Michel Simion recensisce Kafka sulla spiaggia di Murakami Haruki
Tamura Kafka è un ragazzino di 15 anni. Abita a Nagoya e il suo migliore amico, un ragazzino immaginario di nome Corvo, lo definisce il ragazzo più tosto del mondo. Non può essere altrimenti se decidi di scappare dalla casa paterna di Tokyo per rifugiarti nel sud del Giappone.
Dove? Non si sa. Perché? Non è ben chiaro. L’importante è andare lontano, lasciarsi alle spalle le stranezze del padre scultore.
Nakata è un anziano di 65 anni. Abita a Nagoya e non ha un migliore amico. E’ solo, invalido mentalmente ma ha tanti gatti che parlano con lui. Anche lui fugge, anche lui non ha una meta precisa e anche lui è spinto da qualcosa di imperscrutabile che lo spinge ad uccidere un demoniaco scultore di nome Johnny Walker. Sì, come il whiskey.
Haruki Murakami ha una vera e propria passione per i parallelismi; lo si vede nella Fine del Mondo e il paese delle meraviglie, lo si vede in 19Q4, e lo si vede con ancora più forza in Kafka sulla spiaggia.
I personaggi compiono le azioni non perché le vogliano ma perché così è inciso in una pietra custodita nel tempio di Lachesi; Tamura ucciderà il padre e giacerà con sua madre non perché lo voglia ma perché qualcun altro ha deciso per lui.
Allo stesso modo Nakata ucciderà Johnny Walker non perché lo voglia ma perché qualcun altro ha deciso per lui, così come qualcun altro ha deciso per lui che egli debba peregrinare alla ricerca della “pietra che apre il passaggio”.
Naturalmente Kafka sulla spiaggia non è solo un’accozzaglia di avvenimenti inquietanti fini a sé stessi, così come il Processo di Kafka non è solo un groviglio di situazioni grottesche che portano all’omicidio di un uomo.
Kafka sulla Spiaggia ha delle sfumature politiche non indifferenti, tutte legate al vero inizio della storia di Tamura e Nakata, quel pomeriggio di maggio del 1945 in cui «gli alunni erano andati in montagna a prendere funghi ed erano svenuti tutti e 16, anche chi non gli aveva mangiati.»
Tramite un espediente alla Lewis Carroll, Murakami ci catapulta al tramonto della seconda guerra mondiale, a quei concitati momenti in cui gli enormi B52 americani sorvolavano il cielo nipponico, sganciando ordigni sperimentali.
Nakata è il vecchio Giappone, quello che non accetta l’occupazione americana dopo la seconda guerra mondiale e si chiude nel suo mondo naïf.
Tamura è il nuovo Giappone, quello che sa di dipendere in tutto e per tutto dagli altri e lo accetta, cercando di inserirsi negli interstizi della storia e plasmare un nuovo sé stesso, rinnovato e migliore.
Kafka sulla spiaggia è tante cose in un unico corpo, una storia d’amore impossibile tra un figlio e una madre, il racconto di una donna intrappolata nel corpo di un uomo, la storia di un vecchio a cui hanno rubato l’infanzia e il futuro, la cronaca di eventi straordinari e inspiegabili come pesci e sanguisughe che calano dal cielo, di whiskey che decapitano gatti, di camionisti che vanno a letto con giovani prostitute filosofe.
Questa è la superficie.
Nel sottobosco della trama, Kafka sulla spiaggia è un manifesto su come fare la pace con il proprio passato ed andare oltre, senza impantanarsi nell’oblio della foresta ma accogliendo l’incognita della metropoli, perché la vita è quello che è.