La Galassia Niépce ⥀ Dialogo con Lamberto Pignotti

Valerio Cuccaroni intervista Lamberto Pignotti

Lamberto Pignotti, padre della poesia visiva, è intervenuto al nostro festival della poesia totale La Punta della Lingua, domenica 19 e lunedì 20 giugno scorsi, in occasione dell’inaugurazione della mostra VerboVisioni, nelle due sedi della Mole Vanvitelliana di Ancona e della Libreria Catap di Macerata, insieme a Carlo Marcello Conti, artista verbovisivo ed editore con Campanotto.

Dialogando tra noi sullo stato dell’arte contemporanea, Pignotti ha affermato che siamo usciti dalla Galassia Gutemberg, l’era della scrittura a stampa analizzata da Marshall McLuhan, per entrare dalla Galassia Nièpce, l’era dell’immagine simboleggiata da colui che scattò la prima fotografia, Joseph Nicéphore Niépce.

Durante l’estate abbiamo ripreso quel dialogo, sia per corrispondenza sia dal vivo, nella sua casa di villeggiatura a Pesaro. Di seguito potete trovare il dialogo epistolare e la video-intervista.

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Valerio Cuccaroni: Così come, dicevi, negli anni Sessanta voi avanguardisti del Gruppo 70 eravate stanchi della Galassia Gutemberg, ora anche la Galassia Niépce ti è venuta a noia. Cosa significa questa presa di posizione?

Lamberto Pignotti: Mi verrebbe voglia di risponderti parafrasando a memoria un passo tratto dalle Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar: «Tutto quello che ti dico qui può essere falsato da ciò che non ti dico».

Non è facile rendere l’idea di due grandi immagini, di due grandi galassie, che possono apparire a un tempo contrapposte e sovrapposte. Occorre anche richiamarsi a tempi diversi che però lasciano affiorare sintomi di saturazione e di sofferenza similari. Da un lato gli anni che vanno dai ’50 ai ’60 del ‘900, dall’altro quelli che vedono il passaggio dagli anni ’10 agli anni ’20 in corso.

Il primo periodo richiamato fa riscontrare una relativa consunzione della parola avvertita come usurata e un suo progressivo avvicinamento all’immagine percepita come area ancora suscettibile di scoperte. Emblematicamente si parla con enfasi allora di «civiltà dell’immagine» con relativo distacco dalla «galassia Gutenberg».

Che la scrittura sia apparsa allora come in fuga dalla pagina e dal libro e propensa a rinnegare almeno in parte la propria identità linguistica avvicinandosi a modalità visive e codici di più immediato impatto comunicativo, lo dimostra il verificarsi quasi simultaneo di varie esperienze.

È l’incalzare,  il sovrapporsi, l’amalgamarsi di esperienze in cui la parola cerca in vario modo di evadere dai confini della galassia Gutenberg.

Da annotare alla rinfusa: concretismi centrifughi, linguaggi analitici, plurilinguismi tecnologici, poesie visive, guerriglie semiologiche, eat poems, azioni poetiche, happenings intermediali, sonorità fluxus, scritture murali, performance plurisensoriali, trailers irriverenti, graffitismi protestativi, flash poems, cinepoesie, installazioni audiovisive, verbovisualità elettroniche…

Il secondo periodo evocato, che va dalla fine degli anni ’10 del 2000 a quelli in corso, fa reattivamente avvertire l’eccesso di una immagine il cui occhio non si accontenta più della sua proverbiale parte ma pretende una dittatura a cui il vigente sistema comunicativo si oppone. Molto opportunamente mi è sembrato in proposito parlare di relativo e globale allontanamento dalla «galassia Niépce».

Tale allontanamento suggerisce alla parola di ritrovare una sua specifica identità che non sia quella assegnata dal consunto logocentrismo e neanche quella acquisita dalle sue più recenti liaisons dangereuses.

La perdita del centro e le acquisite esperienze intermediali paiono consentire alla parola una maggiore libertà di movimento, sia a livello basso, iposintattico e introspettivo, sia a livello alto, ipersemantico ed estroverso.

Un’ottica generalizzata e opportunamente schematizzata può farci ora individuare due piani emergenti assai sintomatici.

C’è un livello «basso» di espressione, di estrema riduzione segnica, di scrittura elementare e iposintattica, palesi ad esempio in forme di scrittura che riprendono il minimalismo concettuale o riferibili all’astrazione radicale. È l’idea di narrare una storia cancellando pagine o lasciandole eloquentemente bianche nel solco di Gustave Doré, è la tendenza a ricominciare dopo aver fatto tabula rasa, è il «vorrei scrivere come se non ci fosse mai stata letteratura» di Šklovskij. Emblematicamente si propone qui la situazione del filosofo Aristippo che, approdato su una spiaggia dopo un naufragio in cui aveva perso tutto, anche i propri scritti, riprende il suo discorso tracciando elementari caratteri sulla sabbia.

E c’è un livello «alto» di espressione, di stratificazione segnica, di scrittura complessa e ipersemantica, evidenti ad esempio in forme letterarie di tipo vagamente intertestuale, multimediale, plurisensoriale, sinestetico. Ciò che al livello basso si cerca di rimuovere, qui si tende a metabolizzare. È ora in gioco la sfida della parola nei riguardi dei new media, tecnologici, elettronici, digitali, olografici, virtuali…, come a suo tempo si è svolto un analogo confronto con la fotografa, il cinema, la pubblicità e i messaggi delle comunicazioni di massa in genere.

La parola ritorna qui alla scrittura e a tutto ciò che in essa si nasconde. Dopotutto ciò che la parola deve dire è l’indicibile, quel qualcosa che per altri versi aveva stregato Eraclito: «La trama nascosta è più forte di quella manifesta».

A questi due livelli estremi si rifiuta generalmente di sfornare novità di stagione, mentre con alquanta lucidità si avviano progetti e si impostano operazioni in vista di una radicale ri-creazione dei modi della creazione. Più che a partecipare a un singolo gioco, si mira consapevolmente a praticare, nel più vasto senso dell’agonismo culturale, il pentathlon o addirittura il decathlon…

 


 

La videointervista è visibile qui: