16 T. W. Adorno, Teoria estetica, cit. p. 309.
17 Id., Impegno, cit., p. 106.
18 Id., Appunti su Kafka, cit. p. 274.
19 Ivi, p. 271.
20 Ivi, p. 270.
21 Ivi, p. 273.
22 Ibid.
23 P. Citati, Kafka, Adelphi, Milano 2007, p. 190.
Bibliografia
T. W. Adorno, Appunti su Kafka, in Prismi. Saggi sulla critica della cultura, traduzione di Enrico Filippini, Einaudi, Torino 1972.
Id., Impegno, in Note per la letteratura 1961-1968, traduzione di Enrico de Angelis, Einaudi, Torino 1979.
Id., Teoria estetica, a cura Fabrizio Desideri e Giovanni Matteucci, Einaudi, Torino 2009.
Id., L’arte e le arti, in Parva Aesthetica. Saggi 1958-1967, traduzione di Roberto Masiero, Mimesis, Milano-Udine 2011.
Id., Ohne Leitbild. Parva Aesthetica, in Schriften 10.1. Kulturkritik und Gesellschaft I, Suhrkamp, Francoforte 1967.
R. Calasso, K., Adelphi, Milano 2002.
P. Citati, Kafka, Adelphi, Milano 2007.
F. Kafka, Il castello, traduzione di Umberto Gandini, Feltrinelli, Milano 1994.
Id., Il processo, traduzione di Giorgio Zampa, Adelphi, Milano 1973.
Id., Il processo, traduzione di Primo Levi, Einaudi, Torino 1983.
M. Horkheimer-T. W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, traduzione di Lionello Vinci, Einaudi, Torino 1966.