La libertà e la caduta ⥀ Il volo onirico di Hayao Miyazaki
Una lettura dell’opera di Hayao Miyazaki secondo la dialettica mitica tra il volo e la sua negazione, la caduta
«Quello di volersi librare nel cielo, è il sogno dell’umanità»: perdere peso, divenire leggeri, mutare la propria sostanza fino al limite della consistenza e aprire le braccia al vento. C’è forse un sogno più recondito, democratico, diffuso, di quello di volare? Forse non c’è davvero, come sostiene il Conte Caproni rivolgendosi in sogno a Jirō Horikoshi, protagonista dell’ultimo film del maestro Hayao Miyazaki, Si alza il vento (2013). Il futuro progettista del caccia leggero Mitsubishi A6M, meglio conosciuto come Zero (Rei, 零), incontra in sogno una figura leggendaria dell’aviazione, Giovanni Battista Caproni, ingegnere italiano e ideatore di avveniristici monoplani e biplani a cavallo tra le due guerre. O, meglio, s’incontrano a metà strada, come se le rispettive onironautiche – perché la lucidità del sogno dipinto da Miyazaki è sbalorditiva – comunicassero fino a dare luogo a una dimensione unica e simbiotica, oltre le epoche, in grado di scardinare il tempo della realtà. Sognano, e si trovano in un mondo leggero, dove la struttura degli aeroplani si può esplorare durante il volo, camminando sulle ali come se fossero passerelle. Un mondo in cui le leggi della dinamica cedono alla prepotenza della tecnica, al fragore delle eliche turbinanti e al sibilo delle ali nell’atmosfera, ma anche all’umano, ai corpi che si librano inconsistenti all’interno della visione.

L’onirico fluido e ovattato di Miyazaki è un luogo in cui le forze si attenuano al limite dell’essere percepite, dove gli attriti sono metafisici e dove metafisica è la domanda: «Tu, fra un mondo con le piramidi e un mondo senza piramidi, quale dei due preferisci?». La risposta di Jirō è scontata, preferisce una realtà – anche se, a essere precisi, non proprio di realtà si tratta – che si dispieghi nella molteplicità delle forme, uno spazio che permetta la creazione di macchine capaci del volo, anche se queste, inevitabilmente, dovessero correre il rischio di essere impiegate come strumenti di distruzione. Ed ecco, come nel risveglio improvviso dal sogno, apparire il rovescio, la caduta. È già tutto qui: abbiamo quello che ha tutta l’aria di essere un mitologema, il volo, e la sua negazione, l’impossibilità fisica di realizzarlo senza ricorrere alla tecnica, che ne relega l’attualizzazione al dominio dei sogni. Un mitologema perché, dal mythos icariano del labirinto cretese, alla conquista dei cieli – e dello spazio – del secolo breve, il racconto si è reincarnato praticamente inalterato, vestendo le forme, le epoche, attraversando i destini e le esistenze individuali. Si potrebbe parlare di una pathosformel, per giocare con il lessico warburghiano, una formula di pathos arcaica, perturbante, sospesa tra l’armonia apollinea della danza aerea e il rovescio dionisiaco della caduta. Una formula che, come ha specificato Warburg, si struttura dialetticamente – «l’ethos apollineo germoglia insieme con il pathos dionisiaco quasi come un duplice ramo da un medesimo tronco» (La rinascita del paganesimo antico, 306-307) – come dialettica è la prospettiva dell’ingegneria aeronautica, tra il sogno armonico della sconfitta della gravità e la produzione di macchine da guerra. Una formula che racchiude una forma, quella dell’ala sollevata dal vento, e un contenuto patico, emotivo, che oscilla tra la gioia della libertà assoluta – in senso etimologico, ab-soluta, sciolta da tutto, una libertà, reiteratamente, libera – e il terrore estatico della distruzione, dello schianto e del ritorno al reale. E proprio in questa dinamica, tra la singolarità della libertà e la costellazione tripartita della caduta – distruzione, schianto, ritorno al reale – si trova la chiave interpretativa che permette, secondo una prospettiva ampia, di leggere tutta l’opera di Miyazaki.
Ma procediamo per gradi e, assecondando un inconscio e inscalfibile modello – colpa di Hegel, di Sartre forse – partiamo dal certo. L’uomo, sogna di volare. E lo fa senza grandi differenziazioni. Forse perché, come sostiene Bachelard (Psicanalisi dell’aria, 16), si tratta di un sogno di vita istintiva, estremamente semplice, replicabile e difficilmente alterabile. La dinamica del volo onirico è sempre, più o meno, la medesima: come Jirō, si aspetta un refolo di vento, ci si alza in punta di piedi e, prendendo il coraggio a due mani, si spicca un balzo per entrare nel dominio dell’aria. Braccia aperte, tese, a simulare quelle ali che l’evoluzione non ci ha donato. E qui sorge un problema: non saremmo più felici se potessimo volteggiare nel cielo? Saremmo come gli uccelli, «le più liete creature del mondo», a sentire Leopardi (Poesie e prose, 153). Creature che sfuggono alla noia perché hanno abbondanza di immagini uditive e visive, godono di spettacoli immensi e mai definitivi, insondabili, grazie a «un grandissimo uso d’immaginativa» (159). Forse Miyazaki sarebbe d’accordo. La sua opera è costellata di metafore del volo – evidenza su cui già in tanti si sono fermati, suggellata dal meraviglioso videosaggio di Zach Prewitt, Miyazaki Dreams of Flying, del 2017. Con Nausicaä (1984) ci troviamo già nel dominio dell’aereo, non a caso la comunità della protagonista, una delle poche rimaste a resistere all’avanzata del Mar Marcio, abita nella Kaze no tani, la Valle del Vento. Una terra che sopravvive, nello scenario post-apocalittico, proprio perché sopravento rispetto alle spore tossiche che la gigantesca foresta emette nell’atmosfera a causa di un disastro nucleare avvenuto mille anni prima. Uno scenario di distruzione, contrapposto all’armonia aerea della Valle del Vento, sul quale si innesta lo schianto: una nave appartenente all’Impero di Tolmechia cade tra i campi della valle, generando un rovesciamento. La morte del padre di Nausicaä per mano dei Tolmechiani, l’assoggettamento della popolazione, il ritorno alla realtà di un mondo impraticabile. Una impossibilità da cui si sfugge ancora nel dominio dell’aereo: Nausicaä scappa dalla prigionia a bordo di un Mehve – un velivolo a metà tra l’aliante e la tavola da surf – declinando la propria libertà nelle forme alate di una macchina immaginaria.

Come immaginaria è la forma del sacrificio della protagonista, trascesa in una visione contemplativa, come una Madonna secentesca nell’atto di salire al cielo: la scena finale, che vede Nausicaä elevarsi a mezz’aria sospinta da un tappeto di tentacoli dorati, ricorda incredibilmente un certo Seicento bolognese e, in particolare, l’Ascensione di Guido Reni.

Tutto, in Laputa, si configura a partire dalle dinamiche del volo: l’intero lungometraggio è un inseguimento, per lo più aereo, nel quale i protagonisti, Pazu e Sheeta, fuggono dalle mire malvagie del colonnello Muska saltando di velivolo in velivolo, di ala in ala, di macchina immaginaria in macchina immaginaria. Sfuggono guadagnando il cielo sui flapper, piccoli aeromobili biposto simili a una libellula, volano con i pirati di Dola sulla Tiger Moth – ancora un velivolo-insetto magico, secondo un’altra dinamica miyazakiana che andrebbe indagata – si fanno portare dal vento sull’aliante-coffa, si arrampicano, quasi fluttuando, sulle radici dell’isola nel cielo attraversando le sue rovine. Anche qui, al culmine della caduta, mentre i frammenti dell’isola si disgregano, l’immagine salvifica è aerea e immaginaria. La caduta – dominio della pesantezza (Bachelard, 104) – si traduce in un’ascensione: la natura di Laputa, liberata dal peso della tecnica e dall’ombra della distruzione, inizia a prendere quota. Una natura liberata che, sciolta dalla prigionia tecnologica dell’umano, si fa manifesta di tutta la bellezza del mondo. Di quella bellezza che i film, secondo Miyazaki, devono mostrare – «il mondo è bello, è solo che noi non ce ne accorgiamo. Voglio vedere con questi occhi» (Never- Ending Man: Hayao Miyazaki, 2013) – e che sembra più intensa se vista dall’alto, dalla dimensione aerea del volo. Uno spazio onirico nel quale, parafrasando Leopardi, è possibile cambiare «luogo a ogni tratto» (Poesie e prose, 157), passare «di paese in paese quanto tu vuoi lontano», vedere e provare «cose infinite e diversissime» (157-158), nutrire l’immaginazione di stimoli sempre nuovi. Anche Laputa si chiude dunque con un’immagine aerea, con Pazu e Sheeta che fendono i cieli, a bordo dell’aliante-coffa, mentre sullo sfondo l’isola s’innalza verso l’atmosfera.

Pare evidente che il volo, per Miyazaki, rappresenti questo spazio libero, di bellezza ab-soluta, uno spazio altro rispetto al reale della tecnica e del quotidiano, dove è possibile recuperare la meraviglia del naturale nel dominio dell’immaginazione. E proprio a fare luce su questo ultimo punto, giunge Totoro (1988), forse il film più rappresentativo del regista di Tokyo. L’aereo in tutte le sue declinazione cede terreno al fantastico, tra le apparizioni fantasmatiche dei nerini del buio e dei corrifuliggine. Totoro è un troll giapponese, uno spirito del naturale, guardiano di una foresta, che si manifesta per aiutare due bambine (Mei e Satsuki) in un momento di difficoltà. È un phantasma che solo i bambini possono vedere, un’apparizione della natura che può essere colta solo attraverso l’immaginazione fanciullesca. Un’immaginazione all’apice, senza compromessi con la vita adulta e con la tecnica che, ancora Leopardi, direbbe antica (Zibaldone, 57), di una vivacità tale da impedire la noia (175-176) – caratteristica non a caso condivisa dalle creature volanti, come gli uccelli – e in grado di scorgere ciò che gli adulti non possono vedere: «I fanciulli con la vivacità della loro immaginazione […] scuoprono e vedono evidentemente delle somiglianze e affinità fra cose disparatissime» (2019). E infatti vedono la natura immaginifica oltre la natura, Totoro fermo, immobile, ad aspettare un gattobus volante. È un’immaginazione naturale, della stessa foggia del mondo e, proprio per questo, capace di comprenderne anche le meraviglie nascoste: «Gli effetti naturali bisogna ricercarli nelle persone naturali […]. Tali sono i fanciulli» (644). E forse sarebbe ancora d’accordo Miyazaki, i cui protagonisti sono quasi tutti bambini – a eccezione di Marco Pagot in Porco Rosso (1992) e Lupin (1979), comunque un ladro fanciullo e gentiluomo, e un asso dell’aviazione dalle magiche sembianze di un maiale, un’altra creatura da riportare al reame dell’aereo, dell’inconsistente, dell’immaginario.

Bisogna essere in un certo modo fanciulli, infatti, per entrare nel Regno dei sogni e della follia (2013), come ha definito lo Studio Ghibli il documentarista Mami Sunada. Certamente bisogna esserlo per accedere alla dimensione immaginaria nei lavori miyazakiani. Bisogna dimenticarsi della vita interna – «il sentimento dell’esistenza» (Zibaldone, 3923), il pensiero, le ragioni complesse – delle regole della contemporaneità, della tecnica e della fisica. Bisogna, quasi sempre, sognare di volare. Nei lungometraggi di Miyazaki, l’ingresso nella dimensione onirica e immaginaria è quasi sempre segnato dal volo, da quella «impressione intima di alleggerimento» (Bachelard, 49) che non può derivare dal mondo esterno, ma solo dalla predisposizione all’immaginario. Il volo è infatti, come si è detto, un prodotto dell’immaginazione umana, un prodotto del desiderio di libertà e di purezza – in una prospettiva esplicitamente contraria ai postulati della psicanalisi classica (Bachelard, 63). Un desiderio che, puro, si dà solo nei bambini. «Credo che le anime dei bambini siano le eredi della memoria storica delle generazioni precedenti», ha affermato Miyazaki, anime antiche dunque, nella cui immaginazione può manifestarsi la pathosformel originaria del volo, nella semplicità terribile delle proprie polarità, tra la libertà assoluta e la caduta. Un’animo antico e poetico, quello dei fanciulli, come quello di Leopardi, di Miyazaki, di Shelley, nella cui Ode al vento occidentale ritroviamo tutta la costellazione simbolica che abbiamo fino a qui attraversato (I ragazzi che amavano il vento, 41, corsivi miei):
Fossi una foglia secca che tu potessi portare
o una veloce nuvola con te in volo,
un’onda smaniosa del tuo potere,
e condividere l’impulso della tua energia
soltanto meno libero di te, incontrollabile, se solo
o fossi com’ero da bambino, potessi essere
compagno dei tuoi vagabondaggi nel cielo,
come allora, quando sembrava solo un sogno […].
La fanciullezza, il sogno, il volo e l’antico sembrano coincidere nell’opera di Miyazaki. Sono i bambini a possedere la chiave della natura, gli occhi in grado di coglierne i recessi invisibili. Sono i bambini, a poter volare e, immaginando, planare con Totoro sulla campagna di Tokorozawa come Mei e Satsuki, attraversare le risaie su un gattobus a folle velocità. Ne troviamo la conferma in Kiki – Consegne a domicilio (1989), dove la protagonista è una bambina-strega, capace del volo in sella a una scopa magica. Quella di Kiki è una bildung – e si tratta forse dell’unico lavoro di Miyazaki che insiste sul tema della formazione – nella quale la protagonista parte, raggiunta l’età di tredici anni, per svolgere un anno di noviziato lontano da casa. Parte volando, facendo dell’aereo la dimensione del viaggio, del racconto e dell’immaginazione: dalla capacità del volo sono dipendenti le avventure della giovane strega che, giunta in una cittadina marina dall’architettura occidentale – una combinazione immaginifica di provenzale e mitteleuropeo – proprio grazie alla sua straordinaria capacità trova un mestiere. Kiki s’improvvisa corriere, in grado di consegnare pacchi con straordinaria rapidità, ma esposta agli inconvenienti del volteggio tra le nubi, come la pioggia o l’impossibilità di trasportare carichi troppo gravosi.
È grazie al volo che Kiki cresce, matura, si costruisce delle relazioni, diventa adulta. E proprio quando cede all’amicizia e la sua vita si fa più regolare, strutturata, Kiki inizia a perdere la magia: non riesce più a volare, nel tentativo cade e, anche il gatto Jiji, fino ad allora prodigo consigliere dotato di una loquacità incantata, perde le parola. Lo spazio dell’immaginazione si è chiuso all’evidenza della crescita, seccato alla solidità della vita adulta che sancisce il ritorno al reale. Il desiderio di Kiki non è più volto alla libertà, all’aereo, ma alla stabilità, alla terra, alla fermezza. Un desiderio che solo una passione pura e libera, come la necessità di salvare un amico in pericolo – ed ecco, ancora, lo spettro della distruzione – può riaccendere. Kiki, a fatica, torna a spiccare il volo, rinasce, ancora una volta, come creatura magica capace di annullare le leggi della fisica.

Riscopre quella dimensione nascosta della natura, alla quale ha accesso solo l’eterno fanciullo: come San, la Principessa Mononoke (1997), appartiene al reame degli spettri, dei phantasmata, delle creature che lambiscono la soglia tra l’immaginario e il reale, e che devono, costitutivamente, essere libere. Il desiderio di libertà coincide, come si è detto, con la possibilità dell’immaginario e del volo. E questo dipende da una necessità, un’urgenza che traspare in tutti i lungometraggi del maestro Miyazaki: l’atto del volo, come quello del sogno, ma il concetto è estensibile all’atto d’immaginazione tout court, sembra svolgere una funzione fondativa nei confronti del reale.
È evidente in Porco Rosso, dove la dimensione immaginaria e aerea, agitata dal rombo degli idrovolanti, si pone come l’atto fondativo della realtà della stasi, dell’immobilità di Marco, confinato sulla costa dalmata nell’attesa di una taglia da riscuotere, come della scintilla che smuova il racconto e lo catapulti nel regno delle immagini. Come immaginativo e fondativo è l’atto attraverso il quale il monoplano Savoia S.21 rinasce a nuova vita grazie all’intervento di una bimba, Fio, che ripara il velivolo permettendogli di riguadagnare i cieli, i sogni, le avventure dell’immaginario. Quando un personaggio entra nella dimensione immaginifica infatti – come Chihiro, che attraversando un tunnel entra nella Città incantata (2001) – si trova sì nel regno del fantastico, della libertà, ma al tempo stesso pone un reale al di fuori di esso (Sartre, 270-271). Una realtà a cui fare ritorno dunque, opposta alla dimensione onirica e leggera dell’immaginario. La città incantata, tratta dal romanzo Il meraviglioso paese oltre la nebbia (1987) di Sachiko Kashiwaba, aggiunge un problema alla questione: Chihiro entra nella dimensione del fantastico, ma lo fa indipendentemente dalla propria volontà. L’ingresso nel mondo incantato non è quindi il risultato del desiderio di libertà della protagonista, ma una costrizione soggiogante, asfissiante come le dinamiche interne all’impianto termale della strega Yubaba. Chihiro è costretta a cadere, perdendo il proprio nome – viene rinominata Sen, secondo una dinamica antica quanto la tradizione del mito orale, che impedisce alla bambina di lasciare la prigionia fantastica – e a lavorare con fatica sotto il controllo degli uomini della strega. Anche in questo caso, è però il volo a sancire il ritorno alla libertà, incarnato dalla sagoma fluttuante del giovane Haki che, tramutato in drago – ancora uno spirito del naturale, che si scoprirà essere la divinità protettrice del fiume Kohaku – trasporta la piccola protagonista verso la soluzione degli incanti maligni.
Nel Castello errante di Howl (2004) troviamo nuovamente una città sospesa, un luogo di liberazione per la protagonista Sophie che, salendo a bordo, sfugge tanto dalla rappresaglia della Strega delle Lande quanto dallo scenario incombente della guerra. Il castello di Howl è, per eccellenza, il luogo della magia, uno spazio che si anima di un intero immaginario stregato: il maniero sospeso è alimentato dal demone del fuoco Calcifer, rappresentazione dell’energia indomabile e capricciosa del naturale, la porta del castello è una soglia magica, in grado di condurre in quattro diverse destinazioni, e il proprietario, l’ineffabile mago Howl, è una creatura volta alla trasmutazione. È conosciuto in maniera differente in diverse parti del mondo – da Jenkins all’arturiano Pendragon – e utilizza queste identità molteplici al fine di evitare di prendere parte alla guerra e di obbedire ai dettami della corona. Nel lungometraggio, trasposizione del romanzo omonimo di Diana Wynne Jones (1986), ritroviamo diversi temi del primo Miyazaki, dal castello volante dagli echi incantati di Thomas Mann – sulla scorta di Laputa – alla dinamica tripartita della caduta: la distruzione, incarnata dal topos ricorrente degli aerei bombardieri – contraddizione insita alla natura del volo su cui Miyazaki non smette di tornare, come nel Regno dei sogni e della follia – lo schianto – anche il castello cede alla concatenazione degli eventi e si disgrega – e il ritorno al reale, nell’impossibilità di procrastinare, da parte di Howl, il proprio contributo alle sorti belliche. Il riscatto, capace di sciogliere le catene di una magia soggiogante, come nel caso delle terme di Yubaba, è innescato anche qui da un elemento aereo: Howl, completamente calato nella forma di un uccello, viene ringraziato con un bacio da Sophie, secondo un altro topos favolistico diffuso. Un bacio che risveglia anche il principe Justin, costretto nelle fattezze di Testa di Rapa da una maledizione, e che sancisce il ritorno di Calcifer, ormai libero, senza vincoli contrattuali con Howl, conducendo verso la fine del racconto. Il finale è costruito su un’immagine simile a quella di Laputa, dove i protagonisti Howl e Sophie sono visti a bordo di un ricostruito castello volante, sullo sfondo della tecnica sconfitta, lo stormo dei bombardieri che s’allontana al finire della guerra.

Quello di Miyazaki è dunque un mondo fluttuante, aereo – qualità che si ritrovano anche in Ponyo sulla scogliera (2008), dove la protagonista è un essere marino da ricondurre al dominio del naturale, una bimba visibile solo dai fanciulli e in grado di farsi beffe delle dinamiche della gravità danzando sulle onde – un mondo onirico dove, come sostiene il conte Caproni in Si alza il vento, «si può andare dovunque». Il mondo di Miyazaki «è un sogno», il sogno antico, fanciullesco e libero, di volare. E non è un caso che l’ultimo lungometraggio del maestro si fermi così esplicitamente sulla costellazione simbolica che abbiamo esplorato: sogno e veglia si confondono continuamente nel regno dell’immaginario, un immaginario sempre libero, che piega le regole e si dispiega sempre nella dimensione del volo. Una passione antica, più forte dello spettacolo spaventoso della distruzione, qui rappresentata dalla catastrofe naturale del terremoto, ma anche dalla minaccia incombente della seconda guerra mondiale e dalla salute incerta di Nahoko. Un personaggio tratto dal romanzo omonimo di Tatsuo Hori (1936-1937), ambientato in un sanatorio e probabilmente ispirato ancora alla Montagna incantata di Mann – debito che rivela anche Miyazaki, inserendo il personaggio di Castorp in Si alza il vento e declinandolo nella veste profetica dell’amico-maestro, la cui paideia riesce a sciogliere i dubbi che permangono nell’animo di Jirō.
Perché, Jirō Horikoshi, è in un certo modo Miyazaki stesso: è l’emblema di chi sogna di volare ma al tempo stesso è cosciente dello spettro della caduta. Di chi conosce cosa si cela dietro alla formula di pathos arcaica del volo e che non riesce ad abbracciare pienamente la propria libertà, perché imbrigliato dal terrore del rovesciamento. È la rappresentazione di tutti noi, che ancora sogniamo di spiegare le ali al vento ma, cresciuti, siamo frenati dalla ragione e dalle impossibilità – si pensi alla figura di Tombo in Kiki, sognatore antesignano di Jirō, un progettista di macchine volanti che deve continuamente fare i conti con lo schianto e con il ritorno al reale. E, in un certo senso, tutti i personaggi del naturale, spiriti indomiti e costitutivamente liberi che si incontrano nelle pellicole del maestro, servono proprio a spingere alla dimenticanza – «è certiss. che tutto quello che noi facciamo lo facciamo in forza di una distrazione e di una dimenticanza» (Zibaldone, 104) – all’abbandonarsi all’immaginario senza chiedere risposte alla ragione. Agiscono come catalizzatori di irrealtà, creatori di vento: «Le vent se lève!… Il faut tenter de vivre!» recita il verso del Cimitière marin (Valéry, 1920) dal quale Hori ha tratto il titolo del proprio romanzo. Tentare, ma soprattutto lasciarsi tentare, chiudere gli occhi, alzarsi in punta di piedi e aprire le braccia in attesa. O, per dirla con l’ingegner Caproni: «Il vento soffia ancora, eh?».
Opere citate
Bachelard, Gaston, Psicanalisi dell’aria. L’ascesa e la caduta, Red Edizioni, Milano 2007.
Hori, Tatsuo, Si alza il vento, Kappalab, Bologna 2014.
Jones, Diana Wynne, Il castello errante di Howl, Kappalab, Bologna 2013.
Kashiwaba, Sachiko, Il meraviglioso paese oltre la nebbia, Kappa Edizioni, Bologna 2003.
Leopardi, Giacomo, Poesie e prose, a cura di Rolando Damiani e Mario Andrea Rigoni, Mondadori, Milano 1987.
Id., Zibaldone, a cura di Rolando Damiani, Mondadori, Milano 1997.
Mann, Thomas, La montagna incantata, trad. di Ervino Pocar, Corbaccio, Milano 2011.
Sartre, Jean Paul, L’immaginario. Psicologia fenomenologica dell’immaginazione, a cura di Raoul Kirchmayr, Einaudi, Torino 2007.
Shelley, Keats, Byron, I ragazzi che amavano il vento, a cura di Roberto Mussapi, Feltrinelli, Milano 2019.
Valéry, Paul, Opere scelte, a cura di Maria Teresa Giaveri, Mondadori, Milano 2014.
Warburg, Aby, Opere. La rinascita del paganesimo antico e altri scritti, a cura di Maurizio Ghelardi, Aragno, Torino 2004.
Documentari
Arakawa, Kaku, Never-Ending Man: Hayao Miyazaki, NHK, 2013.
Sunada Mami, Il regno dei sogni e della follia, Dwango, 2013.
Lungometraggi di Hayao Miyazaki
Lupin III – Il castello di Cagliostro, TMS Entertainment, 1979.
Nausicaä della Valle del vento, Tokuma Shoten, 1984.
Laputa – Castello nel cielo, Studio Ghibli, 1986.
Il mio vicino Totoro, Studio Ghibli, 1988.
Kiki – Consegne a domicilio, Studio Ghibli, 1989.
Porco Rosso, Studio Ghibli, 1992.
Principessa Mononoke, Studio Ghibli, 1997.
La città incantata, Studio Ghibli, 2001.
Il castello errante di Howl, Studio Ghibli, 2004.
Ponyo sulla scogliera, Studio Ghibli, 2008.
Si alza il vento, Studio Ghibli, 2013.

Tommaso Grandi
Tommaso Grandi è dottorando in Culture Letterarie e Filologiche presso l’Università di Bologna, in cotutela con la Sorbonne Université di Parigi. Collabora con il FestivalFilosofia e, con Rossella Renzi, dirige la sezione "Letteratura" di Argo. Si occupa di letteratura italiana contemporanea e dell’etа romantica, dei rapporti tra letteratura e filosofia e del legame tra letteratura e arti visive. Oggetto particolare della sua ricerca sono il pensiero e l’opera di Giacomo Leopardi e di Pier Paolo Pasolini. Suoi testi poetici sono stati pubblicati su blog e riviste online e nella rubrica La bottega della poesia (La Repubblica, Bologna – a cura di Alberto Bertoni).